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Ho sposato umilmente la causa della Storia dell'Arte per la primaria necessità di nobilitare il mio animo e conferirgli degnamente respiro. M'impegno quotidianamente, con i miei indiscussi limiti del caso, di trasmettere sentitamente ai miei simili, che la vita ha nominato miei interlocutori, non tanto il sapere, bensì l'amore per il sapere. E' l'unico patrimonio di cui dispongo al momento.

CHI ERA WILLY BECK? OMAGGIO ALL’ UOMO, ALL’ AMICO, ALLO STUDIOSO

Al mondo della didattica e della cultura, di nuova generazione, del Piemonte e/o a chi si è avvicinato solo di recente al variegato panorama della Storia dell’arte, quello di Willy Beck suonerà “nuovo” come nome proprio di persona .

E, come recita il titolo, la domanda sorgerebbe spontanea:
«Chi era Willy Beck

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Ecco, bastano davvero poche note biografiche per farsene rapidamente un’idea!

Nato a Torino nel 1952, si laureò in lettere nel 1985 con una tesi in Storia della critica d’arte su Carlo Ludovico Ragghianti, relatore Gianni Carlo Sciolla.
Sul finire degli anni Ottanta si dedicò per oltre un ventennio e con indiscusso rigore metodologico alla didattica, all’allestimento di mostre monografiche di artisti contemporanei, alla stesura di cataloghi e all’attività di conferenziere, collaborando, non ultimo, con le maggiori istituzioni museali del capoluogo piemontese, quali il Centro Pannunzio, gli Amici del Museo di Antichità, il Museo S. Accorsi, Palazzo Bricherasio e Casa Zuccala di Marentino.
Insegnò “meravigliosamente” (l’avverbio è d’obbligo in questo caso) Storia dell’arte a Ivrea, Castellamonte Canavese e Torino, integrando la sua attività di docente alla promozione della, di lui, rinomata Associazione culturale “Gli amici di Willy”.
Credo che queste brevi battute bastino a tracciare l’alto profilo professionale dell’uomo, dello studioso e del “caro” amico che ho avuto, come tanti, il privilegio (poiché questo è il termine più appropriato), di conoscere, frequentare ed “elogiare” nel corso di tre anni – pochi, troppo pochi, ma inequivocabilmente indelebili – prima della prematura e innatesa scomparsa in quel triste 12 agosto 2011 all’età di 59 anni.
Non ho nessuna intenzione di ricordare la sequenza di quell’evento doloroso e dal sapore ancora amaro sulle labbra.
Intendo, piuttosto, ricordare ciò che era e rappresentava per ciascuno che con lui condivideva l’incondizionata passione per l’Arte e l’altrettanto incondizionato amore per la vita.
Ognuno, a proprio modo, ne custodisce gelosamente e intimamente il ricordo, a sua volta, costellato di immagini, parole, sguardi, sorrisi e intuizioni.
Il mio o almeno, fra gli innumeroli archiviati, quello di più viva ed educativa memoria è quanto segue.

Era il mio secondo giorno in quella che sarebbe divenuta la mia città adottiva e il primo da supplente di Storia dell’Arte in un Liceo Artistico del centro storico torinese. Proprio lì, a pochi passi (caso o fato vollero) dalla caserma ove mio padre, appena 46 anni prima, aveva prestato leva e i cui tanti divertenti e curiosi aneddoti tornavano, ora, ad affollare la mia mente in quella tiepida alba di lunedì, mentre a passo svelto mi accingevo a fronteggiare timidamente la veste superba della Gran Madre, al di là del Po.
Presi servizio e conobbi le classi secondo il rituale (anche se per me era, piuttosto, “iniziazione” del comune rituale) e le ore trascorsero spedite.
Mi recai in sala docenti, sempre timidamente, e fu qui che lo vidi per la primissima e folgorante volta.
Mi si avvicinò con quel sorriso sempre acceso sul volto e con quel suo modo affabile, accompagnato da un timbro vocale modulatamente caldo. Fece gli onori di casa, come galateo vuole verso i nuovi colleghi, e si mise da subito a totale disposizione per eventuali chiarimenti e delucidazioni relativi alla programmazione e alle scadenze in seno al dipartimento.
E le sue non furono solo promesse verbali, ma concrete e instancabilmente rinnovate ogni volta senza alcuna remora, senza falsa cortesia di alcun genere.

