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Friedrich Dürrenmatt: l’anticonformismo nell’arte

“L’arte, la letteratura, sono, come qualunque altra cosa, un confronto col mondo. Una volta afferrato questo, ne potremo intravedere anche il senso.” F. Dürrenmatt

Ho scoperto Dürrenmatt solo di recente, grazie al provvidenziale suggerimento di un collega, e inizialmente l’ho apprezzato per lo stile nitido e intensamente evocativo, per la capacità di esprimere il conflitto tra il bene e il male in tutta la sua atroce complessità e, infine, per le ambientazioni e le atmosfere che mi ricordano il mio paese natale: la Svizzera. La lettura de La promessa: un requiem per il romanzo giallo è stata davvero illuminante.

Dürrenmatt è infatti elvetico, nato a Konolfingen nel cantone di Berna, il 5 gennaio 1921, da un pastore protestante, a sua volta figlio del poeta e politico Ulrich. Si trasferisce a Berna nel 1935 e qui si diploma e intraprende gli studi universitari iscrivendosi alla facoltà di filosofia, lettere e scienze naturali. Prima di completare gli studi decide di dedicarsi all’attività di scrittura. La sua creatività si esprime sia nella narrativa che nel teatro e nella pittura, prediligendo spesso soluzioni ibride e decisamente originali.

Dürrenmatt F, Prometeo modella degli uomini, 1988, Centre Dürrenmatt Neuchâtel

I principali riferimenti letterari e drammaturgici sono da rintracciarsi in Brecht o più probabilmente in Beckett e Jonesco, dal punto di vista pittorico Dürrenmatt guarda all’opera di Goya, soprattutto il ciclo dei Capricci, le incisioni che deformano la realtà per rivelarne le pieghe più oscure e sconvolgenti, ma anche all’intensa stagione dell’espressionismo tedesco e alle visioni dell’amico Willy Varlin.

Nelle sue opere è evidente il senso di smarrimento dell’uomo di fronte alla labirintica città contemporanea e la capacità di osservare la realtà per rilevarne gli aspetti più inquietanti e grotteschi.

Friedrich Dürrenmatt, Labirinto II: Il Minotauro spaventato, 1974

Le sue opere di natura visiva affrontano i racconti della mitologia classica, in chiave allegorica, oppure prendono spunto dalle più avanzate idee scientifiche.

In alcuni casi si tratta di illustrazioni che accompagnano le sue narrazioni e tuttavia lui ne parla in questi termini:  

“I miei disegni non sono lavori accessori alle mie opere letterarie, ma i campi di battaglia disegnati e dipinti su cui si svolgono le mie lotte, le mie avventure, i miei esperimenti e le mie sconfitte di scrittore”.

Dürrenmatt è un artista ancora poco noto, morto a Neuchatel nel 1990, molti dei suoi lavori sono conservati in collezioni private ma una raccolta di tutto rispetto è sicuramente quella del Centre Dürrenmatt Neuchâtel dove di recente si sono tenute numerosi eventi di approfondimento e un’interessante conferenza che racconta il suo parallelo con il siciliano Leonardo Sciascia con cui lo svizzero condivide tematiche (il genere poliziesco e la riflessione sulla giustizia) e periodo storico.

In una selva oscura

Dante non è solo un grandissimo autore della letteratura di tutti i tempi, è anche il reale protagonista della Divina Commedia, il personaggio-poeta che ascende dalla perdizione della selva oscura alle visioni di incomparabile beatitudine del Paradiso. Come personaggio narrativo Dante è stato largamente “raccontato” anche in numerose opere d’arte visuale. Vogliamo provare a ricordare alcune versioni e tematiche rappresentate nel tempo a cominciare dalla descrizione delle tre bestie che ostacolano il cammino del nostro Dante nella selva oscura.

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. 

Inferno, I, 31-54

Siamo nel canto proemiale dell’Inferno, Dante è stanco e provato dai tentativi di ritrovare la strada per uscire dalla selva che rappresenta allegoricamente il luogo del peccato. La notte è al termine, il poeta è rincuorato nel vedere il colle verso cui si è incamminato che comincia a illuminarsi dei primi raggi del Sole, la speranza della salvezza però viene ricacciata indietro dalla paurosa vista di tre mostruose belve: una lonza, un leone e una lupa.

