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ESPLORIAMO L’OPERA: IL “FREGIO DI BEETHOVEN” DI GUSTAV KLIMT.

IL “FREGIO DI BEETHOVEN” (BEETHOVENFRIES)
di
GUSTAV KLIMT

di Filippo Musumeci

«So dipingere e disegnare. Lo penso io e lo dicono anche gli altri, ma non sono sicuro che sia vero. Di sicuro so soltanto due cose:
1. Non ho mai dipinto un autoritratto. La mia persona come soggetto di un quadro non mi interessa. Mi interessano gli altri, soprattutto le donne e più ancora le altre forme. Credo che in me non ci sia niente di particolare da vedere. Sono un pittore che dipinge tutti i giorni, dalla mattina alla sera: figure, paesaggi e, più raramente, ritratti.
2. Non valgo molto con le parole, non sono capace di parlare e di scrivere, soprattutto se devo dire qualcosa di me o del mio lavoro. Anche se devo scrivere una cosa se avessi la nausea. Bisognerà dunque rinunciare a un mio autoritratto, artistico o letterario. Non sarà una grande perdita: chi vuole sapere qualcosa di me come artista (che è l’unica cosa che valga la pena di conoscere) deve guardare direttamente i miei quadri. Solo così potrà capire che sono e cosa voglio». (Gustav Klimt)

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ANNO: 1902
TECNICA e MATERIALI: caseina, smalti e intonaco su pannelli lignei incannucciati. Frammenti di specchio, bottoni , chiodi di tappezzeria, pezzi di vetro colorato e dorature.
DIMENSIONI: 2,20 x 24 m.
LUOGO DI UBICAZIONE: Vienna – Wiener Secessionsgebäude (Palazzo della Secessione).
ESPOSIZIONE: XIVa mostra della “Secessione viennese” – dal 15 aprile al 17 giugno 1902.

Intitolata sinteticamente “Beethoven”, la XIVa mostra secessionista viennese fu allestita dall’aprile al giugno 1902 nei locali del celebre Palazzo della Secessione (in tedesco “Wiener Secessionsgebäude”, di cui vi abbiamo aprlato QUI), progettato da Joseph Maria Olbrich (Troppau, 22 dicembre 1867 – Düsseldorf, 8 agosto 1908) – allievo di Otto Wagner – tra il 1897 e il 1898 come spazio espositivo «templare» a tre navate per gli artisti legati all’ideale della Gesamtkunstwerk di wagneriana memoria, letteralmente “Opera d’arte totale”.
L’esposizione ideata dall’architetto, nonché direttore artistico generale, Josef Franz Maria Hoffmann (Brtnice, 15 dicembre 1870 – Vienna, 7 maggio 1956), con la partecipazione di 21 artisti della Secessione viennese (Wiener Secession), ebbe come leitmotiv la celebrazione di Ludwig van Beethoven (Bonn, 16 dicembre 1770 – Vienna, 26 marzo 1827): genio titanico del classicismo viennese e antesignano del romanticismo musicale che più di chiunque altro rappresentò agli occhi dei giovani artisti la personificazione della speranza in nuovo futuro e la lotta contro le forze avverse della società, nemiche dello spirito creativo.

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Il giorno dell’inaugurazione fu eseguito il quarto movimento della Nona Sinfonia in Re minore con voci e coro finale (Op. 125, nota anche come Sinfonia corale: ultima sinfonia composta dal compositore nel 1824, ormai affetto da sordità, e la cui prima assoluta avvenne venerdì 7 maggio dello stesso anno al Theater am Kärntnertor di Vienna, con la contralto Caroline Unger ed il tenore Anton Haizinger), orchestrato ex novo per legni e ottoni dall’allora direttore dell’Opera viennese Gustav Mahler (Kalischt, 7 luglio 1860 – Vienna, 18 maggio 1911), le cui note risuonarono lungo le parete della sala centrale del padiglione, ove campeggiava la scultura policroma di Beethoven realizzata da Max Klinger e a cui facevano da corona i lavori degli altri espositori.

