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Voglia di ciliegie

 

Devo confessarlo, le ciliegie sono una delle mie passioni e non si tratta solo di golosità ma anche di mero godimento estetico: la loro pelle lucida, la sensazione tattile di un frutto quasi erotico, il colore rosso nelle più varie gradazioni dallo scarlatto al rosato, al quasi nero e al  quasi bianco delle duracine gialle con la pelle traslucida. E ancora grandi, piccole, sferiche o doppie sempre comunque perfette. Non posso fare a meno di guardarle prima di assaporarle e prima di ogni morso darei un bacio a questi frutti così belli da essere presenti nelle opere di numerosi artisti.

Il frutto è in realtà molto antico, Plinio racconta della sua importazione in Italia attorno al 70 a.C. e indica la Turchia come zona di provenienza.

Nel Medioevo gli alberi di ciliegio erano diffusi e le proprietà salutari del frutto erano descritte e illustrate sulle pagine dei Tacuina sanitatis, manoscritti ispirati alla tradizione culturale islamica. Già dall’XI secolo Ibn Butlan aveva realizzato le più antiche Tavole della salute, trattato divulgativo della medicina islamica che invitava a curare il fisico al pari della mente, riconoscendo le proprietà terapeutiche delle erbe e dei frutti. Qualche secolo dopo il modello si diffuse anche nell’Europa cristiana, aprendo alla creazione di manuali illustrati che spesso raccontano in maniera assai vivace ed espressiva non solo i benefici delle piante ma anche le tecniche di coltura e di lavorazione, senza escludere la fondamentale presenza dell’uomo.

Raccolta delle ciliegie
Raccolta delle ciliegie in una miniatura del Tacuina sanitatis del XIV secolo

 

Nell’arte religiosa dell’età moderna la ciliegia richiama il sangue di Cristo ed infatti i frutti compaiono sulla tavola dell’Ultima cena o della cena in Emmaus, ma ancor più frequentemente sono tra le mani del Bambin Gesù in scene di grande tenerezza e dolcezza mentre l’albero sostituisce in alcune rappresentazioni della Fuga in Egitto quello della palma, forse perché più noto agli artisti nordici.

Solitamente l’offerta al Bambino consta di pochi preziosi frutti ma nella Vergine di Ambrosius Benson, l’angelo porge una coppa intera di frutti scarlatti. Colore che domina la tavola di impronta fiamminga realizzata a Bruges, dove l’artista, in realtà lombardo, seguì il suo apprendistato presso la bottega di Gerard David e in seguitò dopo notevoli traversie legali con il suo maestro, fondò il suo studio attorniandosi di numerosi allievi e dedicandosi alla realizzazione di opere che riuscì a collocare in vari paesi europei.

La Vergine e il Bambino assistiti da un Angelo con una coppa di ciliegie
AMBROSIUS BENSON e bottega, La Vergine e il Bambino assistiti da un Angelo con una coppa di ciliegie, (1519-1550)

Del resto anche il maestro Gerard David aveva utilizzato la simbologia della ciliegia in una delle sue splendide Madonne con bambino, insieme a numerosi altri elementi che nella scena silenziosa scandiscono brani e concetti evangelici o biblici con estrema incisività (naturalmente per chi conosce il vocabolario simbolico dell’epoca), per tutti gli altri c’è sempre la possibilità lasciarsi andare al fascino e alla poesia del realismo fiammingo.

Madonna con il Bambino e zuppa di latte
GERARD DAVID, Madonna con il Bambino e zuppa di latte, 1515 ca., Bruxelles

Interesse verso il tema della Vergine con il Bambino e l’allegoria della ciliegia è dimostrato anche da altri artisti fiamminghi, quì di seguito c’è l’interpretazione di Quentin Matsys, sicuramente più italiana nell’ambientazione fastosa e raffinata  dal punto di vista degli arredi architettonici ma anche per quanto riguarda l’acconciatura e l’abbigliamento, inoltre non è difficile notare le influenze leonardesche sia nell’impostazione delle figure che nel paesaggio, tipiche dell’opera di questo importante artista fiammingo, fondatore della scuola di Anversa e iniziatore della pittura di genere.

