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Omaggio ad ALAN LEE (Middlesex, Inghilterra, 20 Agosto 1947)

Alan Lee è un artista vivente, non famoso quanto meriterebbe in quanto grandi capolavori dell’editoria e del cinema hanno conquistato un enorme pubblico grazie alla sua mediazione visiva.

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Alan Lee

Il ruolo dell’illustratore è infatti fondamentale per creare una visione collettiva del testo letterario o della sceneggiatura cinematografica, anche se nel caso di Lee possiamo più propriamente parlare del ruolo di  conceptual design, ossia di colui che raccoglie le idee, i concetti e li trasferisce ad un primo stadio di progettazione, il nocciolo dell’immagine che poi sarà modellato e perfezionato ma che è grazie all’immaginazione dell’artista qualcosa di concreto. Senza la fantasia degli illustratori molte creature fantastiche e terre immaginarie non popolerebbero i nostri sogni o i nostri incubi. Pensiamo alle splendide illustrazioni di Doré relative alla Divina Commedia o alle immaginifiche creazioni dei Preraffaeliti e degli artisti dell’Art Nouveau come Walter Crane che abbiamo incontrato di recente sul blog. Così i libri di Tolkien che rappresentano una delle più splendide creazioni fantastiche del XX secolo sarebbero rimasti noti solo ai più avidi divoratori della letteratura fantastica senza quelle immagini così potenti che trasportano ragazzi e adulti incantati in nuovi mondi letterari.

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Schizzo di Alan Lee sul mondo fantastico di Tolkien

Alan Lee, insieme ai canadesi J. Howe e T. Nasmith, elabora le descrizioni presenti nella saga tolkiana consegnandocela con la sua impronta e così rende più facile immaginare il mondo degli hobbit, le foreste fatate, i luoghi infernali abitati dagli orchi e le spelonche abitate dai nani.

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Schizzo della scena dell’addio nel finale del Signore degli anelli, Alan Lee

Alan Lee impiega magistralmente gli acquerelli come nell’immagine sopra riportata che cinematograficamente è stata resa così:

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Il ritorno del re, scena finale

Oppure impiega con estrema raffinatezza la linea (con penne o grafite) con esiti sempre stupefacenti e intensi:

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Il re degli stregoni, Alan Lee

Alan Lee ha contribuito alla realizzazione di altre imprese cinematografiche: Legend di Ridley Scott che raccoglie elementi tratti dal mondo delle fiabe di Grimm, King Kong e la serie televisiva Merlin.

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L’unicorno, Alan Lee
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Spirito della betulla, Alan Lee

Il capolavoro editoriale di Alan Lee è invece Faeries, dove le creature magiche dei boschi prendono vita in una serie di tavole illustrate famosissima. Folletti, fate e scenari fantastici elaborati con la collaborazione di Brian Froud affollano le pagine e la fantasia di lettori di tutto il mondo.

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Copertina di Faeries, Alan Lee
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Fate e folletti, Alan Lee

 

 

“QUEL CIAK CHE SA DI QUADRO”. EDWARD HOPPER E LA SETTIMA ARTE.

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“QUEL CIAK CHE SA DI QUADRO”. EDWARD HOPPER E LA SETTIMA ARTE

di Filippo Musumeci

Dei rapporti tra le opere di Edward Hopper e la “settima arte” – non necessariemente di matrice statunitense – s’indaga e discute, oggi più di ieri, in modo sistematico e, di volta in volta, con maggior respiro.
Per la critica italiana l’occasione ghiotta si concretizzò a monte della doppia e fortunata esposizione antologica hopperiana milanese (Palazzo Reale, 14 ottobre 2009 – 31 gennaio 2010) e romana (Fondazione Roma Museo, 16 febbraio – 13 giugno 2010).
Il ricordo della visita in quel di Milano è ancora lucidissimo e serbo soprattutto l’immagine delle ripetute ed estasiate soste dinanzi a Moning Sun (Sole del mattino, 1962; olio su tela. Columbus Museum of Art, Ohio) e Second Story Sunlight (Secondo piano al sole, 1960; olio su tela. Whitney Museum of American Art, New York).