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Tale scultura, dal carattere eroico e sacro – il cui il soggetto, simile a una divinità olimpica, appare in trono senza veli, coperto da un solo lungo drappeggio, con il pugno serrato sulle gambe accavallate e lo sguardo frontale – incarna il martire e salvatore moderno dell’umanità. Gli aderenti alla Secessione viennese, in tal modo, vogliono trasfigurare l’esposizione in un evento di suggestiva eco dal valore salvifico: celebrare Beethoven, quale incarnazione del libero genio – intorno al quale, negli stessi anni, si venne a creare un vero culto alimentato da musicisti come Franz Liszt, Richard Wagner e lo stesso Mahler (mentre in Francia Èmile-Antoine Bourdelle creava la “grande maschera tragica di Beethoven” e Romain Rolland scriveva La vita di Beethoven) – significava esaltare l’amore e l’abnegazione attraverso le quali si compiva la redenzione etica e spirituale dell’uomo.
E coerentemente al tema promosso nella mostra, nella sala sinistra del Palazzo espositivo, Gustav Klimt, fedele all’evoluzione stilistica del suo linguaggio espressivo, immaginò il celebre fregio beethoviano come un’allegoria figurativa della Nona Sinfonia, filtrandola attraverso la poetica elaborata da Nietzsche sulla possi¬bile redenzione del genere umano per mezzo delle arti.
È probabile che il pittore abbia trovato ispirazione nel saggio su Beethoven steso nel 1846 da Richard Wagner, nume tutelare dei secessionisti per la capacità di contrastare la natura corrosiva della società con la funzione liberatoria della musica. Non è casuale che per l’ultimo pannello del Fregio Klimt abbia scelto come “motto” una frase tratta dallo scritto wagneriano («II mio regno non è di questo mondo») allo scopo di sottolineare le distanze dell’artista dalla realtà delle apparenze fenomeniche.
Josef Hoffmann progettò l’allestimento degli spazi espositivi destinati ad accogliere le sperimentazioni estetiche strettamente connesse alla musica impiegando cemento grezzo al fine di rendere l’intero ambiente pienamente neutrale, conscio del disarmo dei lavori a fine mostra. Dunque, l’opera klimtiana non fu concepita per esistere oltre l’arco temporale di quel bimestre del 1902 e ciò spiega chiaramente la scelta della tecnica esecutiva alla caseina (una proteina contenuta nel latte che si ottiene mediante un complesso procedimento chimico e impiegata sia nella tempera su tavola che su parete. In pittura è impiegato come fissativo e adesivo del colore a base di calce, presentandosi come sostanza durissima, resistente, opaca e vellutata o satinata se strofinata con un panno di lana), e smalti su doppio strato d’intonaco steso su un graticcio ligneo inchiodato a canne applicate su fili di ferro. Inoltre, per ottenere effetti di sottili vibrazioni cromatiche, Klimt vi inserì frammenti di specchio, bottoni , chiodi di tappezzeria, pezzi di vetro colorato e dorature. Tutti materiali, questi, facilmente asportabili.
Tuttavia, al di là delle feroci critiche lanciate al suo autore, il Fregio di Beethoven fu salvato dall’oblio e alcune parti decorative sono custodite in musei statali e collezioni private.
Il collezionista Carl Reininghaus acquistò il Fregio e dispose che l’opera fosse tagliate in otto segmenti al fine di staccare la decorazione parietale al termine della retrospettiva dedicata a Klimt nel 1903 (XVIIIa esposizione).
Nel 1915 fu ceduto all’industriale August Lederer, che espropriato dei propri beni nel 1938 si vide confiscare l’opera rimasta, così, in territorio austriaco, fino all’acquisizione della Repubblica d’Austria nel 1973. Infine, nel 1986, dopo uno scrupoloso restauro decennale, venne concesso in prestito permanente dalla Österreichische Galerie Belvedere (Galleria austriaca del Belvedere Superiore), attuale proprietaria del ciclo pittorico, e ospitato nel Palazzo della Secessione in un locale appositamente realizzato.
Oggi il Fregio si presenta costituito da sette composizione su altrettanti pannelli applicati nella zona superio¬re delle pareti, integrandosi perfettamente con la linearità ed essenzialità degli ambienti predisposti da Josef Hoffmann. Classificato come bene inamovibile dallo Stato austriaco, dell’opera è stata eseguita una copia a grandezza naturale da esporre nelle mostre estemporanee estere.
In questa composizione corale, Klimt supera la fase dell’’illusionismo d’atmosfera tipico della sua pittura precedente, per approdare a una rappresentazione stilizzata e bidimensionale, ove la linea di contorno di impone come primario elemento espressivo.
Nel catalogo della mostra lo stesso artista descriveva con queste parole la sua messinscena:
«Prima parete lunga di fronte all’ingresso: “il desiderio della felicità”.
Le sofferenze del debole genere umano: le suppliche costituiscono la forza esterna, la compassione e l’ambizione la forza interna, che muovono l’uomo forte e ben armato alla lotta per la felicità.
Parete più corta: “le forze ostili”. Il gigante Tifeo, contro il quale perfino gli dei combatterono inutilmente; le sue figlie, le tre Gòrgoni: la malattia, la follia, la morte. La volontà e la lussoria, l’eccesso. L’angoscia che rode. In alto le affezioni e i desideri degli uomini che volano via.
Seconda parete lunga: “il desiderio di felicità si placa nella poesia”. Le arti ci conducono nel regno ideale dove possiamo trovare la pace assoluta, la felicità assoluta, l’amore assoluto. Coro degli angeli del Paradiso. Gioia, meravigliosa scintilla divina».

