IL “BATTESIMO DI CRISTO” di PIERO DELLA FRANCESCA
L’OPERA PIERFRANCESCANA PRESENTATA DA DUE BRILLANTI STUDENTI SEDICENNI DI UNA TERZA, INDIRIZZO GRAFICA, DEL LICEO ARTISTICO STATALE “FELICE FACCIO” DI CASTELLAMONTE CANAVESE (TORINO)
di Jessica Giovando e Pietro Pedrazzoli
- Data: 1440-48.
- Committenti: Monaci benedettini Camaldolesi di Borgo Sansepolcro (Arezzo).
- Tecnica: Tempera su tavola.
- Misure: 167 x 116 cm.
- Luogo di ubicazione originario: altare maggiore della Chiesa di Santa Maria della Pieve, Borgo Sansepolcro (Arezzo).
- Luogo di ubicazione attuale: National Gallery di Londra dal 1861.

Commissionata dai monaci Camaldolesi per il loro abate generale Ambrogio Traversari, il Battesimo di Cristo è la prima opera giovanile attribuita unanimemente dalla critica a Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, Arezzo, 1413 – ivi 13 ottobre 1492). La tavola venne poi inglobata come pannello centrale del Polittico realizzato nel 1460 da Matteo di Giovanni per l’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria della Pieve di Borgo Sansepolcro (Arezzo).
È una sacra rappresentazione di soggetto neotestamentario tratto dal terzo capitolo del Vangelo di San Matteo: al centro della tavola, posto sulla bisettrice, è il Cristo in raccoglimento con le mani giunte nell’atto di ricevere il battesimo da San Giovanni Battista su una sponda del fiume Giordano in Galilea, mentre lo Spirito Santo sotto forma di colomba bianca discende sul capo del Salvatore.

Il volume cilindrico del corpo di Cristo è ripetuto a sinistra dal tronco dell’albero di noce, le cui fronde, dalla forma emisferica, ricordano il profilo di una cupola posta sopra l’immagine divina del Dio incarnatosi e fattosi uomo.
Secondo la tradizione sarebbe un noce con duplice significato:
- è un riferimento alla “Val di Nocea”, antico nome con cui era chiamata la valle di Borgo Sansepolcro;
- è un riferimento al noce cresciuto dalla bocca di Abramo e da cui verrà tratto il patibolo della Passio di Cristo, secondo la Legenda aurea di Jacopo da Varagine del 1298, e, come tale, simbolo della vita che si rigenera per mezzo della Redenzione dalla schiavitù del peccato.


Dio non è presente fisicamente nella scena, bensì la sua emanazione divina appare sotto forma di sottile polvere dorata in asse con la colomba bianca dello Spirito Santo.

Più in profondità ancora, troviamo dei monaci bizantini, che camminano lungo una stradina tortuosa, tranne uno che indica l’evento prodigioso della discesa dello Spirito Santo nella persona di Cristo.
Alla sinistra del noce ci sono tre angeli: due di questi si tengono per mano e sono coronati rispettivamente di rose e foglie, allegoria delle due Chiese d’Oriente d’Occidente; il terzo, invece, vestito di rosso, bianco e blu (i colori della Trinità) con il palmo della mano compie un gesto di riconciliazione simbolica tra le due Chiese, divise dopo il Grande Scisma del 1054 e riavvicinatesi, seppur invano, a seguito del Concilio di Firenze-Ferrara del 1439. L’opera, infatti, è letta come metafora del Concilio stesso e riaffermazione del Dogma trinitario.