 

Il catalogo della mostra Edward Hopper (a cura di Carter E. Foster. Skira editore), offrì preziosi spunti di riflessione per comprendere più dettagliatamente la produzione figurativa del pittore realista e il suo sguardo indagatore sulla società americana tra gli anni Dieci e Sessanta del Novecento.
Tra i saggi proposti, quello di Goffredo Fofi, “Hopper e il cinema”, più di altri contribuisce a ricostruire le influenze largamente esercitate dall’artista sul processo creativo di celebri cineasti: Howard Hawks (The Big sleep), Billy Wilder (The lost weekend), Win Wenders (Non bussare alla mia porta, Paris e Texas), Jim Jamusch (Broken flowers), Todd Hayner (Far from Heaven), Michelangelo Antonioni (Deserto rosso e Il grido), Dario Argento (Deep Red), Brian De Palma (Gli intoccabili), John Huston (Il mistero del falco), Herbert Ross (Pennies from heaven), Woody Allen (Manhattan), Terrence Malick (Days of Heaven) e, non ultimo, Alfred Hitchcock (Psycho, La finestra sul cortile, Vertigo e Intrigo internazionale).

4  Sono questi i maggiori e dichiarati debitori dell’arte di Hopper: coloro che hanno volutamente ridipingere in pellicola le inquadrature paesaggistiche e gli scorci urbani immortalati dal pittore sulla tela. Tuttavia l’elenco è più nutrito di quanto si possa credere e non sarebbe difficile, attraverso un lavoro di confronto e fermo immagine, riscontrare rimandi visivi alle opere di Hopper, reinterpretate in singoli fotogrammi sin dagli anni Quaranta del secolo scorso.
Ma questa non è la sede più specificatamente idonea per un’operazione così certosina. Qui, al più, si vuole attenzionare, senza pretesa alcuna, il palese e incontrovertibile rapporto tra due generi artistici, pittura e cinema, apparentemente diversi, ma profondamente affini.
Basti pensare ad alcune scene di Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) di Hitchcock, ove il “genio del brivido” scruta l’intimità (oggi diremmo la privacy) degli appartamenti dirimpettai del fotoreporter L.B. “Jeff” Jeffries servendosi proprio dell’occhio “esterno” di quest’ultimo e ricreando la stessa silente sensuale atmosfera contenuta negli innumerevoli interni metropolitani di Hopper, come Night Windows (1928), da cui il regista prende in prestito perfino il particolare del dorso inclinato dell’ignota donna in abito rosa del dipinto, ripetuto da Miss Torse, la procace ballerina della pellicola.

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Anche Woody Allen rese omaggio al pittore in una scena di Manhattan (1979) in cui Isaac Davis e Mary Wilke, seduti di spalle su di una panchina di fronte all’East River, fissano l’orizzonte riprendendo lo scorcio prospettico di Queensborough Bridge (1913).

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Ancora, Billy Wilder cita la serie dedicata da Hopper agli “interni di caffè”, Automat (1927), Clop Suey (1929) e il celeberrimo Nightawks (1942), in più scene di The Lost weekend (1945) in cui Ray Milland – nel ruolo che nel 1946 gli valse l’oscar come miglior attore protagonista – , ormai schiacciato dall’alcolismo, vive l’epilogo tragico dei tanti “giorni perduti” occupando in solitaria i freddi tavoli dei locali newyorkesi, nella disperata ricerca di un precario appiglio per il quale archiviare una carriera costellata di insucessi letterari.
Sono dipinti, questi, che attraggono il nostro sguardo perché costruiti con diagonali che esaltano l’immobilità autoreferenziale dei personaggi e la loro realtà materica oltre il moltiplicarsi delle fonti luminose e i densi spessori volumetrici della città.