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Klimt si servì dello spazio chiuso della navata per svolgere un rapporto simbolico unitario, secondo una stilizzazione concisa e pregnante, articolato in una ritmica sequenza di episodi, vertenti sulla narrazione del lungo viaggio dell’individuo alla ricerca della felicità, tra forze del bene e del male, come evidenziato dalla filosofia di Schopenhauer.
In seguito alla definitiva collocazione entro il nuovo spazio espositivo, la sequenza allegorica del ciclo è in parte mutata:
Sulla parete sinistra è rappresentato “L’Anelito alla felicità” (non più posto frontale secondo la presentazione originale). Secondo un’ornamentazione continua, la catena di figure flessuose e fluttuanti (allegoria dell’anelito alla felicità che muove il Cavaliere eroe) che si librano nello spazio con andamento ritmico, ispirate ai dipinti di Jan Toorop, ritmicamente reiterate e protese verso l’infinito, è interrotta dalla solenne figura del Cavaliere vestito dell’armatura dorata – secondo gli studi sarebbe un ritratto di Gustav Mahler – che ascolta, appoggiato alla sua spada, le invocazioni e preghiere di un’umanità flebile e sofferenze rivolte ai forti ben armati affinché intraprendano per pietà e orgoglio, quali forze trainanti, la lotta per la felicità assoluta. Alle sue spalle sono raffigurate le due allegorie della compassione (con il capo chino inclinato e le mani giunte) e dell’ambizione (con volto frontale e corona di alloro in mano), quest’ultima ispirato all’Igea dell’allegoria della Medicina (1900-07)
Nella parete centrale viene rappresentata l’ “Ostilità delle forze avverse”, impersonata dal gigante Tifeo (o Tifone, etimologicamente “Fumo stupefacente”) – ibrida bestia scimmiesca dal manto arruffato, ali blu e corpo serpentino che osserva i visitatori con occhi madreperlacei (simbolo dell’ottusità materialista), attorniato sulla destra dalle figure della lussuria, dell’impudicizia e dell’incontinenza (quest’ultima riconoscibile dal grosso ventre sporgente e il cui pingue corpo e un chiaro omaggio a Aubrey Beardsley) e, distaccata dal gruppo, la rannicchiata e smilza figura dell’angoscia che rode (dolore struggente o il tormento) – e dalle sue tre figlie, le Gòrgoni (etimologicamente “le terribili”), ornate di gioielli e serpenti. Esse appaiono come esseri vampireschi, simboli della malattia, della pazzia e della morte. I desideri e gli aneliti dell’uomo, in fuga da queste forze devastanti che li condurrebbero a morte, sono simboleggiati nella parete destra della composizione. In realtà, Nelle Metamorfosi di Ovidio e nel Promèteo di Eschilo, Tifeo è una creatura metà uomo – metà bestia: testa di asino, ali di pipistrello e più alto della montagna più alta del mondo. Figlio di Gea (la Terra) e Tartaro (dio della realtà sotterranea e tenebrosa), fu confinato nell’Etna e fu motivo di violente eruzioni laviche. Si unì con Echìdna da cui ebbe tre figli: Ortro (o Otro. Cane bicefalo), Cèrbero (Cane tricefalo), Chimèra (creatura femminile mostruosa con corpo di Leone, coda di serpente e testa di capra sul dorso), Idra di Lerna (creatura femminile mostruosa dalle forme di Serpente marino). Ortro (o Orto) si unì, poi, con la madre Echìdna concependo la Sfinge e il Leone di Nemèa (o Nemèo).