Io, neo-supplente inesperto, seppur entusiasticamente coinvolto nella complessa missione assunta, non ebbi meno il suo prezioso sostegno, la sua, oggi più che mai, compianta presenza e il suo quotidiano «Filippo! Ciao caro!»

Dicevo, tante, troppe le immagini di quell’anno scolastico pienamente condiviso con colui che affettuosamente chiamavo “Maestro”.
Ma fra tutte, fu una quella più carica di valore etico – educativo che in sintesi voglio ricordare.
Durante un intervallo uscii nel cortile interno dell’istituto per i famosi dieci minuti d’aria e, come sovente mi capitava di notare, Willy se ne stava eretto e fermo con tutta la possenza fisica di cui era dotato; il capo chino sull’ennesimo catalogo di una delle tante mostre allestite in città.
Ingenuamente,oggi direi stupidamente, mi avvicinai e sorridente improvvisai:
«Willy caro, come al solito studi! Ma un uomo del tuo spessore culturale ha ancora bisogno di far questo?»
Furono le mie ultime parole famose! Staccò per pochi istanti gli occhi dal testo e gelandomi mi rispose: «Caro Filippo, il giorno che deciderai di non studiare più vorrà dire che dovrai cambiare professione. Ricordati, caro, non devi smettere mai di studiare!»
Questo è il più inestimabile degli insegnamenti lasciatimi in eredità da questo grande uomo, geniale studioso, gentile amico.
Willy Beck fu questo… e altro ancora: uno spirito libero dotato di una semplicità disarmante.
In una delle ultime occasioni in cui potei godere della sua compagnia, ricordo, eravano a cena in un locale e rivolgendosi a mia moglie chiese gentilmente:
«Agata, quando verrò a cena da voi, mi faresti, cortesemente, la pasta con le sarde?»

Non di rado,quando le cose non vanno come previsto,alzo gli occhi e ho come la sensazione di udirlo ripetermi ancora: «Ciao caro!»

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Ed è in quell’attimo che trovo l’input per credere ancora alla causa che ho voluto così tenacemente sposare e per cui, come altri, mi spendo come posso, con tutti gli inevitabili limiti del caso.

Questo scritto vuole essere il mio umile omaggio a colui che mi ha lasciato in eredità un patrimonio senza tempo e a cui attingo fedelmente ogni giorno nella sola maniera che mi è concessa.

N.B.Ringrazio sentitamente la cara amica Patrizia, sorella di Willy, per avermi permesso, con il garbo e il calore che da sempre la contraddistinguono, di redigere e pubblicare questo umile ma doveroso articolo, augurandole, altresì, tutto il bene di cui avrà bisogno.

(FIlippo Musumeci)

Pietro Novelli, il Monrealese: un pittore “provinciale”?

Pietro Novelli, il Monrealese: un pittore “provinciale”?

di Filippo Musumeci

Chi ha studi filosofici alle spalle (io no, purtroppo) insegna che Immanuel Kant, nella sua “Critica del giudizio” (1790), asserisca quanto i giudizi estetici siano giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto. Uhm, non sarebbe male riprendere “adeguatamente” in mano questa pietra miliare della filosofia moderna!! In parole povere – correggetemi se sbaglio – il bello non è una qualità oggettiva (propria) delle cose, poiché non esistono oggetti belli di per sé, ma è il singolo individuo ad attribuire tale caratteristica all’opera d’arte. Ora, quante volte siamo stati portati a subire l’influenza di un giudizio estetico espresso da un individuo socialmente autorevole, al punto tale da vivere un divario interiore, un acerrimo scontro di vedute tra il nostro, di giudizio (maturato e limato lentamente), e quello austeramente impostoci da altra fonte? Non so voi, a me qualche volta è successo! Ma arriviamo al dunque senza troppi giri inutili di parole, con le quale, poi, non vado certo a nozze. Sarà stato nel febbraio 2003 quando, giunto felicemente al termine del terzultimo esame universitario, ricevetti dalla prof. del corso il severo giudizio “estetico” sull’arte di Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 2 marzo 1603 – Palermo, 27 agosto 1647), definito nell’occasione come un “provinciale” di cui in passato si era detto e scritto più del dovuto e dei reali meriti. Ricordo la disapprovazione e la collera, trattenute a fatica, in quell’affiorante divario interiore, prima succitato, a causa del quale, poi, lasciando la sede a capo chino e  “coda tra le gambe” (avevo alternative?), non godetti neppure del sollievo post-esame e del meritato riposo durante la notte insonne che amaramente ne seguì. Sì, perché a me era stato, piuttosto, insegnato dalla storiografia e dalle spasmodiche visite palermitane al cospetto delle sue tele (disseminate ovunque in città), che la pittura del Monrealese tutto fu tranne che “provinciale”; che fu il massimo interprete nell’isola del Seicento barocco, erede della novità espressive caravaggesche e vandyckiane; che fu osannato dai mecenati insulari (e non solo) a lui contemporanei, i quali facevano a gare per averne un’opera autografa.