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Si è accennato a Nightawks (Nottambuli, 1942) con il bar Phillies, forse il più celebre dell’intera produzione pittorica hopperiana, ma indubbiamente il più “ridipinto” in celluloide nell’arco di oltre un sessantennio da maestri della cinepresa succitati e per il quale lo stesso pittore disse: «Inconsciamente, forse, ho dipinto la solitudine di una grande città».

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In una scena di The maltese falcon (Il mistero del falco 1941) di John Huston, Humphrey Bogart attente due loschi personaggi all’interno di un locale di San Francisco del tutto simile a quello creato da Hopper. Ma, al di là di questi espliciti adattamenti scenografici di location, basterebbe soffermarsi sulla coppia seduta al bancone del locale per scorgerne attinenze estetiche tra l’uomo col borsalino e sigaretta in mano e l’archetipa immagine costruita da Humphrey Bogart nelle sue storiche performance.

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Goffredo Fofi scrive nel suo, già, citato saggio che l’opera di Hopper è: «contenuta, controllata, apparentemente distante, fredda, attenta alle solitudini e non alle folle di una società in movimento, alle sue agitazioni scomposte e spesso frenetiche».
Sempre Fofi scrive: «Nell’opera di Hopper c’è un doppio movimento dell’occhio non – selvaggio, anzi educatissimo: quello che va da fuori il quadro a dentro, e il suo contrario. C’è l’occhio che guarda dall’esterno dentro le stanze, i bar, gli uffici, come da cinematrografiche gru o da carrelli immobilizzati al punto giusto, il punto geometrico che solo l’intuito del regista sa fissare (si vede il regista, dicevano i grandi registi hollywoodiani, da dove piazza la macchina da presa), ed è qui che l’occhio della macchina diventa quello dello spettatore».
Quindi l’occhio dell’artista è simile a quello di un regista o di un fotografo, in quanto è questi a fornire massimo valore al rapporto tra personaggi e ambiente, decidendone pose e atteggiamenti, l’intensità più adatta delle sue luci e la disposizione dei vari volumi nella scena.
Pittura paesaggistica, ma soprattutto metropolitana e marcatamente americana, quella di Hopper. Eppure, le sue storie si muovono su sfondi scenografici privi di automobili e di folle vocianti, nonostante il crescente boom economico a stelle e strisce, in cui esterni e interni si compenetrano e si conseguono in un’unica indissolubile soluzione.
Gli scatti decisi dal pittore, infatti, sono dei “ciak” ove poche figure in pose composte, provvisorie e bloccate, guardano fuori dall’inquadratura verso ampie distese di praterie o ristretti scorci urbani, come fossero in pausa, in sosta o in perenne attesa. E quest’eterna attesa altro non è che “solitudine”: il male che non si debella, la condanna infertile del loro vissuto, quella che non porterà nulla di nuovo nelle loro esistenze e che lascerà tutto com’era e come dovrà essere.
Queste figure, a loro volte, sono osservate dallo spettatore con occhio attento e a “distanza”, oltre le vetrate, le finestre, le porte: figure che occupano strade e vie della metropoli; oppure gli interni di stanze d’albergo, caffè notturni, sale d’attesa, uffici,verande o semplicemente camere dei propri solitari appartamenti, delle proprie abitazioni, alla ricerca di un rifugio di pacifico silenzio.
Ed è la casa, intesa come dimora della “solitudine”, tra le scenografie più accuratamente indagate dal pennello di Hopper, come House by the Railboard (La casa sulla ferrovia, 1925: il primo dipinto dell’artista entrato nelle collezioni del Moma di New York), fonte d’ispirazione per Days of Heaven di Terrence Malick e Psycho di Hitchcock. In quest’ultimo, soprattutto, l’immagine della casa “vittoriana” come dimora della “solitudine” muta, piuttosto, in luogo di mistero e condanna ove si consuma il male abilmente architettato dallo psicopatico Norman Bates, soltanto sul finale svelato.