Madonna e Bambino che si baciano
QUENTIN MATSYS, Madonna e Bambino che si baciano, 1525-30, Rijksmuseum, Amsterdam

Affine a Matsys e legato all’esperienza di Leonardo è sicuramente Jan Gossaert, noto come Mabuse, anch’egli tra i primi pittori della scuola di Anversa che tra XVI e XVII annovererà i più grandi artisti della tradizione fiamminga (Bosh, Bruguel e Rubens giusto per citare alcuni dei più famosi).

Madonna delle Ciliegie
MABUSE, Madonna delle Ciliegie, 1520-30, Lucca, Palazzo Mansi Museo Nazionale

Mabuse conosce direttamente la tradizione italiana, viaggiando al seguito di Filippo di Borgogna, figlio di Filippo il Buono e ambasciatore presso il Papa Giulio II tra il 1508 e il 1509. La Vergine di Mabuse è indubbiamente una splendida fusione tra tradizione italiana e fiamminga. C’è l’attenzione al dettaglio nordica ma anche la cura delle linee e del volume, ci sono le preziose cromie fiamminghe che imitano con grande maestria la materia in ogni sua forma ma vi è anche la capacità di esprimere emozioni e stati d’animo attraverso i gesti e gli sguardi che è dei più grandi maestri italiani del Rinascimento.

Le ciliegie sono presenti anche in magiche opere del nostro Rinascimento. Ambrogio de Predis, collaboratore di Leonardo per la Vergine delle Rocce, dipinge probabilmente la delicatissima Fanciulla con ciliegie dal sapore decisamente fiammingo.

Fanciulla con ciliegie
AMBROGIO DE PREDIS, Fanciulla con ciliegie, 1491–95 circa, New York

Nel Giardino dell’Eden il ciliegio è il simbolo del piacere e dell’amore, l’offerta delle ciliegie è metafora del dono amoroso. Appare chiaro in opere in  cui è protagonista assoluta come nella tela dell’artista barocca Louise Mollon, ma ancora più evidente nelle narrazioni pittoriche più tarde.

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LOUISE MOLLON , Natura morta con fragole e uva spina, 1630 Norton Simon Museum, Pasadena, CA, US

Boucher descrive in una bucolica scena l’innamorato che offre i dolci frutti alla deliziosa fanciulla di campagna che li accoglie nella sua veste come un’anteprima delle prossime gioie amorose. La ciliegia con il suo colore intenso affascina anche artisti e design recenti e contemporanei, sono ancora simbolo di dolcezza, bellezza, sensualità e seduzione su labbra femminili altrettanto rosse.

I raccoglitori di ciliegia
BOUCHER F., I raccoglitori di ciliegia, 1768

Stesso stile narrativo è presente nel romantico giardino di Rousseau rappresentato da Camille Roqueplan nella tela successiva.

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ROQUEPLAN C., Rousseau e Mlle. Galley raccolgono ciliegie, 1851

La ciliegia con il suo colore intenso affascina anche artisti e design recenti e contemporanei, sono ancora simbolo di dolcezza, bellezza, sensualità e seduzione su labbra femminili altrettanto rosse. Come nella splendida fanciulla di Salvatore Postiglione, poetico pittore napoletano, legato alla Scuola di Posillipo.