LAA006537Pietro Novelli, S. Benedetto distribuisce i pani o S. Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi; 1635; olio su tela; 380 x 520 cm. Abbazia Benedettina di Monreale (PA) – parete destra dello Scalone.

2hg64hlPietro Novelli, San Pietro in carcere liberato dall’Angelo. Olio su tela, sec. XVII. Palermo, Galleria Regionale della Sicilia, Palazzo Abatellis.

Diamine! Possibile sia vera (in barba al furor di popolo), questa storia sul “provinciale”? Possibile che le opere del Monrealese, custodite anche fuori dei confini isolani (Roma, New York, Prado, San Pietroburgo), siano, in fondo, da considerarsi più per il loro valore storico anziché artistico? Possibile, in definitiva, debba accantonare la mia idea a tal proposito e abbracciarne un’altra, ahimè, più amara, ma, forse, veritiera? Ma la notte, seppur insonne, porta consiglio…E che consiglio!! Ricordavo di aver masticato qualcosa circa l’errato giudizio formulato nell’arco del Novecento dalla critica isolana e della superficialità attraverso la quale erano state indagate le componenti stilistiche del Novelli. Il giorno seguente mi recai trafelato alla Biblioteca Universitaria di Catania di p.zza Università. Chiesi in prestito alla allora gentilissima direttrice, di cui serbo superbo ricordo, i due voluminosi cataloghi relativi alle monografiche palermitane: • Guido Di Stefano, Pietro Novelli, il Monrealese, prefazione di Giulio Carlo Argan. Catalogo delle opere e repertori a cura di Angela Mazzè, Flaccovio, Palermo, 1989. • AA. VV., Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra, Palermo, Albergo dei Poveri, 10 giugno – 30 ottobre 1990, Regione Siciliana, assessorato Regionale dei Beni Culturali ambientali e della Pubblica Istruzione, Flaccovio, Palermo, 1990.

094Pietro Novelli, S. Benedetto distribuisce la «Regola» agli ordini monastici e cavallereschi; 1635;olio su tela; 520×340;  Monastero di S. Martino delle Scale (Monreale  – PA), Chiesa dell’Abbazia.

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Pietro Novelli, L’elezione di S. Mattia all’apostolato; 1640 ca; olio su tela; 390×278; Chiesa dei Cappuccini; Leonforte (EN).