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Come ricorda la storica d’arte Orietta Rossi Pinelli, il quadro di Hopper ben di prestava al soggetto hitchcockiano per la collocazione solitaria e misteriosa; «unica presenza, ma neppure in primo piano; per quella possibilità di una vita all’interno che si presume solo da qualche persiana alzata; per quella sospensione del tempo che esclude ogni possibilità di azione».
Paradigma della pittura americana oggettivistica, House by the Railboard, in quanto segno della civiltà, ha caratteri antropomorfi, a cui sono contrapposti i binari della ferrovia, aventi la funzione di una linea d’orizzonte posta in primo piano. Secondo lo storico d’arte tedesco Ivo kranzfelder, «Hitchcock ha ripreso la tecnica di Hopper della visuale dal basso e dei piani inclinati nel film Psycho. […] Il dipinto ha l’effetto di un’istantanea presa da un treno in corsa, ma sono le stesse rotaie, sulle quali il treno dovrebbe muoversi, a scorrere nel quadro. Il movimento è congelato, esso non si attua nel dipinto, nella realtà dell’immagine».

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E dopo Hichcock è tutto un continuo remake di quella casa “vittoriana” dal carattere “gotico”, cioè sinistro, che sfocia fino a risultati più “commercialmente” intesi e di qualità opinabile, seppur di magnetica presa sugli amanti del genere horror e conseguenti facili guadagni al botteghino.

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Ma il mondo è bello perché vario e questa, per concludere, è fortunatamente un’altra storia!

© RIPRODUZIONE RISERVATA

EDWARD HOPPER: QUEL CIAK CHE SA DI “QUADRO”

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Dei rapporti tra le opere di Edward Hopper e la “settima arte” – non necessariemente di matrice statunitense – s’indaga e discute, oggi più di ieri, in modo sistematico e, di volta in volta, con maggior respiro.
Per la critica italiana l’occasione ghiotta si concretizzò a monte della doppia e fortunata esposizione antologica hopperiana milanese (Palazzo Reale, 14 ottobre 2009 – 31 gennaio 2010) e romana (Fondazione Roma Museo, 16 febbraio – 13 giugno 2010).
Il ricordo della visita in quel di Milano è ancora lucidissimo e serbo soprattutto l’immagine delle ripetute ed estasiate soste dinanzi a Moning Sun (Sole del mattino, 1962; olio su tela. Columbus Museum of Art, Ohio) e Second Story Sunlight (Secondo piano al sole, 1960; olio su tela. Whitney Museum of American Art, New York).

 

Il catalogo della mostra Edward Hopper (a cura di Carter E. Foster. Skira editore), offrì preziosi spunti di riflessione per comprendere più dettagliatamente la produzione figurativa del pittore realista e il suo sguardo indagatore sulla società americana tra gli anni ’10 e ’60 del Novecento.
Tra i saggi proposti, quello di Goffredo Fofi, “Hopper e il cinema”, più di altri contribuisce a ricostruire le influenze largamente esercitate dall’artista sul processo creativo di celebri cineasti: Howard Hawks (The Big sleep), Billy Wilder (The lost weekend), Win Wenders (Non bussare alla mia porta, Paris e Texas), Jim Jamusch (Broken flowers), Todd Hayner (Far from Heaven), Michelangelo Antonioni (Deserto rosso e Il grido), Dario Argento (Deep Red), Brian De Palma (Gli intoccabili), John Huston (Il mistero del falco), Herbert Ross (Pennies from heaven), Woody Allen (Manhattan), Terrence Malick (Days of Heaven) e, non ultimo, Alfred Hitchcock (Psycho, La finestra sul cortile, Vertigo e Intrigo internazionale).