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Le tre Gòrgoni, dunque, erano figlie del dio Forco (Forci o Fòrcide: simbolo dei pericoli nascosti negli abissi) e Ceto (creatura femminile mostruosa marina). Presentano un corpo alato con ali d’oro, mani e artigli bronzei, zanne di cinghiale e testa avviluppata di serpenti sibilanti.Conosciute con i nomi di Steno (la perversione sessuale), Eurìale (la perversione morale) e Medusa (la perversione intellettuale. Quest’ultima è, delle tre, l’unica mortale, inoltre è la regina delle Gòrgoni e madre di Pègaso, il cavallo alato, e Crisàore). Solo Virgilio le designa tutte e tre come esseri mortali.

Poiché “non c’è felicità senza arte” e solo «le Arti ci conducono in un mondo ideale, l’unico dove possiamo trovare la pace assoluta, la felicità assoluta e l’amore assoluto», nell’ultima sezione del Fregio è rappresentato “L’anelito alla felicità che si placa nella poesia”, delineato dalle Arti che conducono in un mondo ideale dove finalmente si palesano la gioia, la felicità e l’amore allo stato puro, cantati dal Coro degli angeli del Paradiso (simbolo dell’Empireo della poesia e della bellezza ideale), come una parafrasi pittorica dell’ “Inno alla gioia” di Schiller.

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Solo per questa via il volo delle Silfidi (simbolo dei desideri dell’uomo) può penetrare nell’Empireo ove le Muse ondeggiano mollemente nella luce dorata, modulato sul dolce suono della lira splendente della Poesia (ispirata alla Musica I e II) che stempera ogni ansia.
Tutto si conclude – e non poteva essere altrimenti, dato che in un passaggio del coro finale della Nona Sinfonia si recita: «Questo bacio al mondo intero» – con l’abbraccio del cavaliere disarmato e della donna, personificazione della poesia, vegliati dalle fronde dell’albero della vita e dai medaglioni cosmici del Sole e della Luna (personificazioni del giorno e della notte: le due fasi del giorno intese come inizio e fine), sotto la protezione di una campana decorativa immateriale simile a uno scrigno d’oro, motivo, questo, ripreso in seguito nel Fregio di Palazzo Stoclet di Bruxelles (1905-09) e nel celeberrimo II bacio (1907-08).

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Dunque il significato profondo dell’opera risiede proprio in quest’ultimo abbraccio: esso sigla “la salvezza dei pochi eletti che si lasciano trasportare nel mondo ideale dell’arte”, vale a dire “un regno che non è di questo mondo”.
«Come le Vergini in processione nei mosaici di Sant’Apollinare in Classe, i Cori angelici posano su un prato di smalti; come nelle cupole dei Battisteri degli Ortodossi e degli Ariani, molli garze filamentose velano il piede dell’uomo e della donna; come nell’ultima arte bizantina il corpo si scinde in foglie d’oro puro, in un ricamo di linee luminose, in superfici abbaglianti. La volumetria è il luogo del male, esprime il peso della colpa, mentre nell’Empireo tutto è levità, soffio sacro, volo e velo di luce» (Elena Pontiggia).

