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UN QUADRO IN CERCA D’AUTORE…nella Sagrestia della Chiesa Madre di San Giovanni Battista di Leonforte (EN)

UN QUADRO IN CERCA D’AUTORE… nella Sagrestia della Chiesa Madre di San Giovanni Battista di Leonforte (EN). E un felice, quanto inatteso, incontro culturale.

di Filippo Musumeci e Claudio Benintende

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Il filosofo cinese Confucio riportava nei suoi “Dialoghi” (fine V sec. a.C.) che:
“Se incontri un uomo di valore, cerca di rassomigliargli. Se incontri un uomo mediocre, cerca i suoi difetti in te stesso”.
Sovente gli incontri più interessanti, quelli di un certo spessore, avvengono con modalità impreviste e imprevedibili. E sovente da tali incontri nascono e si svilupperanno sintonie e visioni comuni su quei punti fermi che costellano la nostra ordinaria linea di pensiero.
Ed è ciò accadutomi pochi giorni or sono in quel di Leonforte, in provincia di Enna, ove, approfittando di un altro soggiorno insulare a cui sferrare sentitamente un colpo basso a quel velo di monotonia natalizia che sistematico assale, mi decisi a marciare per 80 km l’autostrada Catania – Palermo per il fine ultimo di ammirare (e finalmente) dal vivo l’ “Elezione di San Mattia all’apostolato”, ovvero quel capolavoro di Pietro Novelli, il Monrealese, realizzato nel 1640-42 per la Chiesa dei PP. Cappuccini su commissione di Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia e principe delle terre di Leonforte, già indagato nel maggio 2016 in un nostro articolo. Ricordate? No?? Siete ancora in tempo!
Non è mai abbastanza ringraziare l’amica e collega Prof. Sara Savarino e il dott. Paolo Favazza per essersi attivati tempestivamente e disinteressatamente al fine di soddisfare la decantata richiesta da me avanzata. Senza la loro preziosa e indispensabile intercessione (è giusto sottolinearlo) il mio viaggio non avrebbe avuto luogo e sarei stato privato ancora una volta della “celeste” (mi si consenta la retorica) visione novelliana.
Fu qui, presso il prospetto della Chiesa dei PP. Cappuccini di Leonforte, che ebbi occasione di fare la conoscenza del Prof. Claudio Benintende, studioso dell’arte leonfortese (e autore anch’egli  di un studio sull’opera del Monrealese), nonché docente di Storia dell’Arte in provincia di Milano, il quale, oggi, mi onora generosamente della sua amicizia e stima, sinceramente ricambiate!
Posso affermare con un pizzico di sana leggerezza (che non guasta mai) che fu all’ombra del Novelli e dirimpetto al suo genio che questo felice e inatteso incontro culturale si compì. Quando si dice “la magia dell’Arte!”. Una verità sacrosanta, cari amici!!
Disquisire all’unisono al cospetto di un dipinto amato, studiato e caparbiamente presentato ai lettori per una sua legittima riabilitazione; condividerne le novità stilistiche e, allo stesso tempo , il loro retaggio storico-artistico di matrice caravaggesca e vandychiana,  assume un valore etico profondo alla base di quello scambio cordiale e civile di vedute, il quale nella sua definizione più compiuta si traduce in un “dare e ricevere” senza reticenza alcuna.
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Ed è lo stesso amico Claudio Benintende che a poca distanza dal nostro incontro ha voluto onorarmi di una sua breve riflessione su una tela a olio, al momento di autore non identificato (nonostante la firma), custodito nella Sagrestia della Chiesa Madre di San Giovanni Battista a Leonforte. Abbiamo avuto modo di visionare le immagini, gentilmente realizzate e concesse dal fotografo Giuseppe Guagliardo, ed entrambi siamo giunti alla cauta conclusione, in attesa di dovute ed esaustive ricerche, possa trattarsi di un’opera di autore meridionale degli inizi del Seicento, vicino alla maniera del pittore siracusano Mario Minniti, passato alle cronache per la sua amicizia con Michelangelo Merisi da Caravaggio, ma particolarmente attivo nella Sicilia orientale agli inizi del XVII sec., a seguito del soggiorno romano, negli anni Novanta del Cinquecento e inizi del Seicento, che lo vide accanto al Maestro Merisi in qualità di amico e modello, oltre che di seguace.

Ho deciso di riportare qui per intero la riflessione di Claudio Benintende, rinnovando alla sua persona la mia sincera gratitudine per la sensibilità umana e artistica donata al dibattito sul “Bello”.

Filippo Musumeci

Testo di Claudio Benintende

Il quadro raffigurato nell’immagine è stato fotografato grazie all’autorizzazione data dal Parroco Don Carmelo Giunta. Tale quadro risulta citato in pochissime fonti, tra le quali, più in dettaglio, bisogna ricordare il testo di Giovanni Mazzola, che così riporta:

“Nella sagrestia di detta Chiesa Madre. Il grandioso quadro rappresentante Gesù che caccia i mercanti dal tempio. In un piede di una panca capovolta, dipinta nello stesso quadro leggasi: MARCO ANTONIO P. Ma cosa significa? Forse l’autore che dipinse il quadro?” (Giovanni Mazzola, Notizie storiche sulla vetusta Tavaca e sulla moderna Leonforte– Nicosia-Tipografia Editrice  del Lavoro-­ 1924)

In un’altra guida si legge: “Pregevole grande tela ad olio raffigurante  La cacciata dal tempio  di Giulio Romano (Sagrestia)”

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Dalle fonti consultate, non risulta la presenza di un “Marcantonio” pittore nella Sicilia dei primi del 1600. Potrebbe trattarsi di un allievo della bottega di Giulio Romano, un certo Marcantonio Raimondi (1480-1534) ma questa ipotesi è poco sostenibile perché tale  “Marcantonio” era solo un bravo incisore del 1500 e quindi assai lontano dai modi e dallo stile della pittura caravaggesca del nostro quadro.

Siamo quindi, ancora oggi, in cerca di un autore per il quadro e di una possibile soluzione alla scritta che si intravede capovolta nello sgabello, e che voleva forse riferirsi all’autore del quadro o configurare altri significati nascosti.

Il soggetto tratta la rappresentazione visiva del Vangelo secondo Giovanni (Cap. 2, 13-17):

13 Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14 Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. 15 Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, 16 e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. 17 I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora.

In questa ricerca mi è stato d’aiuto il Prof. Filippo Musumeci, che, servendosi di foto realizzata e gentilmente concessa dal fotografo  Giuseppe Guagliardo, ha provato a elaborare  l’immagine agli infrarossi, traducendo l’autografo come: MARCOANTONIO R. [oppure “P.” (?)]. Musumeci, però, sottolinea come l’ultima lettera risulti poco leggibile e l’immagine a disposizione non ha permesso, al momento, di identificare con assoluta certezza la consonante esatta. Apparentemente essa è identificabile con una “R”, come, del resto, riportato nel testo di Giovanni Mazzola. Ma agli infrarossi tale tesi presenta  dubbi, i quali necessitano di analisi più accurate e, soprattutto, compiute dal vivo.

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Secondo il suo parere iniziale (e, soprattutto, in assenza di una ricerca bibliografica più approfondita), il dipinto intitolato “La cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme” presenta un impianto di matrice caravaggesca e ciò si evince più semplicemente nelle figure dei mercanti a sinistra e degli astanti a destra. La figura di Cristo, pur traendo spunto da modelli seicenteschi romani e lombardi, risente del Classicismo idealizzante dei Carracci.

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A me piace pensare invece che sia un’opera di Mario Minniti, pittore di Siracusa attivo in Sicilia dal 1606 sino al 1640, amico e modello di Caravaggio, o della sua bottega.

Nella biografia di Mario Minniti sulla Treccani per il quadro intitolato “Il miracolo della vedova di Nim” raffigurato nell’immagine qui sotto (e da me riportato a fianco del quadro di Leonforte  per un confronto stilistico) si legge quanto segue:

Una genuina matrice caravaggesca, più vicina al Caravaggio romano che a quello meridionale, è stata invece riconosciuta nella concitazione del gruppo degli astanti nella parte sinistra del dipinto e nell’impostazione chiaroscurale di molti brani”.