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Salvatore POSTIGLIONE, Il tempo delle ciliegie

 

I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO A CASPAR DAVID FRIEDRICH (Parte Prima)

I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO A CASPAR DAVID FRIEDRICH  (Greifswald, 5 settembre 1774 – Dresda, 7 maggio 1840) nell’anniversario della nascita.

di Filippo Musumeci

“L’unica vera fonte dell’arte è il nostro cuore, un linguaggio puro come la mente di un bambino. Un’opera che non scaturisca da questa origine non può essere che artificiosa.” (Caspar David Friedrich)

CASPAR DAVID FRIEDRICH

Era il 5 settembre 1774, ovvero 244 anni fa, quando a Greifswald (cittadina della costa baltica nello stato federale del Meclemburgo-Pomerania Anteriore, in Germania) veniva alla luce un uomo, un pittore, un genio romantico che non ha certo bisogno di alcuna presentazione e che da oltre due secoli incanta studiosi, storici, cultori ed estimatori dell’Ottocento (e non) con la poesia “sublime” delle sue visioni mistico-naturalistiche. Un “avanguardista” del suo tempo, senza il quale il Romanticismo europeo non avrebbe vissuto i risvolti figurativi conquistati, il concetto stesso di “Sublime” non avrebbe conosciuto il suo massimo rappresentante e la pittura, in toto, sarebbe stata privata di una tessera indispensabile alla veduta d’insieme del suo mosaico. Nel corso di questi due secoli, l’arte di Caspar David Friedrich ha fatto proseliti, ispirando, in modo più o meno esplicito, simbolisti di fine Ottocento come lo svizzero Arnold Böcklin, il quale ha saputo ricreare nei suoi lavori i valori atmosferico-sensoriali offerti dalla Natura, assieme allo spirito simbolico e più dichiaratamente languido, quando non addirittura tetro, delle visioni friedrichiane, sovente legate al tema della “morte”. E Böcklin non si limita a citare Friedrich solo nella scelta di tema e soggetti, ma ne condivide anche il pensiero critico quando afferma che: “la pittura deve riempire di sé l’anima. Finché non lo fa rimane uno stupido artigiano.”  

Ma sui rapporti tra i due pittori dell’Ottocento rimandiamo all’articolo già in cantiere e di prossima pubblicazione.

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Celebre è l’aforisma friedrichiano formulato dal pittore romantico nel quale afferma: “Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi dai alla luce ciò che hai visto durante la notte, affinché la tua visione agisca su altri esseri dall’esterno verso l’interno.” (Caspar David Friedrich)

Questa lucida deduzione sulla fase ideativa dell’opera è una porta aperta verso le Avanguardie storiche del XX secolo e giunge all’occorrenza per delineare come anche i surrealisti operanti a Parigi dagli anni Venti del Novecento come Max Ernst, René Magritte e Salvador Dalì,  fino all’Espressionismo astratto statunitense di Mark Rothko e alle marine contemporanee di Piero Guccione, “padre” del Gruppo di Scicli, (di quest’ultimo e dei rapporti con la pittura di Friedrich abbiamo già parlato QUI) siano deliberatamente debitori del pittore di Greifswald, relativamente al carattere epico e al sentimento lirico rievocato nelle loro composizioni, ove il rapporto Uomo-Natura viene riaggiornato alla luce delle nuove esperienze legate alla sfera dell’inconscio.