Complessivamente si avverte una dominante tendenza all’astrazione attraverso la semplificazione formale, plasmando l’intero ciclo di un effetto evanescente estremamente raffinato, cui contribuisce il particolare uso dell’intonaco volto a isolare gli elementi in modo paratattico (giustapposizione, cioè successione di elementi isolati, contraria a “sintattica”) e scandire con ampi spazi vuoti gli spazi pieni occupati dalle figure.
Per la generazione di Klimt, che amava l’ambizione, la libertà creativa e l’utopia, l’Arte ha un potere salvifico e da questa convinzione si sviluppa l’interesse, particolarmente approfondito dai secessionisti, per l’opera d’arte globale.
Tra fine Ottocento e primo decennio del Novecento, Klimt indaga attraverso la sua pittura sul senso della vita, trovando una prima formulazione nelle tre composizioni allegoriche della Filosofia (1899-1907), Medicina (1900-1907) e Giurisprudenza (1903-07), realizzate per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università viennese, ma andate distrutte durante l’incendio del Castello di Immendorf nel 1945: la sua risposta appare in netto contrasto con il positivismo del tempo, provocando durissime accuse e un vespaio di polemiche a causa del processo di mistificazione e disincanto eloquentemente espressi nei pannelli.
Oggi, a testimonianza di queste tre composizioni allegoriche, restano soltanto fotografie in bianco e nero, poiché sciaguramente distrutte dall’incendio doloso del Castello di Immendorf (Austria settentrionale) appiccato dalle SS naziste la notte tra il 7 e l’8 maggio 1945, all’indomani della dichiarazione di resa delle truppe naziste in territorio austriaco: temendo che le truppe sovietiche entrassero in possesso delle opere ivi depositate negli anni dal regime perché ritenute eccessivamente sensuali, gli ufficiali ordinarono di piazzare l’esplosivo nelle quattro torri del sito, distruggendolo interamente.
Tornando al Fregio, la XIVa esposizione secessionista, tuttavia, si presentava come la possibilità utopica di redimere l’uomo attraverso le straordinarie forze purificatrici dell’arte e dell’amore. Ciononostante, l’iniziativa si presentò come una momentanea e repentina sconfitta anche sul fronte finanziario oltre che artistico, poiché il ciclo klimtiano ricevette un’accoglienza marcatamente gelida e una profonda indignazione per via delle tre Gorgoni e allegorie (Lussuria, Impudicizia, Incontinenza e Angoscia), ritenute ripugnanti, nelle quali Klimt inserì espliciti particolari degli organi sessuali maschili e femminili, a sperma e ovuli.
Una plausibile spiegazione alla reazione del pubblico, in linea, del resto, con il gusto accademico di inizio secolo, potrebbe trovare risposta analizzando il progresso stilistico compiuto da Klimt nel tempo, votato a una completa autonomia delle forme e linee nonché a un approccio ornamentale di maggior respiro e inequivocabilmente moderno. Al ché, il valore intrinseco della rappresentazione, insito nell’opera di redenzione dell’uomo compiuto per mezzo della donna nell’abbraccio finale, raggiunge lo spettatore con forzata difficoltà, poiché questi si attiene convenzionalmente a canoni estetici per i quali il “bello” è sinonimo d’idealizzazione formale, lungi da una rappresentazione palesemente brutale della realtà (Gilles Néret).
Jean-Paul Bouillon afferma nel suo saggio sul Fregio di Beethoven che il disvelamento della sessualità operato da Klimt non rappresenta una vera liberazione: «Egli cade al contrario in un duplice incubo: quello della donna castratrice – e questa volta attraverso il proprio stesso sesso senza la mediazione della rappresentazione simbolica di Giuditta I del 1901 – e quello della donna lasciva che vuole ottenere il piacere soprattutto solo per sé (Lussuria e molti disegni “erotici” di Klimt), costituendo un pericolo per l’uomo. La prima di queste immagini femminili appare nella striscia centrale sotto forma delle tre Gorgoni.
Le stesse tre figure ricorrono nella Giurisprudenza, qui insieme con la loro vittima, alla quale mostrano senza mezzi termini ciò che l’osservatore, smascherato come voyeur, debba aspettarsi da loro. La seconda immagine riguarda il gruppo simmetrico accanto a Tifeo, integrato un poco oltre dal tormento, un’allusione alla silfide che Klimt… temeva particolarmente… L’istitutrice dalla perversa, polimorfa sessualità, descritta da Freud nei “Tre saggi sulla sessualità” del 1905, si mostra in quest’opera ancora più temibile proprio perché è sufficiente a se stessa: nella striscia centrale l’uomo non trova posto».