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la cura nella resa dei costumi, dalle tipiche sciarpe con le frange, ha richiamato la eleganza dei personaggi creati da Orazio Gentileschi…”…una medesima impostazione luministica e dei particolari stilistici sovrapponibili: molti sono direttamente ispirati da opere o personaggi di Caravaggio, ma sono caratterizzati anche da ambientazioni e da una temperatura emotiva vicino al tardo manierismo toscano ( riformato), ossia corretto alla luce delle nuove istanze naturalistiche e dei dettami della riforma tridentina delle immagini.” (D.Spagnolo – Treccani- Minniti Mario)

Dal confronto dei due quadri e dei particolari a me sembra di intravedere l’utilizzo della stessa tavolozza cromatica, la cura e l’attenzione nella raffigurazione del panneggio di alcuni personaggi e la somiglianza formale della rappresentazione di alcuni visi, che farebbero pensare alla mano dello stesso pittore.

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Sarebbe interessante poter raccogliere ulteriori considerazioni o pareri da parte di esperti di semplici curiosi dell’arte sull’attribuzione del quadro e sull’interpretazione della scritta sullo sgabello.

Claudio Benintende

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IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. SICILIA: UN PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITA’ A RISCHIO

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. SICILIA:

UN PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITA’ A RISCHIO

di Filippo Musumeci

UNESCO

Conoscete la barzelletta sui siciliani che vede come protagonisti Gesù e San Pietro?? Nooo??? Allora la racconto velocemente!!!
– Gesù: Pietro, recati sulla terra e cercami il nuovo Eden.
– Pietro: obbedisco, o mio Signore.
Pietro va e trova il nuovo Eden nella Sicilia. La più grande isola del Mediterraneo bagnata da tre mari e baciata dal sole; scrigno di tesori artistici di inestimabile bellezza, di folkore, fede popolare e meraviglie culinarie.
– Pietro: Mio Dio, non esiste al mondo un paradiso terrestre simile a questo. Devo subito comunicarlo al mio Signore.
Pietro torna in Paradiso e riferisce il tutto a Gesù.
– Gesù: Grazie Pietro! Hai fatto un ottimo lavoro! Puoi andare, adesso.
– Pietro: Perdonami,o mio Signore, solo una curiosità e poi ti lascerò ai tuoi gravosi impegni. Ma se informi l’umanità dell’esistenza di questo nuovo Eden, tutti cercaranno di andarvi a vivere e, ricercando l’elisir di eterna vita, nessuno più vorrà giungere a te.
– Gesù: ahhhhh,mio caro Pietro, puoi star tranquillo. Questo non accadrà! E sai perché?
– Pietro: No, Signore! Perché?
– Gesù: Bé, semplice: in Sicilia c’ho messo i siciliani!!!

Questo racconto ludico può darci l’idea dell’immagine che la mia terra offre di sé al globo intero: un triangolo geografico dall’ineguagliabile esplosione del “bello” per la varietà quantitativa e qualitativa dei suoi tesori culturali. Eppure vergognosamente “stuprata” dai suoi figli. Sì, ripeto, “stuprata”, e senza tanti giri forbiti di parole. Perché questa è la sua “vera” sorte, alla resa dei conti, fin dai tempi dell’età preunitaria.
È un cancro inespugnabile, una piaga dilatante, una peste endemica che ti logora lentamente fino a privarti di ogni flebile barlume di orgoglio, di ambizione, di speranza.
Perché questo mio attacco ferocemente indomabile non è frutto di prese di posizioni a prioristiche, bensì è covato, celato, maturato sidente negli anni fino al tragico epilogo mortificante e irreversibile.
Ma arriviamo al dunque. Il 14 novembre scorso alcuni giornali titolano (e il web non è da meno!) “Il record dei siti Unesco che la Sicilia può perdere. Il presidente del comitato per la promozione dei siti d’interesse storico – artistico annucia:«L’isola non gestisce il suo patrimonio e non investe»”. Pure questa, adesso?? Perdere i riconoscimenti Unesco faticosamente conquistati nell’ultimo ventennio??
Il presidente in questione è il maltese Raymond Bondin, presidente onorario del Comitato delle città e dei villaggi storici UNESCO, il quale ci va giù pesante (e fa pure bene, con tutta la mia sacrosanta solidarietà!).
«Non capisco in tutta sincerità come i politici siciliani non riescano a gestire il patrimonio dell’Isola in maniera corretta. Anzi, non lo gestiscono affatto. Da tempo. La Regione non riesce neanche a spendere i pochi finanziamenti che arrivano. A me sembra che la Sicilia stia facendo di tutto per perdere i riconoscimenti Unesco da noi concessi in questi anni».E non parliamo di briciole, ma di milioni di euro da investire sulla promozione del patrimonio culturale. Ma non è finita, ahimé!! Ancora Bondin dichiara: «Nel mondo intero, non esiste alcun posto con così tanti tesori come la Sicilia. Non esiste un altro luogo con una concentrazione così densa di meraviglie. Eppure, dopo tanti discorsi, continue nomine di assessori regionali, soprintendenti et similia, siamo all’anno zero. L’amara realtà è che la Sicilia non è capace di gestire l’immensa fortuna che ha».
Mi permetto di aggiungere, caro presidente Boldin, più che all’anno zero, in Sicilia si è ancora al Paleolitico Superiore, cioè all’età dei graffiti! E lo confesso con profondo sconforto da siciliano e da storico dell’arte, riconoscendo, pure, per carità, di non essere mica Brandi, Longhi, Argan o Settis per poter emettere sentenza a scapito dell’amata Trinacria.
Ma, diamine, basta davvero ben poco per prender coscienza dell’amara realtà insulare tra incuria, poca professionalità e “dolce far niente” – caratteristica, questa, insita nel DNA degli addetti ai lavori che di appassionata promozione delle bellezze nostrane ne ignorano persino l’odore.
Un esempio fra tutti? Provate a chiedere chi siamo artisti del calibro di Domenico e Antonello Gagini, Filippo Paladini, Pietro Novelli, Giovan Battista Vaccarini, Rosario Gagliardi, Giacomo Serpotta, Olivio Sozzi e Francesco Lojacono, Ernesto Basile. Questi, osannati in passato dalla critica, restano relegati e lasciati così, “come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, di memoria ungarettiana.
Tuttavia, codesta scellerata negligenza non è una vostra colpa. Assolutamente no! Questa sarebbe da additare, piuttosto, a coloro, benpensanti e perbenisti, che occupano con boriosa vanagloria e tutto il peso della propria perversa incoscienza i seggi vellutati color porpora dei palazzi blasonati del potere, tra le altre cose, ereditati gratuitamente dagli antichi avi, senza dubbio più saggi e onorevoli dei loro beneamati figli.
Quella che fu capitale del Regno arabo – normanno, paga il prezzo più alto sul territorio nazionale per i conti sempre in rosso del governo siciliano (chissà, poi, perché!) a causa dei quali si deve l’effetto del devastante e incolmabile tasso di disoccupazione, mai assopito, e il conseguente esodo, come in passato (repetita iuvant) , di coloro che dicono <<basta>> e ci danno un taglio…in ogni senso con la litania dell’amor di patria. Perché, se è vero che non di solo pane vivrà l’uomo, è altrettanto vero che di pane è costretto a vivere l’uomo!
Eppure, i parlamentari dell’ARS sono i più pagati d’Europa e se la spassano sul serio, caspita!! Ma non è minimamente una mera questione di colore politico, poiché l’ultima campagna elettorale promise il decantato cambio di rotta, l’agognato giro di boa, l’avvento di un nuovo glorioso capitolo. Ma a chi volevate darla a bere!!!