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A dire il vero, ciò che accomuna gli artisti citati in una pressione osmotica può essere sintetizzato nell’espressione coniata dallo scrittore tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann per definire la vera essenza del Romanticismo, vale a dire “brama d’infinito”. E al concetto di “Infinito” si lega saldamente per effetto, poiché da esso prende forma, il sentimento “Sublime” di matrice romantica. Fu Edmund Burke, scrittore e uomo politico inglese del Settecento, nelle sua opera “Indagine filosofica sull’origine del Sublime e del Bello” (1756-59) – poi ripreso dal tedesco Immanuel Kant ne “La critica del giudizio” (1790) – a definire i caratteri del sentimento “Sublime”, affermando che: “Ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. […] Le idee di dolore, di malattia, di morte, riempiono la mente di forti emozioni di orrore; ma le idee di vita e di saluta, sebbene ci mettano in grado di provare piacere, non producono, col semplice godimento, altrettanta impressione. Le passioni quindi che riguardano la preservazione dell’individuo si riferiscono, principalmente, al dolore o al pericolo e sono le più forti di tutte le passioni. […] Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire”.  In altre parole, quel misterioso e affascinante insieme di sensazioni che è possibile provare solo di fronte a certi grandiosi spettacoli naturali (un tramonto infuocato, una tempesta impetuosa, una notte di vento, una tormenta di neve, un mare in tempesta o mosso, un paesaggio visto dall’alto come infinito), quando le sensazioni che ne derivano tendono a colmare l’animo di un “orrore dilettevole”.  In definitiva, il “Sublime” è, al contempo, piacere e dolore, più opportunamente definito dagli artisti romantici “Il pinnacolo della beatitudine”, poiché confinante con l’orrore, la deformità, la follia: un culmine che fa smarrire la mente di chi non sa guardar oltre. Ma quella sul “Sublime” è “l’altra storia” su cui si desidera rinviare al prossimo articolo, come già detto, in cantiere. Tuttavia, un ultimo pensiero mi conviene e, concludendo, pongo le dovute riflessioni. Quale artista non ha mai guardato alla propria “opera d’arte” come una prova protesa verso l’infinito? È, in fondo, un bisogno dell’animo umano quello di varcare i confini spazio-temporali alla ricerca di ciò che vive e non muore. Friedrich ha tentato, riuscendoci, di varcare quel confine e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi, più di ieri, la sua “mistica visionaria” è più viva che mai e continua a ispirare generazioni di talentuosi artisti e ad appassionare giovani studiosi.

E sarà pure una nota ironica la mia, ma a Friedrich guarda anche lo scrivente (un pessimo illustratore, direi), con risultati indiscutibilmente opinabili (che non sembra il caso di approfondire) quando, a tempo debito, mette mano al pennello per stendere l’ennesimo e giammai finito paesaggio marino, poi tempestivamente rimosso dal cavalletto e stipato in cantina assieme agli altri. E non se ne parla più!

Ma per concludere quest’incipit, che intende essere il nostro omaggio all’Arte friedrichiana (da pubblicare in più parti), credo non possa esserci occasione più propizia di oggi, 5 settembre, ovvero giorno che ricorda anche il compleanno della cara amica e collega nonché amministratrice, curatrice e autrice di Sul Parnaso, Emanuela Capodiferro, per riprendere l’attività narrativa sul blog dopo il mio, ahimè, lungo letargo biennale. A lei dedico questo nuovo, seppur concito, scritto, oltre alla ritrovata brama di raccontare per questa nostra creatura social, tanto voluta e tanto cullata in questi quattro anni di attività. Glielo devo, non trovate? Non altro per la pazienza e l’incoraggiamento disinteressatamente elargiti. E poi, ogni promessa è un debito! Dunque…

N.B. Vi diamo appuntamento con la parte seconda di questo nostro omaggio all’Arte di Friedrich, in cui si indagherà più dettagliatamente sulle opere più rappresentative dello stesso e sui rapporti tra queste e la pittura di Böcklin, Rothko  e i maestri surrealisti. Ovviamente con la promessa di non farvi attendere troppo a lungo, stavolta. Promesso!

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OMAGGIO A GUSTAVE CAILLEBOTTE ( Parigi, 19 AGOSTO 1848 – Gennevilliers 21 FEBBRAIO 1894)

Il post di oggi raccoglie la collaborazione di entrambi gli autori del blog: Filippo Musumeci e Emanuela Capodiferro.