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È singolare come l’uomo venga rappresentato da Klimt di rado e solo allo scopo di risaltare la figura femminile: nella Vienna di fine secolo l’uomo si sente evidentemente minacciato ed escluso dall’universo femminile dominato dalla donna fatale. Il narcisistico mondo delle lesbiche che si amano nella corrente di Bisce d’acqua I e Bisce d’acqua II è emblematico dell’angoscia suscitata dalla femminilità dominante. Anche l’eroe bee¬thoveniano, dunque, si trova, senza abiti e senza armatura, in una condizione di assoluta subordinazione, nonostante la forza espressa dal suo corpo – come ribadisce ancora Jean-Paul Bouillon – sono le braccia della donna che lo rendono prigioniero e gli tengono il capo chino. Non vi è più nulla in lui del trionfante Teseo sul Manifesto della Secessione, egli, al contrario, volge le spalle alle Furie castatrici nella posizione di un debole vecchio, come quello ritratto nella Giurisprudenza … In lui è percepibile l’ambiguità della sessualità tanto come punizione quanto come piacere (C. E. Schorske).
È il ritorno dell’eroe al grembo materno, la fine del viaggio verso un corpo che egli non avrebbe mai dovuto lasciare, l’ultimo abbraccio che equivale anche a un ritorno alle origini, a quel cosmo in cui la donna è la vera vincitrice.
Secondo Eva Di Stefano, l’opera contiene un ulteriore livello simbolico, poiché Klimt vi interpreta la contrapposizione atemporale tra bene e male, oltre all’aspirazione al riscatto ideale attraverso l’arte, dal punto di vista del rapporto uomo-donna: nell’opera, infatti, il momento della liberazione è identificato con il raggiungimento dell’estasi amorosa, e il regno ideale con l’abbraccio della donna. All’elemento maschile, il Cavaliere, corrisponde nella parete destra (dello spettatore) di fronte una figura femminile, la Poesia: ripiegata su se stessa nell’attesa passiva, ella suona la lira, riprendendo lo schema iconografico della Musica I (1895, Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammulungen) e Musica II (1898, distrutto nell’incendio dolodo del Castello di Immendorf nel 1945); e alla “femminile” curvilinearità del suo strumento corrisponde la spigolosità “maschile” della corazza di cui l’uomo è armato. Per raggiungere la donna e congiungersi a lei il Cavaliere dovrà compiere un viaggio agli Inferi, attraversare, sconfiggendole, le forze del male e resistere alla seduzione delle sirene malvage e lascive.

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Prosegue Di Stefano: «Se femminili sono le due figure propiziatrici (Compassione e Ambizione) e femminile è la corrente fluttuante di corpi che lo guida per la via pericolosa che egli dovrà superare, femminile è anche l’universo malefico abitato dalle Gòrgoni, parodia del tema delle Tre Grazie e dalle loro compagne impudiche o terrificanti. Nella mitologia greca Tifeo è rivale di Atena, nume tutelare della “nuova arte”, e l’impresa del Cavaliere appare analoga a alla lotta col drago, ricorrrente nei miti e nelle leggende: le imprese di Giasone, Eracle, San Michele, San Giorgio sono state interpretate dalla psicologia del profondo come vicende simboliche d’iniziazione alla virilità attraverso la sconfitta delle forze telluriche e aggressive della femminilità.
Spogliato della sua corazza, il protagonista, visto di spalle, è immerso nell’abbraccio, ma, più che un eroe vittorioso, appare come un amante soggiogato: così l’immagine, che apparentemente celebra la liberazione e il trionfo dell’eroe sulle forze ostili, è in realtà anche l’immagine della sua resa al potere femminile che è identico all’eros, è la vittoria dell’universo dei sensi sulla paura e sui diurni e razionali strumenti di difesa. Coerentemente con la poetica, l’apoteosi dell’aria arabescata da Klimt sulle pareti del tempio secessionista non poteva che affermare ancora la coincidenza tra erotica ed estetica».