Sono le solite demagogiche da palazzo! Illusioni e utopiche oasi nel deserto, nonostante la Sicilia non sia affatto un’arida e avvelenata distesa di campi sterili ma un paradisiaco Eden in mano a gattopardiani sciacalli. L’altro giorno un gentile lettore mi scrisse proponendo di affidare la Sicilia ai Romagnoli per cambiare finalmente le cose.
Caro lettore, quanta amara verità nelle tue parole!! <<Errare humanum est, perseverare autem diabolicum>> (“Commettere errori è umano, ma perseverare è diabolico”). E dato che non sappiamo gestire la nostra inestimabile eredità non giova a nulla perseverare.
Sì, perché in tal caso – salvo i casi di coloro che, amando le arti visive hanno provveduto da sé ad una decorosa e qualificata formazione – un adiposo interrogativo occuperebbe le parete del vostri emisfero in modo imperituro. E non pensiate che Antonello da Messina, Pirandello, Verga, Capuana, De Roberto e Guttuso se la passino  tanto meglio. Tutt’altro!! Certo, godono di una fama stellare che vive, ormai, di luce propria, ma poca roba rispetto agli onori meritatissimi che la patria dovrebbe riservar loro.
L’unico esente da tale oblio pare essere, al momento, Vincenzo Bellini, quello della “Norma” e della “Sonnambula” (e molte altre) al quale il comune di Catania, città natale del celebre musicista, ha persino intitolato lo scalo aeroportuale etneo. Come se mancassero altri nomi illustri da proporre, magari più congeniali alle funzioni della struttura commerciale! A proposito, sfatiamo un mito! Il cockail “Bellini”, inventato nel 1948 da Giuseppe Cipriani, deve il nome, sì, a un Bellini, ma non certo a Vincenzo, bensì a Giovanni, detto il Giambellino: padre del tonalismo veneto tardo-quattrocentesco, celebre “anche” per il rosso vibrante impiegato nei suoi dipinti.
Tutt’altra fama godono, invece, i gadget di cui andare meno fieri e che dilagano dappertutto (aeroporto incluso), come il “Padrino” con tanto di smorfia facciale alla Marlon Brando, oppure “u’ mafiusu” con coppola e lupara a seguito (tanto per non farci mancare niente!). E se indispettito provi a chiedere ragione di simili offensivi obbrobri ti senti rispondere dal negoziante di turno: «Cosa vuole? È business! Se i turisti li richiedono vuol dire che piacciono e io devo pur campare».
Ritorno annualmente al borgo natio, promettendomi sistematicamente di non “oziare” e, armato di enfatica brama , di riammirare splendori unici dinanzi ai quali in passato restavo in estasi per ore. Ma ogni volta dimentico di dovermi scornare con l’arcigna realtà per la quale mi logoravo da residente negli anni della giovenizza e degli studi. Inutile pianificare una tabella di marcia, poiché irrompe repentino lo stornello lento e nostalgico del disincanto: quello tanto odioso e che credi, ormai, trapassato remoto, anziché, com’è, vivo e vegeto, quando non sinistro…com’è in cuor suo… “li mortacci sua!!”. Ora parlo pure romanesco!!
Visitare i “pochi” musei teoricamente (almeno sulla carta) aperti?? <<Ma vogliamo “babbiare”?>> (ricorda Montalbano). Non ci sono fondi e manca il personale “qualificato”. Quindi “l’apertura dei musei è posticipata a data da destinarsi”, recitano sovente gli avvisi affissi alle porte d’ingresso “serrate”.
Ma scusate, qual è la novità? Questa è la “norma” in Sicilia. E di “norme” i siciliani ne conoscono tante, mica solo quella del povero Bellini. Ciononostante, esiste sempre da queste parti un piano alternativo, altrettanto valido e dal valore saziante: quello culinario… che di questi tempi è diventata la chiave di volta per qualsiasi problema.
“Cari turisti, pappetevi un buon piatto di pasta alla “norma” (con tanto di ricotta salata spolverata sopra) e non pensateci più, insomma! Perché in fin dei conti, la Sicilia è bella “anche” per questo, non soltanto per l’Arte!… L’Arte, poi!!!”.
Ma mi facciate il piacere di tacere con tanto di buon senso (qualora ce ne sia ancora un residuo sparso chissà dove) per lo meno!
Tanto parliamo di aria fritta! E Tomasi di Lampedusa insegna che: <<se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi!>>. Infatti la Sicilia cambia di volta in volta allo stesso modo, rimanendo sempre la stessa. Straordinario fenomeno!!
Ho imparato ad amare questo spicchio di crosta insulare grazie a quel senso di appartenenza che ogni siciliano si porta dietro, specie quando con ricordo verghiano lo sguardo è “da lontano”. Ma anche grazie a coloro che, pur non essendo siciliani d’origine lo furono, comunque, di adozione, insegnando a tutti noi a guardare quest’Eden con occhi inediti. Penso a Goethe e al suo “Viaggio in Italia” del 1817, nel quale scrisse: «L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra…chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita».
E ancora Cesare Brandi, che nel suo saggio “Sicilia mia”, pubblicato nel 1989, sostiene che «non c’è bisogno di ricorrere a miti, a memorie storiche, a raptus religiosi: la realtà è così complessa e diretta che comprende tutto come un composto di cui si ignorino gli ingredienti, ma se ne subisce l’effetto. E l’effetto è uno solo; in segreto ti dici, ma può esserci al mondo un paese più bello della Sicilia?».

Ma l’ultimo affronto all’inestimabile patrimonio artistico dell’isola proviene direttamente dagli scranni di Palazzo dei Normanni e risale all’aprile scorso. Con una deroga speciale, il governo Crocetta di centro-sinistra ha autorizzato per i prossimi mesi l’inopportuno tour  peninsulare dell’Annunciata di Antonello da Messina (1476-77) per le città di Torino, Roma e Milano nell’ambito della mostra “Mater”. E tutto ciò per far cassa, come sempre! Ma qui parliamo di una manciata di migliaia di euro (circa 10.000), dimenticando (?), evidentemente, la fragilità del celebre olio su tavola, inserito nel giugno 2003, non a caso, in un elenco di 23 opere inamovibili dal territorio insulare al fine di tutelarne lo stato conservativo, comprendente anche il Satiro danzante di Mazara del Vallo (Trapani) e la Venere di Morgantina” di Aidone (Enna). Dunque, non uno scambio culturale tra istituzioni museali consistente in un prestito reciproco di opere: “Io do a te e tu dai a me!”. Ma solo business, ovvero “mercificazione dell’arte”. Ma in fondo, a chi potrà mai importare questa mia impotente nenia?

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Le critiche per l’insana decisione sono state avanzate tempestivamente dall’opposizione nella persona del deputato regionale Nello Musumeci (NON è mio parente! Quindi non sussiste conflitto d’interesse!), ex presidente della provincia etnea:

<<Anziché avviare il sistema dei parchi archeologici, previsto dalla legge Granata e sperimentato con successo ad Agrigento, e dei musei dotati di autonomia gestionale e finanziaria, il governo regionale ‘apre’ nuovamente e incredibilmente ai prestiti delle nostre principali opere d’arte e dei nostri più importanti reperti. È una scelta che giudichiamo priva di senso e rischiosissima per il nostro patrimonio artistico. Il turismo culturale e la nostra immagine – conclude – non si valorizzano facendo viaggiare quadri e reperti, sottoponendoli peraltro a rischi enormi per cifre irrisorie. Il turismo nell’Isola si stimola garantendo l’apertura regolare e prolungata di tutti i musei e i parchi e la valorizzazione con eventi e mostre da organizzare in Sicilia>>.

La risposta potrebbe essere: <<No, non esiste un luogo più bello della Sicilia!>>.

Ma i suoi figli, stanchi e disincantati, fanno la valigia (come il sottoscritto) e tentano altrove altre strada, con quello “sguardo da lontano” di sapore melanconicamente verghiano.

– E quelli che restano?

– Beh, quelli che restano o sono disincantati al pari di quelli già emigrati!

– E chi ne deturpa allora l’immagine di quest’isola baciata dal sole e cullata dal mare?

– Viene deturpata da chi si crede figlio legittimo dell’isola, senza sapere, ahimé, di esserne sono una cancrena…Sì, una cancrena! Di quelle che, Pirandello insegna, sono dure da estirpare e che: <<Non si leva cchiù, manco cu ‘u cuteddu>> (“Non va via neppure con il coltello”).

– E l’effetto, dunque, quale sarà?

– L’effetto sarà inevitabilmente il rovescio della medaglia! E per cui si dirà:

Fortunato al chè siculo generato, 

seppur amaro in oculo il contrito abbaglio.

In abisso il bello amato in denso pantano,

di cotanto ozio imputato son fiacco e indignato.

(Filippo Musumeci)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

UN CAPOLAVORO DA RISCOPRIRE: “ELEZIONE DI SAN MATTIA ALL’APOSTOLATO” DI PIETRO NOVELLI, IL MONREALESE.