“Caillebotte dipingeva interni molto belli, con una forte carica psicologica, che riflettevano la coercizione e la repressione a cui era sottoposto il suo ambiente sociale. Sapeva rappresentare con grande efficacia il legno, che sulla tela diventava materia viva, tattile. […] Negli anni immediatamente successivi, durante i quali rimase sempre in stretto contatto con gli amici impressionisti, realizzò alcuni dei suoi dipinti migliori: belle immagini della vita di una Parigi in trasformazione, scene di strada con imbianchini e muratori al lavoro, famiglie borghesi che prendevano il fresco sul pont de l’Europe. […] I suoi lavori avevano una qualità limpida, architettonica, e un realismo unico nel raccontare la vita urbana. Caillebotte era uomo schivo e riservato, ma alla sua maniera – con discrezione – era devoto alla causa del movimento, tanto che Renoir gli riconobbe il merito di essere stato il primo mecenate dell’impressionismo, nel senso che aiutava gli artisti senza alcuna idea di speculazione: <<Tutto ciò che voleva era aiutare gli amici. E lo faceva in maniera molto semplice: comprava solo le tele che considerava invendibili>>. (Sue Roe, “Gli Impressionisti”).

Trovo molto opportuno riprendere questa citazione perché lascia emergere la particolarità di Cailebotte rispetto agli altri impressionisti. La passione per gli interni, per il realismo, per la trattazioni psicologica e sociologica dei suoi soggetti, al di sopra degli effetti di luce e per la fusione atmosferica di luce, colori e soggetti che tanto centrale è per gli impressionisti più rappresentativi.

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I piallatori di parquet, G. Caillebotte, 1875, Museo d’Orsay, Parigi

I piallatori di parquet è uno sguardo sul quotidiano delle classi lavoratrici, sulla semplicità del loro vivere ma anche sulla cura del lavoro. Possiamo ammirare uno stile del tutto personale che mescola un’accademica modalità di strutturare le figure nello spazio, un forte realismo unito all’attenzione meticolosa per i dettagli e una mirabile resa delle luci e delle ombre che sicuramente nasce dallo studio delle opere impressioniste di cui Caillebotte è un generoso mecenate.

Incantevole è la resa della “consistenza” della pioggia in Strada di Parigi in un giorno di pioggia: 

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Strada di Parigi in un giorno di pioggia, G. Cailebotte, 1877, Art Institute, Chicago

Anche in quest’opera vi è un attento studio compositivo e prospettico, ma tutto sembra perfettamente naturale, come lo scatto di un’istantanea fotografica. Pare quasi di poter sentire il profumo della pioggia fondersi con gli odori della città, il ticchettio delle gocce sugli ombrelli fare da sfondo alle chiacchiere dell’alta borghesia.

Omaggio a TELEMACO SIGNORINI ( Firenze, 18 Agosto 1835 – 10 Febbraio 1901)

Oggi dedichiamo l’omaggio ad uno degli artisti più interessanti dell’Ottocento italiano: Telemaco Signorini. Tra i Macchiaioli può essere considerato l’artista più internazionale e più aperto all’approfondimento di tematiche varie e differenti. Figlio di Giovanni, pittore del Granduca di Toscana, riceve una formazione decisamente accademica, e ben presto allaccia rapporti con gli artisti che si riunivano al Caffé Michelangelo di Firenze diventandone un elemento di spicco.

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Il Caffè Michelangelo, A. Cecioni, 1861

Il gruppo di artisti elabora un nuovo modo di fare pittura, che esalta l’osservazione dal vero, procedendo per macchie di colore in alternativa al classico disegno chiaroscurale, un detrattore gli affibbia il nome dispregiativo di Macchiaioli ma è proprio Telemaco Signorini ad appropriarsene e a farne un manifesto.

Il nostro artista partecipa alle guerre d’Indipendenza del 1859 e ci lascia alcune opere realistiche che documentano la sua esperienza sui campi di battaglia:

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Artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino, T. Signorini, olio su tela, 1860, coll. privata

Dopo l’esperienza della guerra risorgimentale Telemaco viaggia lungamente, nel 1861 è a Parigi dove incontra Corot e Troyon e viene intensamente colpito dal Realismo di Courbet. Al suo ritorno in Toscana si associa in particolare a Lega e con lui fonda la scuola di Pargentina, qui si concentra sulla pittura dal vero e affronta tematiche di grande impegno sociale come la Sala delle agitate al manicomio, in cui la monocromia sostanziale suggerisce un parallelo con le incisioni di Daumier.