L’analisi stilistica del ciclo pittorico suggerisce le molteplici fonti a cui attinse il suo autore: dalla pittura egizia ricava la concezione della parete come fascia ove si allineano in sequenza narrativa i soggetti figurativi; dalle stampe di Hokusai e Utamaro deriva il segno incisivo; la scultura africana (che a quel tempo Klimt cominciato a collezionare) gli suggerisce le orride maschere che abitano il regno del male; minoico-micenee sono, invece, le spirali, come coup de fouet (colpo di frusta) che si ripetono attorno alla figura della Poesia; mentre dal bizantinismo musivo ravennate recupera la matrice astratta e luministica dell’oro, largamente impiegato. Nelle figure si mescolano, ancora, echi di Minne, Aubrey Beardsley (Copertina per “Ali baba e i quaranta ladroni”, Londra, 1897), Mackintosh, Jan Toorop – artista ospite della Secessione nel 1900 – (illustrazione tratta da W.G. Nouthuys, “Egidius en de wreemdeling”, Haarlam, 1899), Hodler (“L’eletto”, 1893-94, Karl Ernst Oathaus Museum) e tutta la cultura Jugendstil della linea viene nel Fregio liricamente condensata (Eva Di Stefano).

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A differenza di altri colleghi secessionisti, Klimt non rinnegò la plasticità classica ma superò la tradizione collocando i corpi entro composizioni ingegnose e assolutamente originali. Come afferma Giuseppe Nifosì: «le figure si articolano tra loro, si annodano in catene complesse, franano verso lo spettatore come cascate spettacolari. Allo stesso tempo, le contorte fisionomie si muovono entro un fondo astratto caratterizzato da un travolgente ritmo vibratorio. Queste intense decorazioni corpuscolari, questi fastosi mosaici composti da rombi, occhi di pavone, curve spiraliformi, tessere brillanti non sono mai abbandonati alla pura casualità e all’arbitrio; al contrario sono governati da un controllo attento e serratissimo».

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Il colore dell’Oro

Il colore dell’Oro

di Emanuela Capodiferro

Una materia unica

L’oro è un minerale dal fascino indiscutibile, usato dall’uomo già nell’età preistorica accanto al più frequente rame. Duttilità, malleabilità ma anche resistenza all’attacco degli agenti esterni hanno reso questo minerale raro il metallo nobile per eccellenza. Solitamente in natura si trova legato all’argento, per cui gli oggetti più antichi sono non tanto in oro puro ma in elettro, una lega che comprende anche argento appunto. Dal X secolo a.C. in poi si comincia a impiegare la tecnica che permette di ottenere oro puro attraverso l’uso del crogiolo.

Il significato nell’Antichità

Il principale motivo che ha reso l’oro prezioso agli occhi dell’uomo è indubbiamente il suo colore: glorioso, sfolgorante e giallo come il sole. Fin dalle epoche preistoriche l’astro era simbolo delle divinità principali negli arcaici pantheon e ad esso erano tributati culti di grande rilievo riconoscendo in esso la prima fonte di vita. Ogni volta che si voleva richiamare, attraverso l’arte, la divinità, spesso si impiegava l’oro nella figurazione. In principio non è ancora presente nei dipinti ma in oggetti preziosi, gioielli e utilizzato come moneta di scambio.

Orna la cima di piramidi, obelischi, l’interno di tombe e templi spesso decorati ricorrendo all’oro o al giallo proprio quale riferimento alle divinità solari. Gli Egiziani ritenevano che la stessa sostanza del sole fosse oro liquido.

Salute a te, oh Râ!

Nella tua bellezza e nella tua perfezione

in qualunque posto tu sia

e nel tuo brillante oro.

Omaggio a te, che ti elevi nell’oro

che rischiari i Due Paesi.

Il giorno in cui tu nascesti al mondo

quando tua madre ti fece infante nelle sue mani

Tu hai rischiarato l’orbita del disco solare.

In questo inno presente nei Testi delle Piramidi è esplicito il riferimento a Râ, dio del sole, come sostanziato d’oro e accanto a lui anche in altre civiltà le divinità solari era rappresentate sempre con l’oro o il giallo oro.