UN CAPOLAVORO DA RISCOPRIRE:

“ELEZIONE DI SAN MATTIA ALL’APOSTOLATO”

DI PIETRO NOVELLI, IL MONREALESE

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 di Filippo Musumeci

– Autore: Giovan Pietro Novelli, il Monrealese

(Monreale, Palermo, 2 marzo 1603 – Palermo, 27 agosto 1647)

– Opera: “Elezione di San Mattia all’apostolato”

– Anno:1640-42 ca.

– Tecnica: olio su tela, 390 x 288 cm.

– Committente: Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia e principe delle terre di Leonforte (Enna).

– Ubicazione originaria e attuale: Leonforte (Enna), Chiesa dei PP. Cappuccini, altare maggiore.

Perché un altro articolo (il quinto) sul Monrealese? A che pro?

Quale la necessità di investigarne ancora la figura? Ma soprattutto, perché continuare a “scornarsi”, insistendo sulle gesta di un uomo – caposcuola della pittura barocca siciliana nonché massimo artista dell’isola dopo l’eternamente attuale Antonello da Messina – le cui opere (custodite nei maggiori poli museali americani ed europei) furono celebrare per estro e qualità dai mecenati a lui contemporanei e dalla critica ottocentesca -novecentesca, ma il cui contributo offerto all’arte risulta oggi (con buona pace dei sensi) palesemente obliato dalla storiografia postmoderna? Insomma, amico mio, perché perseverare in questo gioco diabolicamente perverso, farsi del male e apparire banalmente ridicolo agli occhi dei lettori? Tentare l’impresa titanica della riesumazione forzata di un artista ignoto ai più credi possa giovare alla nobile (questa sì!) causa sposata?

Ma il perché è davvero a portata di mano, credimi! Non vedi? Il fine non risiede qui giammai in un atto di persuasione su di un artista piuttosto che su di un altro, né tantomeno elargire proclami ideologici votati a un discutibile e sterile residuo campanilistico, il cui vincolo, tra l’altro, avrebbe il sapore amaro di un imperdonabilmente limite tematico. Bensì si è mossi, in tutta sincerità, per l’esclusivo e disinteressato piacere di presentare, a coloro che ne sentiranno curiosità, l’opera di un artista “puro”, per destino nefasto, omesso dai manuali di Storia dell’Arte come dalla saggistica.

Bontà sua, il pittore siciliano godette in passato di particolari attenzioni da parte di chi acume possedette così abilmente, scorgendo nei volumi e nei timbri cromatici di questo maestro del Seicento il linguaggio di una sintesi perfetta tra classicismo idealizzante carraccesco di tradizione plastica e realismo caravaggesco, riberesco e vandyckiano di innovazione luministica: Gioacchino Di Marzo, Roberto Longhi, Guido Di Stefano, Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Claudio Strinati, Rossella Vodret, Vincenzo Scuderi, Vincenzo Abbate, Angela Mazzè, Giulia Davì, Maria Pia Demma, Dante Bernini e Maria Grazia Paolini (questi ultimi due vale la pena ricordare anche per aver curato nel 1967, con la preziosa collaborazione di Cesare Brandi, l’unica antologica su Filippo Paladini a Palazzo dei Normanni di Palermo) sono appena i più noti fra gli storici dell’arte impegnati nell’indagine scientifica delle componenti formali e stilistiche del Monrealese, chiarendo, come afferma Calvesi che: «Se dal Rubens stesso e da Annibale Carracci egli accoglie talvolta il suggerimento di una larga plasticità nello squadro dei corpi e di una robusta articolazione compositiva, e se dal Caravaggio e dal Ribera è indotto a un pronunciato realismo, il modello più congeniale alle sue educate e composte cadenze resta Van Dyck, particolarmente la pala palermitana dell’Oratorio del Rosario di San Domenico. Di lì sembra provenire il suo ideale di “maestria”, di sapienza come misura, nell’accorto dosaggio dei movimenti, che debbono animare la scena senza però turbare l’equilibrio, nella miscela delicata delle luci e delle ombre che non debbono creare forti contrasti, ma avvolgere atmosfericamente lo spazio e suggerire il devoto concerto dei sentimenti».

Nel quarto volume del “Dizionario della pittura e dei pittori” edito nel 1994 da Einaudi, a cura di Enrico Castelnuovo, Michel Laclotte, Jean Pierre Cuzin e Bruno Toscano, alla voce Pietro Novelli si legge: «Il suo linguaggio – una delle più alte espressioni di tutto il Seicento meridionale – può dirsi maturo quando Novelli giunge a Napoli, probabilmente tra il 1631 e il 1632 (periodo nel quale risulta assente da Palermo). Qui egli incise profondamente nella pittura locale e influì sullo stesso Ribera, cui pure si accostò in alcune opere di quel periodo».

E proseguendo nella lettura del testo si giunge quasi casualmente a quel passo illuminante, quasi l’incipit per il “capolavoro da riscoprire” che ci si è proposti di porre alla gentile attenzione del lettore: «le numerose tele per le chiese degli ordini religiosi, tra le quali la stupenda “Elezione di San Mattia ad Apostolo” (Leonforte, Cappuccini), sono abilissime esemplificazioni di questa sua non comune capacità di fondere le molteplici suggestioni – da Artemisia Gentileschi a Stanzione, da Vaccaro a Ribera, dai francesi ai fiamminghi – in una forte ed originale espressione pittorica ,il cui più evidente connotato può individuarsi in quell’intonazione nobile ed aulica che fa del Novelli in qualche modo l’equivalente meridionale del Gentileschi».

Esplicitati, dunque, i termini della cifra stilistica del pittore siciliano risulteranno, forse, più chiare le motivazioni alla base di questo scritto: assolvere il Monrealese, e una buona volta per tutte, dall’astorica (dunque infondata) accusa di “provincialismo” attraverso la lettura di un’opera poco noto per via della sua ubicazione geografica alquanto periferica rispetto al centro pulsante della cultura insulare del XVII secolo, Palermo, ma ciononostante pur sempre degna di  attenzioni per essere, qual è, fra le creazioni più alte e mature del pittore siciliano.

Fu lo storico Gioacchino Di Marzo a restituire nel 1856 la paternità del dipinto al Novelli, segnalando come presso il «convento dei PP. Minori Cappuccini […] nell’altare maggiore» fosse ospitato «il magnifico quadro rappresentante l’elezione di San Mattia all’apostolato, opera stupenda del Monrealese».

La grande tela fu commissionata tra il 1640-42 dal principe Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia, per l’altare maggiore della Chiesa dei PP. Cappuccini di Leonforte, nell’ennese, edificata per volere dello stesso principe come mausoleo di famiglia.

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Il soggetto religioso richiesto dal committente è la sacra rappresentazione evangelica contenuta nel cap. 1 degli Atti degli apostoli attribuiti a San Luca (autore anche di uno dei quattro Vangeli), relativa all’elezione di San Mattia come “nuovo dodicesimo” apostolo a seguito del suicidio di Giuda Iscariota nel Campo “Akeldamà” (in ebraico), tradotto come “Campo del sangue”:

<<In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato “Akeldamà”, cioè “Campo del sangue”. Sta scritto infatti nel libro dei Salmi:

“La sua dimora diventi deserta

e nessuno vi abiti,

e il suo incarico lo prenda un altro”.

Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione». Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato “Giusto”, e Mattia. Poi pregarono dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava».  Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli>>. (Atti degli Apostoli, 1, 15 – 26)

 Bisogna premettere, a titolo di cronaca, che il campo chiamato in ebraico “Akeldamà”, ovvero il “Campo del sangue”, sarebbe il medesimo citato da San Matteo nel cap. 1 del suo Vangelo e meglio noto come il “Campo del vasaio”:

<<Allora Giuda – colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il “Campo del vasaio” per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: «E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore»>>. (Vangelo secondo Matteo, 1, 3 – 10)

 Per quanto concerne, piuttosto, il significato profondo rivestito dall’episodio neotestamentario riportato negli Atti degli apostoli, l’elezione di San Mattia, quale nuovo apostolo eletto, dev’essere interpretata come la “chiamata” cristiana del credente a testimone del Magistero salvifico del Cristo Salvatore, dunque, simbolo di vita eterna e Redenzione. La stessa origine etimologica del nome “Mattia” esemplifica il concetto stesso di “elezione”, cioè di “scelta”, poiché esso non è altro che l’abbreviazione dell’ebraico Mattithiah”, tradotto come “dono di Jahvè”, vale a dire “dono di Dio”, inteso, più specificatamente, come “dono dell’Uomo-Dio”, o meglio “scelto dal Dio cristiano Uno e Trino” come “martire” (dal latino “martyry̆ris”, “testimone”), la cui festività ricorre secondo il calendario romano il 14 maggio, giorno votivo che ne ricorda il martirio subito. La tradizione vuole che fu condannato dai giudei per la sua fede alla pena della lapidazione prima di essere decapitato per mezzo dell’alabarda, poi divenutone il suo attributo iconografico. Oggi le spoglie mortali del santo sono venerate a Padova e custodite all’interno di un’ara marmorea posta nel braccio destro del transetto della Basilica di Santa Giustina, dirimpetto all’altra ara marmorea contenente quelle dell’evangelista San Luca.