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SANDRO BOTTICELLI, Le tre bestie, 1480 ca.

Tra i primi artisti che hanno illustrato un’edizione a stampa della Divina Commedia vi è Sandro Botticelli. Le prime immagini che si affacciano alla memoria sono le ineffabili immagini muliebri della Primavera e della Nascita di Venere; la loro idealizzazione assoluta, il loro essere creature perfette e appartenenti al mondo delle idee neoplatoniche, oscurano aspetti dell’arte botticelliana di eguale importanza.

Divisa tra i Musei Vaticani e i Musei statali di Berlino abbiamo un’ampia collezione grafica da cui emerge un Botticelli dalla linea espressiva incisiva, capace di narrare il testo dantesco attraverso una tecnica che prelude a quella dei moderni fumetti. Nella stessa illustrazione Dante appare prima immerso nell’intricata selva, poi incontra le diverse bestie esprimendo con il gesto delle braccia vari gradi di paura fino alla fuga disperata dalla lupa che lo sospinge nuovamente verso la selva e verso la sua guida attraverso l’Inferno: il savio Virgilio.

Il delicato maestro fiorentino riprende la modalità illustrativa dalle miniature medievali ma le modalità espressive sono moderne, il tratto descrive con cura le emozioni del poeta dapprima pensoso e afflitto poi sempre più terrorizzato. Inoltre, nelle miniature precedenti non è presente l’attenzione al dato naturale, nel disegno di Botticelli invece sono chiaramente riconoscibili le essenze arboree che costituiscono la fitta foresta e le bestie sono tracciate con notevole naturalismo, distinguibili tra loro e delineate secondo l’indiscutibile conoscenza delle loro fattezze reali. La lupa poteva infatti essere nota ma difficilmente era possibile osservare leoni o ghepardi se non tramite opere di altri autori o in occasione di qualche esposizione di animali esotici come accadeva alla corte di qualche signore dell’epoca. Tuttavia un artista medievale non si sarebbe preoccupato di rendere il dato reale come invece era normale per un artista del Rinascimento.

L’opera di Dante è una delle più lette non solo in Toscana e negli stati presenti nella penisola italica, nella seconda metà del Cinquecento Jan van der Straet, artista formatosi in area fiamminga, opera a Firenze al servizio della famiglia Medici e realizza una cospicua serie di illustrazioni della Divina Commedia.

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J. VAN DER STRAET, Le tre bestie

In quella relativa all’incontro con le tre bestie abbiamo una buona ricostruzione dell’ambiente così come emerge dalla descrizione del poeta che dice di trovarsi tra la selva avvolta dalle tenebre e il colle illuminato dai primi raggi dell’alba. Il chiaroscuro nei toni delle terre e le lumeggiature creano un gioco di volumi maggiore rispetto alla scelta bidimensionale di Botticelli, ma la scelta dell’artista di Bruges è comunque orientata verso un’immagine meno drammatica e meno attenta al dato naturalistico per quanto sia comunque possibile distinguere le bestie tra loro.

W. BLAKE, Dante fugge dalle tre bestie, 1824-27

L’attenzione all’opera di Dante è molto presente nella cultura anglosassone, soprattutto a partire dal XVIII secolo, quando, seguendo i consigli di John Locke, molti gentiluomini si avvicinano alla cultura italiana, spesso in modo diretto ma ancora più spesso seguendo indicazioni autorevoli come quelle di Richardson che ponevano l’opera di Dante ai vertici dell’ingegno creativo italico, al pari solo di Michelangelo per le arti visive.

Un esempio di notevole originalità è quello di William Blake, tra i più evocativi e singolari artisti del Romanticismo. Egli considerava Michelangelo l’artista supremo e probabilmente l’idea di illustrare alcuni episodi del poema dantesco gli venne proprio dallo studio del grande artista della stagione rinascimentale. Certo nelle sue rappresentazioni della Divina Commedia c’è molto di più, le bestie, nel caso in esame, non sono solo simboli del peccato, sono antropomorfiche, hanno occhi grandi che sembrano pozzi sull’Inferno ormai vicino, e sono uomini privi però di umanità, similmente a quanto accade nel Nabucodonosor ma ad uno stadio più avanzato.