Sullo sfondo un neofita compie l’azione dello spogliarsi o rivestirsi. Ciò può esser interpretato secondo una duplice chiave di lettura: si spoglia dei peccati o si riveste, dopo il battesimo, di una nuova candida veste spirituale.
Il paesaggio con il fiume, le colline e la cittadina turrita dovrebbe rappresentare la valle del Giordano con il paesaggio circostante, ma Piero della Francesca decise di ricontestualizzare l’episodio evangelico rappresentando un paesaggio a lui conosciuto, vale a dire la Valle di Nocea bagnata dal Tevere e la cittadina turrita di Borgo Sansepolcro sullo sfondo.
Tutta la scena è pervasa omogeneamente da una luce universale, dunque priva di forti contrasti chiaroscurali. La profondità spaziale è resa attraverso alcuni espedienti: le grandezze che degradano con la distanza, i tronchi tagliati, la stradina tortuosa percorsa dai monaci, il corso ondulato del fiume sul quale riflette la natura circostante.
Roberto Longhi asseriva che:
«egli lasciò nel mondo della pittura le creazioni di una forma monumentale così nel complesso della composizione convergente su piani ideali verso il foco prospettico come nei particolari singoli delle figure determinate imperativamente in pose statuarie ed appartate, in gesti sospesi – in tutto quel complesso mimico che per la critica letteraria è stato scambiato per impassibilità superbia ieratismo mentre non è che il portato inevitabile della poesia…prospettica. […]. Negli accordi di colore offre le più forti e delicate contrapposizioni di valore – in cui si manifesta il vero colorismo- dove un rosa pallido e un violaceo autunnale s’accostano a qualche poderoso tono composito di rosso, di marrone o di bruno, dove si armonizzano accosti il cinabrio e l’oltremare, le due tinte più difficili a giustapporsi senza stridore. Da Piero adunque la creazione del colorismo moderno come armonia calda solare di toni contrapposti e di gamma totale distesi sulle vaste praterie di un riposo coloristico non più raggiunto».
(Roberto Longhi, “Breve ma veridica storia della pittura italiana”, 1928)
L’opera è sottoposta a uno schema compositivo rigorosamente geometrico: il triangolo equilatero che ha vertice nel piede destro di Cristo con la sua base immaginata attraverso il prolungamento orizzontale delle ali spiegate della colomba; l’ideale semicirconferenza inferiore del cerchio, determinato dalla forma arcuata del supporto ligneo, coincide con l’ombelico di Cristo (caput mundi). Tale cerchio, a sua volta, ne inscrive al suo interno un altro di minor diametro coincidente con la colomba dello Spirito Santo.

Le figure plastiche dai volti sereni imperturbabili e quasi inespressive (atarassiche), appaiono statiche, immobili, come bloccate o fisse in un gesto statuario, le quali non esprimono drammaticità o tensione emotiva come quelle di Masaccio, Donatello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi e Botticelli, piuttosto una perfetta armonia d’insieme (spazio, figura, architetture, luce e colore). Ciò, perché il rigore geometrico, luministico e cromatico dev’essere espresso anche con la quiete grandezza e la monumentale serenità dei personaggi rappresentati.
Come ricorda lo storico d’arte Bernard Berenson:
«Dopo sessant’anni d’intima dimestichezza con opere d’arte d’ogni specie, d’ogni clima e d’ogni tempo, sono tentato di concludere che a lungo andare le creazione più soddisfacenti sono quelle che, come in Piero e in Cézanne, rimangono ineloquenti, mute, senza urgenza di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto e il loro aspetto.Se qualcosa esprimono, è carattere, essenza, piuttosto che sentimento o intenzioni di una dato momento. Ci manifestano energia in potenza piuttosto che attività. La loro semplice esistenza ci appaga. […] Possiamo dunque permetterci di generalizzare intorno a quest’arte del passato, e affermare che nei suoi momenti quasi universalmente reputati supremi, essa è sempre stata ineloquente come in Piero della Francesca, sempre, come in lui, muta e gloriosa. Sono tentato di dir di più, di suggerire che forse, nel regno visivo, l’arte vera – in quanto distinta da non importa quali valori informativi o semplici novità o stravaganze o giochi – sempre tende, a comunicare la pura esistenza delle figure ch’essa presenta».
(Bernard Berenson, ‘‘Piero della Francesca o dell’arte non eloquente’’, 1950)
Jessica e Pietro sono un nobile e palese esempio di quanto una didattica votata all’indagine analitica dei contenuti proposti dalla docenza costituisca indiscutibilmente un valore aggiunto al percorso formativo curricolare del corpo studentesco, sovente schivo o superficialmente interessato ai movimenti figurativi e relativi linguaggi espressivi analizzati dalla Storia dell’Arte.
Il messaggio è chiaro e rivolto a tutte le nuove generazioni. Basta solo saperlo cogliere e farne tesoro! Perché, come ricorda quella mente sottile di Oscar Wilde:
«L’arte non deve mai tentare di farsi popolare. Il pubblico deve cercare di diventare artistico». (“L’anima dell’uomo sotto il socialismo”, 1891)
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