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L’impianto scenografico dell’opera è strutturato su due registri ideali occupati dai volumi fortemente rilevati delle figure: quello superiore ospita la SS. Trinità trionfante, manifestatasi in Dio Padre, Gesù Cristo e Spirito Santo (quest’ultimo materializzatosi nella colomba bianca con ali spiegate); quello inferiore, invece, gli apostoli, la Vergine, due delle tre pie donne (Maria di Magdala, detta Maddalena e Maria di Cleofa, oppure di Salomè) e lo stesso Monrealese (l’unico dei non direttamente partecipe all’azione), autoritrattosi, come in altre occasioni, come testimone oculare della volontà trinitaria. Non insolita nell’opera del pittore, invece, la figura orante di anziano all’estrema destra, il cui modello si presenta come l’alter ego dell’altra figura senile, posta anch’essa all’estrema destra, nel “San Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi” (1634-35), di cui si è discusso QUI. In entrambi i casi è facile identificare i tratti somatici del padre del Monrealese, il pittore manierista Antonio Pietro Novelli.

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Più dettagliatamente, sul registro superiore il Padre e il Figlio “globocratori” (“creatori del mondo”) con la colomba bianca dello Spirito Santo appaiono alla comunità apostolica di Gerusalemme siedono sospesi sulle nubi dell’Empireo tra le schiere di cherubini (esseri angelici a due ali mostranti solo il volto) e putti alati di memoria classica. Dio Padre poggia la mano destra sul globo, mentre con la sinistra manifesta la sua volontà sull’ispirazione divina del Figlio, il quale infonde lo Spirito Santo, sotto forma di colomba bianca con ali spiegate, sull’apostolo Mattia, a sua volta, perfettamente in asse con il braccio e il “gesto parlante” della mano destra di Cristo.

Ma non è tutto! Il Monrealese dimostra proprio nella gestualità armoniosa del gruppo trinitario di possedere un’erudita educazione sull’esegèsi cristologica. Infatti, i gesti calibrati e accordati dell’Eterno e di Cristo sono portatori di un messaggio dogmatico efficacemente più profondo e in linea con la tradizione escatologica della Chiesa paleocristiana. Essi rappresentano lo Spirito Santo che procede dalla volontà del Padre a quella del Figlio e da questi è donato a San Mattia come testimone della nuova fede. Si tratta, in definitiva, di una trasposizione figurativa del passo del «Credo Apostolico» di rito latino-romano: “Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti”.

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Sul registro inferiore, invece, il gruppo di astanti – la comunità apostolica radunata a Gerusalemme per eleggere il nuovo apostolo è presieduta da San Pietro, vicario di Cristo (l’uomo calvo e scalzo posto di spalle e genuflesso all’estrema sinistra) – occupa uno spazio architettonicamente concreto, immaginato come un’area presbiteriale di cui si distinguono le strutture marmoree, come le gradinate su cui siedono sopra uno scanno Mattia (a sinistra) e  Barsabba, “il Giusto” (a destra), la parete sinistra di ordine corinzio munito di plinto e la balaustra sul fronte del cui pilastrino è il rilievo scultoreo monocromo con lo stemma araldico del principe Branciforte e Lanza, committente del dipinto. Vincenzo Scuderi ha avanzato, seppur con qualche reticenza, un’interpretazione alternativa alla struttura architettonica del fondale, vedendo in essa gli esterni del castello della famiglia (ipotesi debole, a nostro modesto dire) sito un tempo nel feudo di Leonforte.

L’abilità compositiva del Novelli è qui evidenziata nell’aver saputo dosare magistralmente la distruzione delle figure nello spazio scenico, conciliando realtà sacra e profana, ossia un episodio neotestamentario apostolico paleocristiano – la sostituzione dell’Iscariota con il nuovo apostolo Mattia – dal tono popolare con uno socio-apologetico seicentesco di carattere gerarchico e aristocratico. Quest’ultimo, in particolar modo, si presenta come esaltazione celebrativa della numerosa famiglia Branciforte, la quale, composta da 4 figli e 5 figlie (di cui 3 suore), fu chiamata a posare dal Novelli per le figure sacre del registro inferiore, dando vita, in tal modo, a una superba galleria di ritratti nella quale il pittore eccelse con risultati verosimilmente di assoluta fedeltà.

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Apparentemente caotica nel suo groviglio di sentimenti variegati, a guardar bene la scena è organizzata per mezzo di un rigidissimo schema compositivo geometrico costituito da linee-forza, magistralmente enfatizzate dal commovente moto fisico dei personaggi, i cui sguardi (fatta eccezione per il pittore) sono catalizzati verso il vertice del triangolo interno, fissato nell’indice della mano sinistra di Cristo, Salvator mundi.

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Secondo gli studi condotti nel 1989 e 1990, è presumibile che la scelta tematica dell’«elezione-successione» nella comunità apostolica di Gerusalemme, secondo quanto riportato dagli Atti degli apostoli di San Luca, sia stata voluta dal committente come allusione all’«elezione socio-politica» della potente famiglia siciliana, significativamente impegnata sull’isola nel corso della prima metà del XVII secolo sul fronte amministrativo-giurisdizionale. Quest’allusione di stampo prettamente politico ne incorpora un’altra, ossia quella relativa alla «successione legittima per diritto ereditario», intesa come continuità perpetua dell’identità sociale della nobile famiglia nella persona di Giuseppe, primogenito del principe Nicolò Placido, a cui il padre passerà per volontà testamentaria un: «anello di zaffiro con l’arme Branciforte».

Come ricorda ancora Angela Mazzè, l’impaginazione iconografica della scena si conclude con due immagini eloquenti: «il piede nudo dell’apostolo (ulteriore evocazione caravaggesca), privilegio riservato ai santi nell’iconografia cristiana. Il libro che campeggia al centro della tessera inferiore, al centro, è aperto: il messaggio è già stato recepito dagli apostoli Cristo».

Nonostante la scarsità di fonti documentaristiche in possesso, l’opera appartiene indubbiamente al periodo post-Monreale, poiché, come suggerito da Guido Di Marzo, essa è ascrivibile alla fase produttiva del Novelli di «compiuta accademia eclettica, carraccesca e caravaggesca al tempo stesso».

Dimensione divina e umana, dunque, spirituale e corporale, eterna e mortale sono armonizzate dal Novelli in un affresco corale di suggestiva partecipazione emotiva e, come afferma Angela Mazzè, «dai moduli diversificati»: libera rielaborazione formale desunta da celebri opere studiate durante il soggiorno romano del 1631-32, come la “Trasfigurazione” di Raffaello (1518-20), l’“Assunta” di Annibale Carracci (1600-01) e la “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio (1599-1600), a cui andrebbero aggiunti, ovviamente, anche i modelli michelangioleschi della Sistina, specie del “Giudizio Universale”, e altre ammirate fra Napoli e Palermo, come la “Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina da Siena e i Santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata, Cristina e Rosalia” di Anthony Van Dyck (1628).

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A proposito della tela del Novelli, nel suo “The italian followers of Caravaggio” (“I seguaci italiani di Caravaggio”) del 1967 lo storico dell’arte statunitense Alfred Moir parlò di capolavoro «simultaneusly realistic, visionary and decorative» (“simultaneamente realistico, visionario e decorativo”), volendo indicare con ciò le qualità pittoriche dipanate dal pittore nella complessa illustrazione figurativa del soggetto.