W. BLAKE, Nabucodonosor, 1795

Blake lavorò alle incisioni per la Divina Commedia negli ultimi anni, ebbe modo di terminare solo sette incisioni ma lasciò un centinaio di disegni, molti completati con acquerelli dai colori vibranti e con una tecnica originalissima. Del resto anche i suoi metodi di incisione restano avvolti nel mistero, lo stesso artista affermava di aver avuto una rivelazione a tal proposito dal fratello morto. In ogni caso egli univa alle immagini la parte testuale e ritoccava a mano tutte le stampe, usava pigmenti molto densi realizzati con una base di colla per falegnami con risultati obiettivamente molto particolari.

Centrale nell’opera di Blake, e in generale nel suo pensiero, è una vera e propria lotta contro la ragione che egli identifica in una sorta di demone, Urizen, e le bestie della rappresentazione in oggetto ne sono in un certo senso l’emanazione, perchè Blake, poeta oltre che pittore, vede in Dante un proprio fratello, un proprio omologo intento a fuggire i vizi e le passioni che lo allontanano dalla dimensione creativa dell’innocenza.

Le bestie-simbolo compaiono anche in una seconda illustrazione: quella relativa al secondo Canto dell’Inferno e alla missione di Virgilio.

W. BLAKE, La missione di Virgilio, 1824-27

Immagine sicuramente più complessa e visionaria della precedente in cui Blake tenta di rappresentare tutti i contenuti del canto, nel modo più ampio possibile. La straordinaria ricchezza di dettagli e colori, così come l’innegabile attenzione alla composizione, fanno di questo pezzo, anche osservandolo da un punto di vista informale, uno dei più suggestivi da vedere in tutta la serie. Le bestie, così concrete e materiche nella prima illustrazione, quì si confondono con la vegetazione e non incutono più timore a Dante pronto a seguire Virgilio nella sua missione di conoscenza e ascesi.

J-B. C. COROT, Dante e Virgilio, 1859

E’ stupefacente constatare come anche un artista della stagione del Naturalismo, quale Corot, osservi con attenzione il poema dantesco e ne tragga ispirazione per un’opera da presentare al Salon del 1859. Le belve si fanno più naturalistiche che mai, ma vi è anche un’acuta espressione dei sentimenti e delle emozioni: lo sguardo terrorizzato di Dante, il suo ritrarsi e il gesto eloquente di Virgilio, che qui veste come un patrizio dell’Antica Roma ed è coronato dell’alloro poetico. L’ombra dell’autore dell’Eneide rappresenta la sapienza umana, quella che permetterà a Dante di attraversare l’Inferno, riconoscere i propri peccati ed espiarli successivamente superando infine la vetta del Purgatorio, luogo dove la ragione non è più sufficiente e occorre una nuova guida: Beatrice.

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G. DORE’, La lupa, 1860

Il più grande narratore della Divina Commedia resta tuttavia Gustave Doré. Le sue incisioni accompagnano il poema ad ogni passaggio e difficilmente potremmo immaginare un corredo illustrativo migliore. La resa della selva è magnifica, la vegetazione è intricata e pericolosamente avvolgente, il tratto si adegua alla materia da rappresentare e lo spirito narrativo trasforma il poema in un romanzo, adattondolo al gusto del XIX secolo.

G. DORE’, Il Leone

 Il leone di Doré non potrebbe essere più superbo, con la sua folta criniera e il suo essere collocato in alto, tra rocce e rovi, mentre fronteggia Dante mesto nella sua paura, incorniciato dalle radici spettrali degli alberi.

La lupa nell’immagine precedente è invece magra come nella descrizione della Divina Commedia e bramosa di divorare ogni bene, simbolo dell’avidità da cui scaturiscono tutti i mali. Ed infatti il poeta non può difendersi da essa, perde ogni speranza e solo l’intervento di Virgilio gli restituisce fiducia. La speranza è qui simboleggiata dalla luce dell’alba che si intravede oltre la selva. Ma come sappiamo altro è il viaggio che Dante deve ancora compiere in compagnia di Virgilio e l’entrata dell’Inferno non può che essere nell’angolo più cupo della foresta.