Ebbi risposta e conferma ai miei “neonati” , quanto insensati, dubbi circa il giudizio estetico emesso da altre fonti. Poiché tali risposta e conferma mi venivano gratuitamente ed esaustivamente fornite da due insigni studiosi del calibro di Giulio Carlo Argan e Guido Di Stefano, di cui si riporto il testo. Scusate se è poco!! E non credo di dover aggiungere altro, se vi pare!! «Di Stefano, che aveva mente e cultura europee, vide chiaramente qual’era il nodo dell’opera pittorica di Novelli: oltrepassare i limiti del manierismo provinciale del padre, risalire a fonti europee, a Van Dyck da un lato, agli spagnoli dall’altro. Di Van Dyck, che fu a Palermo proprio quando il giovane siciliano esordiva in pittura, colse e rivisse la qualità saliente, la “naturalità” artificiale, ma non perciò meno autentica, della ritualità o cerimonialità del costume sociale. E dacché non era come Van Dick, uomo di corte, Novelli praticò quel galateo appassionato e commosso nella pittura di chiesa: devota, sicuramente, ma anche garbatamente, sommessamente mondana. Formò su quella civilissima idea dell’arte anche la concezione ch’ebbe di Palermo e del suo sviluppo: l’arte, nel suo concetto, era anche modello, esortazione, al viver civile» (Giulio Carlo Argan, 1989, pp. VII-VIII). «Pietro Novelli entra a buon diritto nella schiera dei pittori rappresentativi della metà del Seicento. Di questo tempo egli possiede completamente il linguaggio ed attuando con esso gli occasionali compiti illustrativi esprime spontaneamente, nella maggior parte dei casi, il suo senso di un’umanità profonda e chiusa, in cui si realizza un valore universale e regionale al tempo stesso. Che egli possieda completamente il linguaggio espressivo del suo tempo ce lo rivela facilmente l’esame delle opere, sicché se egli è un isolato in quanto non esce da una scuola e non ne inizia propriamente un’altra, non lo è affatto per quanto riguarda la sua formazione culturale artistica. Partecipano infatti ad essa tutte le correnti pittoriche: dalla scuola napoletana giungono a lui l’eclettismo accademico, il neovenezianismo ed il caravaggismo della prima e della seconda maniera; dai contatti col Van Dick e forse col Velazquez vengono a lui i risultati che la nuova pittura europea trae per magica alchimia dagl’insegnamenti veneziani, dall’esperienza italiane e dalle tradizioni locali. Come sempre, anche in lui, l’arte di Sicilia si nutrisce dell’arte del mondo; ma come sempre, essa trova in quest’aspetto prevalentemente ricettivo la radice del a sua sterilità. Così Pietro Novelli elaborò senza innovare, si espresse senza nulla insegnare. Ma se questo limita, com’ho detto in principio, il suo interesse storico, non ne intacca affatto quello estetico, ch’è correlativo solo all’espressività dell’artista. Ma di quale maestro fu egli più aperto seguace? Indubbiamente del Van Dick, a cui l’avvicinava quell’aristocratica inclinazione del temperamento che lo fa, in tono minore, compagno ideale di quei grandi artisti europei che furono gran signori e cortigiani di questo tempo: il Rubens, il Rembrandt, ed il Velazquez, oltre il Van Dyck. E poiché quest’accostamento, che si concreta nella predilezione per le forme nobili e per le calde luci brune, riposa su una fondamentale affinità di spirito e si realizzò storicamente nel periodo formativo dell’artista,m esso è appunto quello che sempre prevale e sempre riaffiora. […] Di tutti questi incontri stilistici e di questi moti interiori è frutto una pittura che è realistica e romantica al tempo stesso, precisa nell’analisi ed armoniosa nella sintesi, fusa in intonazioni calde e basse commiste con l’ombra, animata da un senso aristocratico distacco che invera una fondamentale austera malinconia. […] Fedele al suo tempo e a sé stesso, Pietro Novelli può dunque trovar posto tra gli artisti migliori del secolo, anche se la sua azione, per ragioni intrinseche ed estrinseche, per la sua natura ricettiva e per la sua localizzazione geografica, fu limitata nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo che la vita di molte sue creature pittoriche supera nell’universalità ed eternità dell’arte». (Guido Di Stefano,1989, pp. 47, 53).

P.S. Fra non molto pubblicherò un post su un’opera del monrealese. Spero vogliate leggerlo e condividerlo. E Se andaste a Palermo visitate pure la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis e l’Oratorio del Rosario di San Domenico. Forse, anche il vostro giudizio sarà, come il mio,  “pro-Novelli”.