Unanime il pensiero di Vincenzo Scuderi, il quale scrisse nel 1990: «Intensità o, almeno, volontà di fede e di verità naturali al tempo stesso – ritrattistiche, sociali, luministiche, ecc. – non meno intese si fondono, ad evidentiam, in quel capolavoro che è l’Elezione di San Mattia di Leonforte».

Più complessa la regia dell’impianto luministico sapientemente orchestrato, a cui è affidata l’articolazione plastica dei volumi nella loro traduzione anatomica di volti psicologicamente indagati e corpi ritmicamente animati da panneggi chiaroscurati; di profili architettonici illusoriamente rilevate e una spazialità razionalmente restituita al suo valore metrico. È la luce, in definitiva, nella sua matrice cromatica «bianco-oro», l’elemento unificatore tra i due registri superiore e inferiore della composizione, definita dallo Scuderi: «bipolare». E allora si comprende in modo più approfondito come quanto già affermato dal sottoscritto per l’Assunta la scorsa estate valga anche per il San Mattia: «sono questi lampi cromatici chiaroscurati a distaccare le figure dal tetro fondo nebuloso permettendo di emergere con tutta la forza della loro vigorosa massa».

Si è già fatto cenno ai rapporti esistenti tra la tela di Leonforte e la stupenda “San Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi” (1634-35) circa il modello della figura senile, i cui tratti somatici sono stati identificati con quelli del padre del Monrealese, il pittore manierista Antonio Pietro Novelli.

Ebbene, rapporti più esplicitamente diretti è possibile riconoscere tra la tela di Leonforte stessa e quell’altro capolavoro che è l’Assunta dei Cappuccini di Ragusa Ibla (di cui si è discusso la scorsa estate QUI), realizzato nel 1643, ovvero l’anno seguente del dipinto oggetto di studio di questo scritto. Le due opere sono complementari per:

1) la scelta dello schema compositivo geometrico e strutturale;

2) la disposizione spaziale dei personaggi, il ritmo della loro concitata gestualità e la coralità sacrale dell’insieme;

3) le figure speculari (San Pietro inginocchiato e l’autoritratto del pittore);

4) l’introspezione psicologica abilmente indagata;

5) l’impianto luministico affidato al sapiente contrasto chiaroscurale di scuola seicentesca, il quale definisce i profili plastici modellati dalla sorgente di luce diretta obliquamente da destra (la sinistra di chi guarda) verso sinistra (la destra di chi guarda).

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In entrambe, per concludere, è lucidamente tracciato il percorso della maturità raggiunto dal pittore siciliano e per il quale Guido Di Marzo parlò, come scritto in precedenza, di «solipsismo malinconico», il quale è frutto di quell’umanità austera e malinconica di cui è pervasa l’anima siciliana fin dalle sue remote origini. «E questa umanità si esprime in forme salde, che la fluida atmosfera umbratile vela e disvela e la sobria veste cromatica individua e ferma».

Quest’artista «Senza veri precedenti e senza veri seguaci è dunque il Novelli […].  Anni or sono cerco di carpirne l’ignoto magnetismo esercitato sulla mia persona, senza, tuttavia, risalire a un’efficace chiave risolutiva: la tendenza realistica, il cromatismo, l’eleganza compositiva? Oppure semplicemente quell’atmosfera profondamente sensibile delle sue creature o meglio, come ricorda Giulio Carlo Argan, «quel galateo appassionato e commosso»? Forse, ma è solo un pensiero labile, un inconfessato “sguardo da lontano”, quindi, malinconico?

O chissà, magari i momenti in cui sento più vicina la sua arte sono quelli di stati d’animo malinconicamente più estesi rispetto ad altri più convenzionalmente estroversi? Ma qualsiasi causa essa sia poco importa, a mio dire! Perché è il felice incontro emotivo scaturito da questa con tutto il suo retaggio di malinconica bellezza a scandire quegli spasmi di acuto piacere capaci di agitare dal profondo pulsioni inconsce.

E lui è sempre lì, in Sicilia, insiste il Di Marzo, perché: «Fedele al suo tempo e a sé stesso, Pietro Novelli può dunque trovar posto tra gli artisti migliori del secolo, anche se la sua azione, per ragioni intrinseche ed estrinseche, per la sua natura ricettiva e per la sua localizzazione geografica, fu limitata nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo che la vita di molte sue creature pittoriche supera nell’universalità ed eternità dell’arte».

Questa sua localizzazione geografica penalizzò il pittore in gran misura e spinse la critica più sprovveduta ad azzardare un facile“provinciasmo”, stroncato, “Deo gratias”, da chi sprovveduto non fu mai e parlò, al più, di isolamento insulare. Lo capì il conte Carlo Gastone Rezzonico durante un viaggio sull’isola nel 1793 quando scrisse: «il Monrealese, pittore che dallo Spagnoletto e da Wandeick [Van Dyck] trasse uno stile misto, e fatto suo proprio per modi sì egregi, che merita distintissimo luogo fra gli artefici italiani, e fuori si Sicilia non è conosciuto».

Si potrebbe disquisire sui modi ed esiti della sua formazione con un raffronto delle fonti storiografiche. E credo che questo potrebbe essere il materiale per un altro, chissà, ennesimo omaggio al pittore. Ma la speranza è che quanto lasciatoci dal pittore venga approfondito da una mente sottile di mia conoscenza,diligentemente attenta agli sviluppi dell’arte barocca nell’Italia meridionale. Al momento, però, il Monrealese attende ancora una volta di essere riassaporato con lo sguardo da “vicino”, seppur effimero, per poi, com’è giusto che sia, tornare a essere “lontano” e solo di tanto in tanto malinconico…mai troppo in fondo, ma solo quanto basta affinché sia ancora una volta “poesia”.

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Bibliografia

  • Guido Di Stefano, “Pietro Novelli, il Monrealese”, a cura di Angela Mazzè e prefazione di Giulio Carlo Argan, 1989, Palermo, Flaccovio Editore.
  • Vincenzo Scuderi, “Novelli”, in Kalòs, maestri siciliani, 1990, Palermo.
  • A.V.V., “Pietro Novelli e il suo ambiente”, catalogo della mostra con prefazione di Maurizio Calvesi (Palermo, Albergo dei poveri, 10 giugno – 30 ottobre 1990), Palermo, Flaccovio Editore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“L’ASSUNTA” NEGATA! IL TRITTICO DIMENTICATO DI PIETRO NOVELLI.

 

“L’ASSUNTA” NEGATA!

IL TRITTICO DIMENTICATO DI PIETRO NOVELLI.