G. DORE’, Virgilio e Dante nella selva

Il Don Chisciotte di Charles Antoine Coypel

Con grande entusiasmo pubblichiamo un approfondito e originale saggio sull'arte di Charles Antoine Coypel realizzato con estrema cura da Miriam Raffaella Gaudio. Tecniche come la pittura ad olio, l'incisione e la realizzazione degli arazzi si incontrano per descrivere le fantasiose ed esilaranti avventure dei personaggi di Cervantes. Buona lettura

L’opera del Don Chisciotte di Coypel (dipinti, arazzi della manifattura dei Gobelins) è stata iniziata nel 1717 e terminata nel 1794. Altri artisti si sono interessati allo stesso soggetto: nel 1710, Claude Gillot ne rappresenta un episodio Vieillée d’arme e il contemporaneo, Charles Natoire , tra il 1735 e il 1744, realizza un’altra serie completa del Don Chisciotte per la manifattura di Beauvais.

Esistono diverse edizioni dei ventotto cartoni del Don Chisciotte di C. A. Coypel, sparse in Europa e Stati Uniti. La collezione più numerosa con ben 102 pezzi è quella del Quirinale a Roma. Nel corso dei secoli le molteplici serie sono acquistate dai grandi committenti francesi tra cui il Duca d’Antin (oggi al Louvre), da Carlo III di Borbone in Italia, dalla corte di Parma (trasferiti alla corte dei Savoia a Torino con l’unità d’Italia), presso il castello di Marly (oggi presso il Mobilier National di Parigi), altri a Richmond, a New York e a Vienna.

In Italia Giuseppe Bonito copia alcuni modelli e successivamente gli incisori che li riproducono sono molteplici: tra questi ricordiamo Simon Fokke, le cui 21 incisioni si trovano nell’edizione del Don Chisciotte del 1744, edito da P. Gosse e A. Moetjens in Olanda, testo recuperato nella Biblioteca Civica di Verona e che sono riportate in questo articolo insieme agli originali di Coypel, per svolgere un confronto iconografico.

Purtroppo dei dipinti e degli arazzi dell’artista sono andati perduti ed altri sono inaccessibili, perché posti nei depositi di musei come il Louvre o Palazzo Reale di Torino. Alcuni sono continuamente in restauro a causa del cattivo stato di conservazione, dovuto all’usura provocata dai soventi riutilizzi delle opere per realizzare tutte le edizioni; altri per gli effetti di decurtazioni di restauri sbagliati durante l’Ottocento.

Nel XVIII secolo il soggetto di Cervantes è scelto per la politica antimilitarista al seguito delle miserie causate dalla guerra di successione spagnola, condotta da Luigi XIV. Il mito antieroico e cristiano del Don Chisciotte è considerato opera di evasione e di disimpegno, esattamente all’opposto di una precedente produzione pittorica di Coypel sull’Iliade, destinata alla realizzazione di arazzi.

Nelle manifatture si procede dai bozzetti degli artisti alla costruzione dell’immagine ottenuta dopo diverse fasi molto complesse: riproduzione elaborata da pittori specializzati, la filatura della trama, l’orditura e la finitura.

La bellezza e l’unicità assoluta della produzione dei Gobelins è data dal cangiantismo cromatico, dagli effetti di chiaroscuro, dalle pregiate trame di seta e lana (come nel caso delle opere di Coypel) dai rilievi plastici delle figure, realizzati con una gamma di ben 14000 colori diversi. Gli alentours (ben 5 diversi adottati nelle nove edizioni) non sono semplici decorazioni, ma diventano più che delle cornici, sono sfondi d’incredibile aspetto illusionistico e scenografico, con ricercatissime allusioni al contenuto della storia. Sono realizzati da Blain de Fontenay il giovane, François Desportes, Claude Audran, Michel Audran, Monmerqué e Cozette.

Gli arazzi traducono brillanti tableaux vivants, una perfetta commistione di teatralità, pittura ed elementi decorativi, in cui traspare l’eleganza, la raffinatezza e la leggiadria dell’arte rococò. I giochi cromatici e luministici, la capacità di saper esprimere tanto la comicità quanto i contenuti più profondi dell’opera di Cervantes fanno di Coypel un grande artista eclettico, pittore ma anche letterato e drammaturgo. La narrazione picaresca diventa teatralità in perfetto equilibrio con le bienséances dell’epoca, cosa alquanto evidente nell’analisi comparativo – iconografica dei dipinti, degli arazzi e delle incisioni.

I personaggi, soprattutto Sancho Panza, ricordano quelli di Molière o della Commedia dell’arte per le posture, gli atteggiamenti e le loro vicende bizzarre.