Rappresentazione del Sole, Arte egizia

Anche i miti greci rappresentano con l’oro la sostanza divina. Notissima è la leggenda del vello d’oro ricercato dagli Argonauti, e altrettanto lo è il mito di Eos, personificazione dell’Aurora, di Elio, la divinità che conduce il sole raggiante su un carro durante il giorno fino ad immergersi al tramonto in una coppa d’oro.

Anche Apollo, dio greco della salute del corpo e dell’anima (attraverso la poesia) e altra personificazione del sole, ricevette un culto luccicante d’oro prima in Grecia e poi nel mondo romano.

La materia dorata oltre ad essere associata al sole è anche simbolo di incorruttibilità e immutabilità, per cui di tutto quello che è sacro ed eterno. Zeus per amare la bella Danae si muta in pioggia d’oro. Ma anche le rappresentazioni di Atena, Demetra, Ermes o Dioniso parlano di chiome dorate e di armi auree e preziose.

Anche presso gli Ebrei, l’oro era simbolo di sacralità, basti pensare alla descrizione dell’Arca dell’Alleanza nella Bibbia.

“Faranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì. Nell’arca collocherai la Testimonianza che io ti darò.”

Esodo XXV, 10-16

L’oro nella lunga stagione bizantina

Il simbolismo dell’oro come luce ultraterrena e spiritualità divina viene completamente assorbito dall’arte cristiana matura che definiamo bizantina. Difficile pensare alle icone senza l’oro rilucente dei loro sfondi. Infatti è la materia dorata, sotto forma di foglie d’oro legate allo sfondo trattato delle tavole o a tessere di mosaico trasparenti che includono sottilissimi fogli d’oro sul fondo, a rendere i soggetti dipinti intangibili, privi di materia e appartenenti ad una dimensione ultraterrena, priva di tempo. Nella pratica la realizzazione delle icone trova il suo riferimento filosofico nelle teorie di Plotino, il maestro dell’estetica della luce. L’arte può permettere la comprensione della verità se non si limita a imitare il reale ma supera il sensibile e diventa collegamento con il mondo superiore e divino. Ad esprimere la luce divina nulla di meglio che l’oro delle icone in cui è protagonista insieme ai grandi occhi dei volti. La doratura dello sfondo è la rappresentazione di questa luce ultramondana e sacra rintracciabile nei dipinti delle più antiche età bizantine fino alle icone russe contemporanee che ricalcano antiche tradizioni locali. E nell’icona, come dice Dionigi l’Areopagita, troviamo “la raffigurazione visibile di uno spettacolo, misterioso e soprannaturale”.

Mosaico della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli: Cristo Pantocratore con l’imperatore Costantino IX e sua moglie Zoe.

Anche i grandi artisti del Duecento e del Trecento, codificatori del linguaggio artistico italiano, scelsero di volta in volta di impiegare il fondo oro nelle loro composizioni o di farne a meno.

Simone Martini, Annunciazione tra i Santi Ansano e Margherita, Galleria degli Uffizi, 1333

L’oro nell’Arte contemporanea

Lo sfondo dorato abbandona la grande Arte occidentale al termine della prima stagione rinascimentale e resta relegato nella tradizione della pittura sacra dell’Europa Orientale. Lo sperimentalismo e direi l’umiltà dell’Arte nel XIX secolo indussero molti artisti a ritrovare tecniche e modalità del passato con esiti e applicazioni del tutto nuove. É il caso dell’Art Nouveau e di uno dei suoi più alti esponenti: Gustav Klimt. Sicuramente influenzato dal lavoro paterno di orefice ma anche dai magnifici mosaici ravennati ammirati attentamente insieme alle opere del gotico Gentile da Fabriano, l’artista viennese fece in modo di rendere l’oro protagonista non come semplice sfondo ma come materia capace di trasfigurare e rendere eterno il reale.

Gustav Klimt, Il bacio, 1907-1908. Olio su tela, cm.180×180. Vienna, Osterreichische Galerie.

La tecnica dell’applicazione della foglia d’oro

Tecnica assai complessa quella dell’applicazione della foglia d’oro, richiede la preparazione attenta di una base di argilla liquida rossastra chiamata bolo. Inoltre prima di far aderire con grande delicatezza le leggerissime ma preziose fogli d’oro occorre applicare una miscela di albume e acqua per mantenere umida e adesiva la superficie.

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