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“Le crude e taglienti visioni di Annalisa Gallo”

Correva l’anno scolastico 2009-10 quando, in toni deliziosamente cortesi e amicali, mi fu chiesto da Annalisa Gallo, giovane e talentuosa pittrice calabrese, di redigere il mio umile, disinteressato e sincero parere circa alcuni dei tanti lavori composti dalla stessa in un decennio di fervente attività creativa. Non nego di aver vissuto – anche se per un esiguo arco temporale – un avvilente timore, poi infondato (con mia grande gioia), per la paventata ipotesi di dovermi inoltrare entro un pastoso e fuorviante labirinto di diffuso astrattismo, al quale, tendenzialmente, si attribuisce valore più sul piano contenutistico che su quello prettamente iconografico.
Confesso alacremente di aver incespicato in un avventato quanto ridicolo passo falso! Poiché,qui sono le impressionanti creature della Gallo a imporsi con la loro forza e drammaticità.
I soggetti da lei eternati sono un felice connubio inscindibile di forma e contenuto, perfettamente incastrati e coesi alla stregua di tessere della più abile e nobile tradizione musiva, ove l’uso della rigorosa ricerca cromatica costituisce il reticolo entro cui spigolosi e chiaroscurali anatomie umane si profilano come figure geometriche scrupolosamente calcolate, immesse in altrettante studiate griglie prospettive con punto di vista rialzato e taglio fotografico volutamente ravvicinato.
Per esprimere l’intrinseco sentimento di cui è invasa la scena raffigurata non occorre affollarla di dovizia di particolari, poiché tutto appare lucidamente rivelato nel ristretto fotogramma immortalato quale tranche de vie, («fetta di vita») di una realtà sfaccettata e variopinta, al pari dei mutevoli stati d’animo scaturiti a ridosso delle più disperate vicissitudini.
E l’esaustiva risposta all’interrogativo supposto risiede nell’acuta e, a tratti, terrificante visione di una pittura riuscita sul piano tecnico-percettivo, memore della lezione espressionista europea di Ernst Ludwing Kiechner, Edvard Munch sino all’eredità inconscia di Oskar Kokoschka ed Egon Schiele, nelle cui opere l’incombere della morte è l’epilogo tragico di una concezione esistenziale violentemente denudata della più flebile delle speranze concesse all’uomo.
Tuttavia, è necessario munirsi d’una robusta armatura abilmente forgiata da mani sapienti per evitare l’inevitabile rapimento ottico e cardiaco persino del più distratto degli osservatori, magari, fosse solo per caso, postosi al cospetto di questi manufatti partoriti dallo sguardo caparbiamente introspettivo di un talento sensibile, a cui auspico l’impervia e amara via lungo la riconoscenza professionale abbia vita assai breve.
Il batik “Desiderio inconscio” è la terrificante immagine che sequestra il nostro sguardo, terrorizzandolo e costringendolo a svelare senza alcuna remora tutto il bagaglio delle nostre più intime e celate paure. I plastici contrasti chiaroscurali definiscono la tormentata e contratta figura dell’uomo dai profili taglienti e vetrosi come schegge che lampiscono, dominandolo, il fragile limite tra realtà e finzione.

1Ancora, fredde figure marmoree, fortemente scorciate e sintetizzate dall’incisiva graffiante linea di contorno: figlie legittime di quel realismo espressionista, dalla visione satiricamente grottesca e sociale, avente il suo capostipite in Honoré Daumier. Come il francese, anche qui l’autrice comunica la prova alta della sua arte attraverso una linea rapida e balenante che riproduce una realtà deformata grottescamente in funzione espressiva.
È il caso dell’opera “Crack” in cui il bianco-nero rispettivamente dello sfondo e del contorno sono il vuoto in cui impostare il giallo ambra di un’immagine priva d’ogni lieto anelito di libertà logica, precocemente vittima dell’eterna condanna alla tossicodipendenza.

Complesso e temerario scorgere le silenti sfumature dell’essere; estenuante il suo contorto divincolarsi dall’involucro fisiognomico, prigioniero abietto di ore lente e tetre, instancabilmente battute dalla monotona nota grave: subdola, mancina, corrosiva.