4  Sono questi i maggiori e dichiarati debitori dell’arte di Hopper: coloro che hanno volutamente ridipingere in pellicola le inquadrature paesaggistiche e gli scorci urbani immortalati dal pittore sulla tela. Tuttavia l’elenco è più nutrito di quanto si possa credere e non sarebbe difficile, attraverso un lavoro di confronto e fermo immagine, riscontrare rimandi visivi alle opere di Hopper, reinterpretate in singoli fotogrammi sin dagli anni ’40 del secolo scorso.
Ma questa non è la sede più specificatamente idonea per un’operazione così certosina. Qui, al più, si vuole attenzionare, senza pretesa alcuna, il palese e incontrovertibile rapporto tra due generi artistici, pittura e cinema, apparentemente diversi, ma profondamente affini.
Basti pensare ad alcune scene di Rear Window (1954) di Hitchcock, ove il “genio del brivido” scruta l’intimità (oggi diremmo la privacy) degli appartamenti dirimpettai del fotoreporter L.B. “Jeff” Jeffries servendosi proprio dell’occhio “esterno” di quest’ultimo e ricreando la stessa silente sensuale atmosfera contenuta negli innumerevoli interni metropolitani di Hopper, come Night Windows (1928), da cui il regista prende in prestito perfino il particolare del dorso inclinato dell’ignota donna in abito rosa del dipinto, ripetuto da miss Torse, la procace ballerina della pellicola.

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Anche Woody Allen rese omaggio al pittore in una scena di Manhattan (1979) in cui Isaac Davis e Mary Wilke, seduti di spalle su di una panchina di fronte all’East River, fissano l’orizzonte riprendendo lo scorcio prospettico di Queensborough Bridge (1913).

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Ancora, Billy Wilder cita la serie dedicata da Hopper agli “interni di caffè”, Automat (1927), Clop Suey (1929) e il celeberrimo Nightawks (1942), in più scene di The Lost weekend (1945) in cui Ray Milland – nel ruolo che nel 1946 gli valse l’oscar come miglior attore protagonista – , ormai schiacciato dall’alcolismo, vive l’epilogo tragico dei tanti “giorni perduti” occupando in solitaria i freddi tavoli dei locali newyorkesi, nella disperata ricerca di un precario appiglio per il quale archiviare una carriera costellata di insucessi letterari.
Sono dipinti, questi, che attraggono il nostro sguardo perché costruiti con diagonali che esaltano l’immobilità autoreferenziale dei personaggi e la loro realtà materica oltre il moltiplicarsi delle fonti luminose e i densi spessori volumetrici della città.

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Si è accennato a Nightawks (1942) con il bar Phillies, forse il più celebre dell’intera produzione pittorica hopperiana, ma indubbiamente il più “ridipinto” in celluloide nell’arco di oltre un sessantennio da maestri della cinepresa succitati e per il quale lo stesso pittore disse: «Inconsciamente, forse, ho dipinto la solitudine di una grande città».

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In una scena di The maltese falcon (Il mistero del falco 1941) di John Huston, Humphrey Bogart attente due loschi personaggi all’interno di un locale di San Francisco del tutto simile a quello creato da Hopper. Ma, al di là di questi espliciti adattamenti scenografici di location, basterebbe soffermarsi sulla coppia seduta al bancone del locale per scorgerne attinenze estetiche tra l’uomo col borsalino e sigaretta in mano e l’archetipa immagine costruita da Humphrey Bogart nelle sue storiche performance.