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La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze, T. Signorini, 1865, Galleria d’Arte Moderna, Venezia

Del resto lo stesso Signorini utilizzò ampiamente la tecnica dell’incisione come è possibile apprezzare nell’acquaforte del Quercione alle cascine di seguito riportata:

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Il Quercione alle cascine, T. Signorini, 1862-66, acquaforte

Per ulteriori approfondimenti puoi cominciare da qui.

I VOLTI DELL’ANIMA: omaggio a WALTER CRANE (Liverpool, 15 agosto 1845 – Horsham, 14 marzo 1915)

I cavalli di Nettuno
I cavalli di Nettuno, olio su tela, Walter Crane, 1892, Neue Pinakothek, Monaco

Walter Crane è un poliedrico artista inglese che merita di essere ricordato per la creazione di visioni fiabesche capaci di ispirare e nutrire il mondo dell’illustrazione di fiabe e racconti per l’infanzia a cominciare dalla galassia Disney.

Autoritratto
Autoritratto a 21 anni, Walter Crane

Il suo maestro, l’incisore William James Linton, lo introduce all’arte dell’illustrazione  e lo accosta all’arte dei Preraffaeliti, in particolare quella di Edward Burne Jones. Con quest’ultimo collabora alla creazione di alcune opere e condivide tematiche e istanze stilistiche con uno spirito di  comunione e fratellanza che prefigura il movimento originario dell’Art Nouveau inglese: le Arts and Crafts.

Ma Walter Crane, oltre ad essere un artista completo e anche un mirabile illustratore: una sorta di mediatore tra la parola scritta e l’immaginazione del lettore. Il successo di molte storie, dei tanti romanzi che caratterizzano gli ultimi secoli della letteratura mondiale e delle successive trasposizioni cinematografiche è sicuramente dovuto alla capacità immaginativa degli illustratori che, spesso da dietro le quinte, determinano il successo e la diffusione dei testi.

Le prime illustrazioni di Crane sono di carattere naturalistico ed accompagnano gli studi storici e scientifici di John Richard de Capel Wise raccolti nella pubblicazione di: The New Forest.

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The New Forest, incisione pagina 60, Walter Crane, 1863 

 

Influenzato da William Morris lavora a svariate opere di design dalle ceramiche ai tessuti, crea opere più classiche da presentare al grande pubblico durante tutto il corso della sua carriera, senza mai rinunciare alla carica fantastica. Ne sono esempio The Lady of Shallot del 1862

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The Lady of Shallot, W. Crane, olio su tela, 1862, Yale Center for British Art, New Haven

il delicato Ritratto della moglie del 1882, Mrs. Crane o i Cavalli di Nettuno del 1892 che abbiamo inserito in apertura del post.

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Ritatto della Moglie, Mrs. Crane, W. Crane, 1882, Museo d’Orsay

i Cavalli di Nettuno del 1892 che abbiamo inserito in apertura del post. Ma l’originalità di Walter Crane si esprime soprattutto nei libri di fiabe illustrati, con Edmund Evans intraprese una serie di pubblicazioni molto innovative che lasceranno un modello fondamentale per i futuri illustratori di libri per l’infanzia. Particolarmente interessanti sono Il principe ranocchio, La bella addormentata nel bosco, Il Principe felice di Oscar Wilde.

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Il Principe Ranocchio, W. Crane, illustrazione, 1873

Il suo stile più narrativo e spontaneo, che guarda alle illustrazioni orientali, riscosse grande successo nel pubblico di ogni età.