di Filippo Musumeci

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E incidentemente riaccade e nocivamente attecchisce! La modalità è la stessa come tradizione vuole: “stessa spiaggia, stesso mare!!”. Meraviglie da “cartolina” che non necessitano di ritocchino fotosphop alcuno: specialità della casa, Ladies and Gentlemen, di questo triangolo insulare baciato dal sole e lambito dal mare, che senza trucco e “tanto inganno” si barcamena, arranca e stenta a spiegare le vele. Ma il vento, ch’eppur soffia da queste parti, eccome, (specie d’estate) viaggia su onde piatte con la medesima, consolidata e obsoleta frequenza.
“Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi”, per dirla alla Verga:
“Proprio l’ideale dell’ostrica! E noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano”. (Giovanni Verga, da “Fantasticheria” in “Vita dei campi”,1880).
Un certo (e compianto) Pino Daniele nel 1993 cantava:
“Un posto ci sarà
fatto di lava e sole
dove la gente sa che è ora di cambiare!
Sicily terra e nisciuno!”.
Riportiamo qui il racconto (per certi versi spassoso) della visita “a metà” vissuta recentemente da una giovane coppia amica in vacanza nel ragusano, ove tra scenografici scorci barocchi e prelibatezze gastronomiche (anch’esse barocche) bisogna scornarsi con quella matassa burocratica “antigalileiana” per cui tutto “eppur non si move”.
– Adesso, non per esser disfattista, ma la gente continua a non cambiare e la Sicilia (te pareva) resta ancora “terra di nessuno”, direbbe qualcuno!
– Ricorda che siamo in vacanza! É meglio lasciare in standby la cronaca politica e parlar d’altro, per piacere!
– E di cosa, scusa?
– Bé, di “Bellezze artistiche”, ad esempio! Siamo o no in Sicilia? “La perla del Mediterraneo”, il tempio della Magna Graecia, la patria del Tardo-barocco. Devo farti la lista, adesso?
– Ah, ho capito. Quindi parliamo di politica!
– Ma sei proprio una piattola ogni qualvolta metti piede in Trinacria. Classica posizione di chi si lagna e non batte ciglio!
– No, cara! Conosciamo benissimo entrambi la storia e le sue ferite, ancora da cicatrizzare, che, poi, sono anche le mie, le nostre e di tutti coloro che hanno a cuore tutela e valorizzazione del Patrimonio culturale nazionale e no.
– Sarà! Ma al tuo posto non la farei così tragica, su! Io riesco ancora ad assaporare gli stessi odori e sapori decantati con dovizia da poeti e viaggiatori. Apprezzo ancora bellezze, usi e costumi di questa terra ove si piange due volte: quando si approda e quando la si lascia per ripartire!
– Dici bene! Bellezze, … e usi e costumi, soprattutto!
– Che vorresti insinuare? Non essere evasivo, e se riesci, neppure “leopardiano”.
– Premesso che Leopardi era “Rock” e il problema non era certo lui, ma ciò che lo circondava. E magari, poi, mi spiegherai questo “leopardiano”, che con il contesto ci azzecca davvero poco, da quale sepolcro l’hai riesumato. Tuttavia, vorrei insinuare, se mi consenti, gli usi e i costumi, per l’appunto, da te citati: quelli di pessimo gusto e agire “culturale”.
– In che senso?
– Sbaglio o parliamo di gestione del Patrimonio storico-artistico e culturale nostrano? Intendo dire che quest’eredità “culturale”, d’inestimabile valore e unicità di genere, è gestita in modo insindacabilmente scorretto, inadeguato e, aggiungerei, orribile!
– Ascolta, poiché so già dove vuoi andare a parare. Cambiamo discorso, e una buona volta per tutte! Capito? Non sarà che caponata e insalata di polipo ti sono andati giù pesanti stavolta? Abbiamo affrontato centinaia di volte quest’argomento, tesoro, e ogni volta l’epilogo è sempre lo stesso: diventi irascibile e ci stai male! Ripeto, lascia perdere!!
– Troppo facile! Ma credo sia la soluzione più comoda al momento per non guastarci le vacanze ansiosamente attese. Eppure di un caso “eclatante” di questa “cattiva gestione” di “tesori” nostrani desidererei parlarti, seppur brevemente e limitando ai minimi termini possibili (e sacrosante) polemiche.
– Di quale caso “eclatante” vorresti parlarmi, mi auguro brevemente?
– Di un’ “Assunta”.
– Un’Assunta?
– Sì, hai capito bene, un’ “Assunta!”
– Scusa la mia ignoranza! Potresti essere più esplicito? Grazie!
– Sai benissimo di quale “Assunta” parlo: quella del Monrealese. Un capolavoro assoluto del seicento barocco isolano, la cui visibilità è, da anni or sono, negata per inagibilità del sito ecclesiastico che lo ospita dal 1643. Vale a dire la Chiesa di Sant’Agata presso l’ex Convento dei PP. Cappuccini, ubicati all’interno del giardino ibleo di Ragusa Ibla.

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– Ah, e qui si scoprono gli altarini! Sei proprio un martello pneumatico alle volte! Guarda caso, ci troviamo a Ibla per un’agognata passeggiata e tu cogli la ghiotta occasione per polemizzare su un monumento artistico coi sigilli apposti alle porte. E poi, scusa, eh, basta, dai! Sempre stò scalcagnato del Monrealese. Ma poveraccio, lascialo in pace! Le tue inossidabili frecciatine etiche sono l’ultima cosa di cui ha bisogno per essere “riscoperto” degnamente. Del resto, (e immagino la tua imminente quanto accesa reazione!) se storici e critici hanno deciso negli ultimi trent’anni, e di comune accordo, di oscurarlo un motivo di fondo ci sarà. No?
– No!
– Mi sarei stupita di sentirti profferire un sì affermativo!!
– Non è un problema editoriale ma semplicemente di disinteresse scientifico-didattico, gravemente avvallato da un deficit nel piano di riconquista e rivalorizzazione degli artisti di spessore di “scuola siciliana”, dall’indiscussa valenza storico-artistica. Come se il barocco siciliano, in definitiva, avesse una prerogativa esclusivamente architettonica. Hai notato da te, quando si ha l’opportunità di visitare una nuova meta, le strategie messe in atto in altre realtà della Penisola: artisti (sconosciuti ai più) presentati come orgoglio identitario e per i quali è stato possibile articolare un adeguato circuito “musealizzato” al fine di condurre il visitatore, occasionale e non, alla conoscenza del proprio patrimonio, ovvero, per restare in tema, le “specialità” della casa!

– Ma cos’è che ti rode di più di tutta questa storia?
– Mi rode sapere che un’opera di inestimabile valore storico-stilistico resti violentemente incarcerata all’interno di una struttura inagibile, con tutti i rischi che ciò comporta. Se il trittico fosse stato realizzato da Caravaggio, Tiziano, Raffaello & Co. (e dinanzi ai quali m’inchino devotamente e umilmente) col cavolo che lo si lasciava marcire in un rudere. Ma siccome si tratta di quello scalcagnato (come lo definisci te!) del Monrealese, che bisogno c’è di traslarlo in altro sito, magari al Duomo di San Giorgio? Ma del resto di cosa stiamo parlando? La Galleria di Palazzo Abatellis di Palermo ha i depositi stipati delle sue opere, limitandone la visione nelle sale espositive a un numero risicatissimo di lavori. Se vuoi osare, piuttosto, fai prima a pianificare un tour nelle chiese palermitane e, sperando anche in questo caso di trovare accesso libero, di vedere lì solo una parte dei pregevoli pezzi dell’artista.
– Hai perfettamente ragione! Ma come devo dirtelo? Non puoi cambiare le teste delle persone. Qui le cose vanno così e tutto si dà al raddoppio! Lo stesso tempo presenta leggi fisiche a sé. Come dire: ci si dà alla mollezza! Sarà il caldo, ma “cala” la palpebra e con essa la voglia! E poi, è un retaggio ancestrale inestirpabile.
– E dunque siamo punto e a capo! A proposito di caldo, sai quella gelateria in piazza Duomo famosa per i gusti al vino? Però, dopo, si “rivisita” il Duomo di San Giorgio, ok? Almeno diamo un senso “culturale”, e perché no, “montalbanese”, a questa capatina ragusana.
– D’accordo! Vada per il gelato e per il Duomo. Tanto lo so che ti senti un po’ “Montalbano” quando passeggi per questi luoghi.
– Se lo dici tu!
– Dico, dico!!

E dopo il dolce non poteva mancare l’amaro, specie quando ci si illude caparbiamente che per qualche pseudomagia qualcosa di buono e “nuovo” possa accadere.
Il sito resta tutt’oggi interdetto alle visite, con buona pace dei sensi!!
In effetti, a dirla tutta, in data 5 febbraio i portali ragusani riportano la news di un finanziamento da parte della Conferenza episcopale italiana di 246.390 euro destinato ai lavori di restauro e messa in sicurezza della Chiesa di Sant’Agata a Ibla.
Ma pare, rimembrando i tempi piuttosto dilatati della burocrazia insulare, che quel poveraccio del Monrealese, per la cronaca, Pietro Novelli da Monreale, dovrà aspettare ancora a lungo prima di rincontrare gli sguardi di masse distratte e sporadicamente incuriosite da quel Trittico menzionato qua e là nelle guide turistiche. Forse un giorno, chissà quando, le porte del vestibolo saranno varcate da un animo nobile che, anziché semplicemente curioso, sarà sinceramente interessato al Maestro seicentesco e ripagato dopo tanta snervante attesa e più di un centinaio di km marciati sull’asfalto rovente (oltre che disconnesso), tra gallerie solo parzialmente illuminate (tanto per andare al risparmio) e cartellonistica  mangiata dal sole perché marchiata anni Ottanta. L’ignoto temerario (eroe dei nostri giorni), ne ammirerà la visione d’insieme: quella coralità sacrale che squilla al pari dei lumi chiaroscurati sui volti degli astanti e increduli apostoli; ne scruterà, ancora, la qualità pittorica, la resa dei particolare, l’introspezione psicologica abilmente indagata e, non ultimo, quell’umano vissuto, già prodigioso al pari del dogma immortalato sulla tela. Un’illuminazione repentina darà vita a un’esperienza sensoriale che troverà il suo culmine quando lo sguardo indagatore incontrerà quello dello stesso Monrealese, autoritrattosi tra gli apostoli e voltatosi un solo istante perché distratto dal vocio contemporaneo o fosse anche e più alacremente per suggerirci la sua presenza come testimone oculare del mistero contemplativo.