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Ma i soggetti in cui l’autrice adotta, a mio modesto avviso, un taglio decisamente più aggressivo e convincente sono quelli a sfondo bellico: “Infanzia in Sierra Leone” e “Giochi pericolosi”, in cui il dilaniante orrore del conflitto armato – con il suo pesante carico di violenza, disperazione, fame, morte – è l’effetto, già visto, già vissuto, già pianto, della sua causa.
Un canovaccio di corpi scheletrici, straziati ed arsi al pari dei polverosi suoli su cui giacciono agonizzanti, quali vittime innocenti e sacrificali d’una sterile barbarie e cieca ignominia, dettata dal più nocivo tra i virus letali: l’ossessionante brama di potere di cui è infettata la specie umana.
Atroci e crude visioni, quelle di Annalisa Gallo, che straziano l’individuo e lo investono d’un’acre impotenza, alla quale, tuttavia, siamo gelidamente assuefatti perché facile, perché comodo, perché fashion.

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4Ad Annalisa, al suo talento, alla sua perseverenza – in nome delle tante ore, dei tanti (troppi) Km marciati quotidianamente alle prime buie luci dell’alba, degli ideali comuni vissuti e condivisi – non posso che augurare ogni felice traguardo e ogni meritata fortuna.

Filippo Musumeci

L’INFINITO DI PIERO GUCCIONE.

L’INFINITO DI PIERO GUCCIONE

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di Filippo Musumeci

La notte è stata lunga; l’ansia ancor di più!
Ammetto senza indugi la logorante e combattuta indecisione circa il soggetto da proporre umilmente ai lettori per questo, in fin dei conti, primo articolo, quale avvio dell’inedita ed enfatica avventura concepita, empaticamente, con la mia cara “tanto vicina, tanto lontana” Amica (con la “Maiuscola”) e Collega (altrettanto “Maiuscola”) Emanuela.
E a lei sono debitore dell’idea e della forma. A lei sono debitore di questo mio risveglio mentale, ormai, decennale.
Mi scuso anticipatamente e sentitamente con i possibili lettori per la scelta del soggetto, per la forma, soprattutto, (alquanto primitiva) e per l’altrettanto possibile trasporto emotivo, qua e là, ingenuamente esternato. Ma prometto che limiterò ai minimi termini tali operazioni, concesse solo in via del tutto eccezione per questo mio primo scritto. Grazie!
Il motto “tempus fugit” è attualissimo! E aggiungerei che “mala tempora currunt atque peiora premunt” (sono tempi duri, ma ne arrivano di peggiori).
Coraggio, si trova sempre il codice umano personalissimo per uscirne fuori, eppure a testa alta.
Il mio? Non credo possa importarvi più di tanto! Ma confesso senza nessuna difficoltà e con la più totale trasparenza che l’Arte è il mio codice umano personalissimo, il mio riparo, la mia fuga, l’alfa e l’omega. E a tutti coloro che si ostinano impropriamente a ritenerla, oggi più che mai, indiscutibilmente inutile, rispondo semplicemente: «Mi sforzo di comprendere il vostro pensiero, ma riconosco i miei limiti in materia. Mi spiace profondamente…per voi!».
Il poeta libanese Gibran scriveva: «l’Arte è un passo dalla natura all’infinito». Quanta verità in questi pochi versi!
Presupponendo che esistano infiniti modi d’intedere “l’infinito” direttamente proporzionali alle singole sensibilità etiche, psico-figurative e cromatiche, “l’infinito” perseguito e mirabilmente raggiunto dal maestro vivente Piero Guccione (fondatore del, già, pluripremiato “Gruppo di Scicli”) sia, a mio dire, l’input di questo viaggio ancora in erba.
Per chi volesse ammirare i suoi lavori l’occasione di presenterà nella retrospettiva di Vicenza, Palazzo Chiericati, dal 14 marzo al 2 giugno 2015, dal titolo “Guccione. Storie della luna e del mare”, a cura di Marco Goldin.