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Goffredo Fofi scrive nel suo, già, citato saggio che l’opera di Hopper è: «contenuta, controllata, apparentemente distante, fredda, attenta alle solitudini e non alle folle di una società in movimento, alle sue agitazioni scomposte e spesso frenetiche».
Sempre Fofi scrive: «Nell’opera di Hopper c’è un doppio movimento dell’occhio non – selvaggio, anzi educatissimo: quello che va da fuori il quadro a dentro, e il suo contrario. C’è l’occhio che guarda dall’esterno dentro le stanze, i bar, gli uffici, come da cinematrografiche gru o da carrelli immobilizzati al punto giusto, il punto geometrico che solo l’intuito del regista sa fissare (si vede il regista, dicevano i grandi registi hollywoodiani, da dove piazza la macchina da presa), ed è qui che l’occhio della macchina diventa quello dello spettatore».
Quindi l’occhio dell’artista è simile a quello di un regista o di un fotografo, in quanto è questi a fornire massimo valore al rapporto tra personaggi e ambiente, decidendone pose e atteggiamenti, l’intensità più adatta delle sue luci e la disposizione dei vari volumi nella scena.
Pittura paesaggistica, ma soprattutto metropolitana e marcatamente americana, quella di Hopper. Eppure, le sue storie si muovono su sfondi scenografici assolutamente privi di automobili e di folle vocianti, nonostante il crescente boom economico a stelle e strisce, in cui esterni e interni si compenetrano e si conseguono in un’unica indissolubile soluzione.
Gli scatti decisi dal pittore, infatti, sono dei “ciak” ove poche figure in pose composte, provvisorie e bloccate, guardano fuori dall’inquadratura verso ampie distese di praterie o ristretti scorci urbani, come fossero in pausa, in sosta o in perenne attesa. E quest’eterna attesa altro non è che “solitudine”: il male che non si debella, la condanna infertile del loro vissuto, quella che non porterà nulla di nuovo nelle loro esistenze e che lascerà tutto com’era e come dovrà essere.
Queste figure, a loro volte, sono osservate dallo spettatore con occhio attento e a “distanza”, oltre le vetrate, le finestre, le porte: figure che occupano strade e vie della metropoli; oppure gli interni di stanze d’albergo, caffè notturni, sale d’attesa, uffici,verande o semplicemente camere dei propri solitari appartamenti, delle proprie abitazioni, alla ricerca di un rifugio di pacifico silenzio.
Ed è la casa, intesa come dimora della “solitudine”, tra le scenografie più accuratamente indagate dal pennello di Hopper, come House by the Railboard (La casa sulla ferrovia, 1925: il primo dipinto dell’artista entrato nelle collezioni del Moma di New York), fonte d’ispirazione per Days of Heaven di Terrence Malick e Psycho di Hitchcock. In quest’ultimo, soprattutto, l’immagine della casa “vittoriana” come dimora della “solitudine” muta, piuttosto, in luogo di mistero e condanna ove si consuma il male abilmente architettato dallo psicopatico Norman Bates, soltanto sul finale svelato.

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Come ricorda la storica d’arte Orietta Rossi Pinelli, il quadro di Hopper ben di prestava al soggetto hitchcockiano per la collocazione solitaria e misteriosa; «unica presenza, ma neppure in primo piano; per quella possibilità di una vita all’interno che si presume solo da qualche persiana alzata; per quella sospensione del tempo che esclude ogni possibilità di azione».
Paradigma della pittura americana oggettivistica, House by the Railboard, in quanto segno della civiltà, ha caratteri antropomorfi, a cui sono contrapposti i binari della ferrovia, aventi la funzione di una linea d’orizzonte posta in primo piano. Secondo lo storico d’arte tedesco Ivo kranzfelder, «Hitchcock ha ripreso la tecnica di Hopper della visuale dal basso e dei piani inclinati nel film Psycho. […] Il dipinto ha l’effetto di un’istantanea presa da un treno in corsa, ma sono le stesse rotaie, sulle quali il treno dovrebbe muoversi, a scorrere nel quadro. Il movimento è congelato, esso non si attua nel dipinto, nella realtà dell’immagine».

12
E dopo Hichcock è tutto un continuo remake di quella casa “vittoriana” dal carattere “gotico”, cioè sinistro, che sfocia fino a risultati più “commercialmente” intesi e di qualità opinabile, seppur di magnetica presa sugli amanti del genere horror e conseguenti facili guadagni al botteghino.

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Ma il mondo è bello perché vario e questa, per concludere, è fortunatamente un’altra storia!

Filippo Musumeci