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Ecco, tutto questo potrebbe succedere un giorno! Ma qui (o lì) tutto è imprevedibile e su certe questioni temporeggiare è d’obbligo. E come un altro illustre compianto insegna, un certo Dalla:
“E tra le case ancora da finire noi continuiamo, continuiamo a far l’amore”. (Lucio Dalla, da “Siciliano” in “Luna Matana”, 2001).
Della serie: “E che fretta c’è? Mangiamo, beviamo e amoreggiamo! Per tutto il resto c’è sempre tempo. E buonanotte al secchio!”.
Questo racconto ha un finale a metà strada tra la cronaca e la favola. Ma premesso che oggigiorno di fantasticherie se ne producono a iosa, non sarà certo quest’ultima, immaginaria chissà, a irritare la sensibilità etica di chi di dovere.

– Sei contento adesso? Hai voluto tentare nella speranza di trovar la chiesa aperta. I lavori di restauro devono ancora cominciare, ma vedrai che fra un anno saremo più fortunati.
– Già, l’anno prossimo! È ciò che mi ripetesti speranzosa l’anno scorso in questo stesso punto. Ascolta, ti va di andare avanti con la bimba e di aspettarmi al bar? Arrivo subito! Ho bisogno di un attimo solo con me stesso.
– Ok, tranquillo! Non farmi aspettare 20 minuti però!
– Ti raggiungo subito, amore! Grazie!
– Prego! Papà arriva subito, tesoro! Deve parlare con il suo amico, il Monrealese, ahhhh!!!!
– Spiritosa!! Uhm, non ha poi tutti i torti! Del resto chi mi conosce meglio di lei? Va bè, ti saluto Pietro e stammi bene! Vorrà dire che sarà per l’anno prossimo…si spera!!

– Me lo auguro anch’io, amico mio! Me lo auguro per te…e anche un po’ per me!! Perché in quelle tele ho ritratto la mia anima e la mia anima ivi dimora. Non chiedo tanto, se non altro quella riconoscenza che la sorte mi ha indebitamente sottratto e tristemente attendo! (Pietro Novelli, il Monrealese)

N.B. Dei rapporto tra l’Assunta di Ragusa e l’Elezione di San Mattia all’apostolato di Leonforte (Enna), altro capolavoro novelliano, abbiamo scritto QUI.

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ESPLORIAMO L’OPERA: “PIETÀ CON SAN GIACOMO MAGGIORE” di FILIPPO PALADINI.

LA “PIETÀ CON SAN GIACOMO MAGGIORE” di FILIPPO PALADINI.

di Filippo Musumeci

  • Opera: Pietà con San Giacomo Maggiore” (1605)
    – Tecnica e dimensioni: olio su tela, 309 x 199 cm.
    – Ubicazione: Caltagirone (CT), Chiesa del Collegio del Gesù, Cappella di Don Michael Gravina, Barone di San Michele di Ganziaria (ultima cappella di sinistra)
    – Firmato e datato in basso a sinistra: PHIL’. PALAD’. FLOR’. – PINGEBAT. MDCV.
    – La firma sovrasta lo stemma del committente, come si rileva dall’iscrizione sottostante: DON. MICHAEL. GRAVINA – BARO. GANZARIAE. – 1.6.0.5.

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“Sporadicamente fruibile” a causa della chiusura prolungata del sito ospitante, l’opera è tra le più significative della prima produzione siciliana del pittore tardomanierista fiorentino: manifesto orientativo delle sue tendenze culturali di matrice indiscutibilmente toscana nonché linea di demarcazione tra la fase giovanile – pienamente coclusasi con il “Martirio di Sant’Agata” (1605) della Basilica Cattedrale di Catania (ne abbiamo parlato QUI) – e quella matura in continuo divenire, fino all’attenta meditazione sulle novità caravaggesche importate sull’isola dal maestro lombardo nel 1608.
Il gruppo centrale, di chiara ispirazione bronzinesca, si dispone lungo una linea ascendente dallo slancio verticalistico da condizionare l’intera struttura del drammatico compianto. Lo spazio ne risulta compresso in profondità, nonostante la presenza dell’oscura grotta rupestre, la quale a mò di sipario cela lo sfondo naturale, appena visibile sull’angolo superiore destro, contribuendo, in tal modo, a risaltare la consistenza plastica delle figure aggraziate dei dolenti dall’accento patetico e dal disegno netto, tra le quali spicca la straziante volumetria anatomica del Cristo vilipeso ed esanime. Quest’ultima è acutamente costruita con linee-forza spezzate con andamento a zig-zag e modellata su morbide ombreggiature dolcemente in accordo con i piani luministici stesi sulla levigata superficie materica dell’epidermide, memore della lezione bronzinesca succitata e concretizzata dalla “Pietà con la Maddalena”  degli Uffizi. E il suo essere fulcro della composizione lo mostra come asse portante del semicerchio forgiato dagli astanti, saldamente unificati da un respiro corale, dolcemente evidenziato da un fiocco di luce radente la cui origine appare (come in altre opere del Paladini) di difficile individuazione, dunque, astrattiva.

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Le mani, evidenziate dal tenue crinale luminoso, i panneggi ghiacciati delle vesti, segnate da profondi sottosquadri ombrati e da tinte schiarite (come il rosa dell’abito di San Giacomo) e, infine, gli scorci assottigliati, i quali, già, da soli rappresentano la cifra stilistica paladiniana, rimandano, oltre che al Bronzino, di cui si è già detto, agli ideali tardomanieristi di area fiorentina della formazione paladiniana: Andrea del Sanrto, Fra’ Bartolomeo,Barocci, Cigoli, Allori, Pontormo ed Empoli. Il rapporto con Pontormo, poi, fu raffisato dallo storico Carlo Ludovico Ragghianti, riconoscendo nel Paladini un «precursore di quella formula neopontormesca, insieme stilisticamente conservatrice e audacemente veristica e innovatrice nella composizione e nella iconografia» , i cui vertici sono da rintracciare nella poetica di Boscoli, Passagnano, Ciampelli, Santi di Tito e dell’Empoli. A quest’ultimo, secondo lo stesso Ragghianti, si deve il maggior contributo al processo formativo del Paladini, il cui stile aulico, continua lo studioso, è «di una elevata e appartata temperie culturale, di un rigore contenuto e distaccato, come di chi ha conscienza di una eredità formale le cui linee di ascendenza come le assegnate consenguenze, erano state, dopo il Vasari, accettate come la rappresentazione per antonomasia del processo storico dell’arte italiana» .

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Gli studi preliminari della tela sono dimostrati da sei disegni preparatori appartenenti al secondo volume dei due taccuini autografi conservati al Museo Civico siracusano di Palazzo Bellomo.
Di questi merita particolare attenzione il foglio n. 42, nel quale la figura del Cristo – abbandonata sulle ginocchia della Vergine, nitidamente descritta in modo analitico mediante il segno deciso delle anatomie, esaltate dai sottosquadri e dai chiaroscuri a reticolo fisso diagonale – presenta strettissime analogie con la versione pittorica in questione.

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P.S. Un capolavoro, insomma. L’ennesimo (e ignoto ai più) di una lunga serie che ci si ostina a sconfinare nell’oblio….perché costa meno tenerne le porte chiuse, perché più facile, perché meno “rognoso” che parlarne, perché, in definitiva, non farebbe “cassa!”.

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Bibliografia:

– Carlo Ludovico Ragghianti, Miscellanea minore di Critica d’Arte, Laterza, Roma – Bari, 1946, pp.163-165.

– Maria Grazia Paolini, Dante Bernini, Catalogo della mostra di Filippo Paladini, con saggio introduttivo di Cesare Brandi, Palermo, Palazzo dei Normanni, maggio – settembre 1967, Assemblea Regionale Siciliana.

– Sergio Troisi, Filippo Paladini, un manierista fiorentino in Sicilia, in «Kalòs», marzo – aprile 1997.