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Conosciuto ai più, ignoto ad altri, Guccione è il cantore di quel lembo del sud-est insulare, dolcemente adagiato tra i carrubi della campagna iblea e la vibrante distesa azzurra del mare di Sampieri, nel ragusano. Quel mare, per chi è figlio come me della Sicilia, tanto sognato, tanto vissuto, tanto assaporato nella bonaccia d’agosto che sa di salsedine e di scirocco d’Africa. Un letto azzurro ove dimorare, naufragare e riemergere tra le brillante increspature argentee baciate dal sole e ritmate dal vento.
Le marine di Guccione, uniche nel loro genere (seppur solo uno dei molteplici aspetti indagati nella sua pittura), realizzate nell’arco di oltre un quarantennio sono il silente, seppur reinterpretato, riflesso romantico della poetica di Friedrich.
Come scriveva Guido Giuffré: «C’è romanticismo e romanticismo; quello incarnato dal grande tedesco, algido e inaccostabile quanto assorbente e ammaliatore, si direbbe lontano dal temperamento del pittore siciliano. Nel 1821 Friedrich aveva dipinto un quadretto, “Nuvole in cielo” assai simile nel soggetto e nelle dimensioni a uno “Studio di cielo e alberi” che Constable aveva a sua volta dipinto nel medesimo anno. L’inglese com’era sua abitudine annotava giorno, ora, direzione del vento, e guardando il piccolo dipinto, oggi al Victoria and Albert di Londra, se ne comprende la ragione; il tedesco non se ne curava, ma, se l’avesse fatto, il soggetto l’avrebbe ben tollerato, perché le nuvole sono riconoscibili, e così la loro altezza e l’orientamento; solo che Constable in tutto ciò si immergeva per impadronirsene, e questo era lo scopo della sua appassionata pittura. Lo scopo della pittura di Friedrich, nonostante l’accuratissimo inventario delle cose rappresentate (e anche per il modo di quella rappresentazione) era invece ben oltre le cose, e in rapporto ad esso – il tempo, il destino, la caducità, l’eterno – le cose non sono che allusione, metafora e simbolo. Tra i due, Guccione sarebbe più vicino all’inglese che al tedesco, non fosse- com’è invece fortemente – una tensione all’oltre, una misura appunto di eterno, un’attesa, un silenzio, una vastità – che non sono tuttavia, come nel maestro di Greifswald, al di là, ma dentro le cose, nel loro amore struggente e insaziato». (Guido Giuffré, Metafora del mondo in Piero Guccione. Castello Ursino di Catania. Opere dal 1957 al 1999. Il Cigno G.G. Edizioni 1999).

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Lo stesso Guccione affermò anni fa: «Ebbi un colpo di fulmine per Friedrich, non so perché. Poi ho scoperto quanto Munch venisse da Friedrich. Erano per me quadri di natura che avevano una fragranza e la verità che in essi determinava il senso dell’ora e del tempo, ma erano anche quadri profondamente soggettivati. E tuttavia senza l’intenzione di fare il bel quadro. Quello di Friedrich era un occhio freddo e incandescente assieme».
Il tema del mare, presente nella produzione pittorica di Guccione sin dalla fine degli anni sessanta, diventa, dunque, paradigmatico, ovvero lirica contemplativa, evocativa e sognante delle nude e modulate trasparenze di quelle che lo stesso maestro chiama  “Linee del mare”, a metà fra il richiamo naturalistico e una griglia geometrica in funzione rigorosamente compositiva. E quest’azzurro si fonde col cielo in una ritrovata ampiezza spaziale, ove le esile onde, da questa germogliate, si trasfigurano in cadenzate e solitarie sonorità incise dalla risacca.

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E queste cadenzate e solitarie sonorità emettono il loro primo gemito vitale all’orizzonte, che l’occhio languido e sognante scruta navigando tra indeterminate e calde sfumature intrise di riflessi, rifrazioni, rimandi: carezzevole moto che dalla natura giunge all’anima, vale a dire all’infinito.
Le tecniche pittoriche impiegate da Guccione sono le più variegate. Ma, oltre ai tradizionali oli su tela, i pastelli accompagnano la necessità propriamente corporale dell’artista quando egli stesso afferma che: «Ho cominciato a fare pastelli dagli anni sessanta, come cosa un po’ secondaria. Il pastello era ritenuto un mezzo ottocentesco, e per questo obligato. Una cosa un po’ salottiera, insomma. Invece, per me, rappresentava il piacere fisico di affondare la mano dentro la polvere: era proprio un piacere fisico».

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Giovanni Testori spiega il perché dell’assoluta bellezza dei pastelli di Guccione: «Il pastello ha tolto il peso iconografico all’immagine della vita. Tutto palpita, tutto è amato e tutto è sperimentato, lasciando cadere ciò che è inutile. È la sperimentazione della bellezza, ed è così che si può tornare a piangere davanti a un quadro, e proprio per la sua bellezza, mentre attorno a noi tutto sembra crollare». (Giovanni Testori in Marco Goldin, Guccione, l’azzurro, 2005).
Ma è, in definita, l’azzurro il vero protagonista dei dipinti, sia esso steso a pastello, olio e tecnica mista. Quell’azzurro tanto visionato, respirato, assorbito, indagato e decantato. E sul quale gli storici e critici di fama internazionale (se non credete, si veda la bibliografia in tal senso) tanto hanno scritto e continuano a scrivere al fine di decodificarne e restituirne l’essenza.
Il mare è pur sempre, nella sua natura, una superficie liquida e trasparente; una presenza vestita di apparenza che nutre e si nutre di correnti colorate mosse dall’ebbrezza pura e tagliente dell’infinito. Quest’infinito nasce nello studio del pittore, dunque in un luogo finito. Eppure è in codesto spazio cubico geometrizzato che si dà forma alla propria intima visione, la quale esige soltanto di essere trasfigurata in ciò che vorrebbe essere: verità. Non certamente quella oggettiva con tutto il suo armamentario di risvolti e compromessi; di scusanti e disincanti (le cui cicatrici facciamo fatica a nascondere), bensì quella soggettiva, più sincera, autentica e più “vera”. Piero Guccione dà forma sulla tela a quest’ultima “azzurra” verità, che è il suo infinito…e anche il mio, di “azzurro” e di “verità”, e di chi come me (credo in tanti), non riesce a dar corpo, per viltà e/o frivolezza, alle sonorità rinchiuse nelle carceri del nostro animo.

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A proposito di viltà e frivolezza, anni fa scrissi una poesia dal contenuto autobiografico e di cui riporto solo l’incipit: “figlio del benessere”, che tutto vuole e nulla stringe a se’ realmente. Allattato d’accidia e cullato di viltà, presiedi a scalzi piedi il seggio d’ipocrita bontà.
Una spietata dichiarazione delle debolezze a cui mi ostino non concedere dovuto congedo.
Azzurro, in fondo, no? Si fa presto a dire “azzurro”!
Proviamo a cancellarlo al pari di una piatta macchia che assilla il nostro ordinario e il creato tutto. Fosse solo per un istante, cosa volete che sia? Dunque, né cielo né mare; orizzonte, profondità, spazio, vita. Ecco, allora, che questo azzurro, apparentemente banale, perché gratuitamente certo, dato, vissuto, assumerà la cifra di passato e futuro, ciò che è sempre stato e ciò che sarà; abbandono in un tempo sospeso senza più principio né fine. In una sola parola: la bellezza.
Il grande letterato Leonardo Sciascia scriveva a proposito delle tele di Guccione di scorgerne «una certa piattezza intesa, non come senso di tonalità quotidiana, svegliata abitudine, accidioso spegnersi del mondo intorno a noi; ma tutt’al contrario fuga dalle sensazioni, e cioè dal tempo, per andare (e restare) oltre. La negazione, insomma, del tempo come “ordine mirabile del moviemento”».
Era il lontano 2002 quando conobbi la poetica del maestro Guccione e ne rimasi scosso, turbato, incantato. Avevo trovato il passepartout per accedere all’infinito. E quando nell’agosto del 2013, dopo un decennio di vani tentativi, in occasione di una retrospettiva dell’artista e suo amico Franco Sarnari (cofondatore del “Gruppo di Scicli”) allestita in una galleria privata di Scicli (Ragusa), ebbi finalmente modo di incontrare il suo sguardo mi limitai solo alle presentazioni di rito e a rinnovare la mia incondizionata ammirazione (direi incanto), per i suoi lavori. Guardai i suoi azzurri e profondi occhi al pari degli abissi, profferrendo timidamente frasi di circostanza. Domandò gentilmente cosa facessi nella vita, quali fossero le mie attitudini e da quanto tempo assaporassi quel mare, che è anche, e principalmente, il suo. Risposi altrettanto gentilmente. Ma compresi che quell’uomo stava,in realtà, scrutando e investigando il mio di sguardo. Ne leggeva l’onirico ondeggiante azzurro, il suo, il mio e di tanti simili.

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