Non si può non citare l’opera teatrale, tanto apprezzata da Luigi XV, Le follie di Cardenio che Coypel realizza nel 1720 e il cui protagonista gli è ispirato dal Cardenio di Cervantes, il che fa ben intendere una vera passione personale dell’artista per l’opera letteraria del Don Chisciotte .

Madame de Châtelet ha scritto di Coypel: “I modelli del Don Chisciotte costituiscono la parte più accattivante della sua opera per tono, vivacità e incanto dei particolari”.

Analisi di alcune opere

Durante le avventure dell’Hidalgo, sono i personaggi a ricreare un mondo d’immaginazione per Don Chisciotte, che ne è solo fatalmente trascinato.

Don Chisciotte al ballo

Tra le tante scene rappresentate dal pittore, si è fatta una selezione. Una di queste riguarda il capitolo LXII della parte seconda: alcuni uomini invitano il protagonista e il suo scudiero al palazzo del nobile Antonio Moreno. Don Chisciotte è ben contento di accettare, credendo che la sua fama sia ormai ben conosciuta da tutti. Il padrone di casa si burla del cavaliere apponendogli un cartello sulla schiena, senza che se ne accorga. Alla festa data in suo onore, le dame corteggiano e invitano Don Chisciotte a danzare. Pur ballando, resta sempre distante dalle fanciulle per amore e fedeltà verso la sua amata Dulcinea di Toboso.

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1. Don Chisciotte al ballo di Don Antonio Moreno

Questo episodio è stato rappresentato da Coypel in uno straordinario dipinto (olio su tela, 1,64 cm × 2,66 cm) del 1731 che si trova presso il museo di Compiègne, (fig.1) con i relativi arazzi al Museo di Capodimonte, al Louvre e a Versailles.

Coypel, da buon regista, porta i protagonisti al centro della scena, accerchiati dagli invitati, al tempo stesso spettatori, così da generare il presupposto per cui noi saremmo spettatori degli spettatori. La profondità della sala è data dall’allineamento perfetto diagonale di Don Chisciotte e delle due dame che ballano, una eccezionale coreografia galante nella quale stona la postura buffa del cavaliere, impacciato nella danza e distante dalle fanciulle per rispetto alla sua Dulcinea di Toboso. Ancora più farsesca e ironica la figura di Sancho Panza, che sembra quasi un perfetto giullare di corte. Tra gli invitati suona una piccola orchestra che, soprattutto per la figura del violinista, può essere paragonata all’opera Il concerto di Longhi.

Coypel ha saputo dimostrare grande abilità cromatica e padronanza compositiva in un’opera estremamente raffinata.

Questo dipinto ha subito restauri sbagliati, come quello del 1824, durante il quale lo si è tagliato in due per le sue grandi dimensioni. Il modello è il più grande eseguito da Coypel per la manifattura dei Gobelins e per il quale l’artista riceve ben 1800 lire, una somma molto cospicua per l’epoca. L’iconografia è esattamente quella utilizzata nel Settecento dai pittori delle fêtes galantes: si osservi la leggiadria delle dame che ben riflettono le magnifiche danze di Watteau, Pater, Lancret.

Il fascino del rococò è evidente nelle architetture del salone, nell’uso preponderante del bianco che ben s’incontra con l’intensa luce dei candelabri di cristallo dal gusto veneziano. La continuità dei colori neutri e pastello è interrotta dal rosso vermiglio dell’abito di una delle dame danzanti che corteggia il cavaliere, in modo da richiamare l’attenzione sui movimenti aggraziati dei personaggi.

Come tutte le scene teatrali, necessita di un sipario ed è per questa ragione che Coypel crea una cornice molto suggestiva e utilizzata in tutta la serie del Don Chisciotte: si apre un sontuoso drappeggio che introduce e chiude la composizione. Si noti la ricerca di armonia e simmetria, realizzata gradualmente, attraverso molteplici piani.

All’ estrema destra uno sgabello delimita lo spazio teatrale e a sinistra un personaggio in abito scuro, non identificato, guarda il fruitore, quasi per invitarci alla festa. La sua posizione inusuale crea profondità e suona la chitarra. La sua figura ricorda quella del Mezzetino, musicista solista, dei concerti campestri di Watteau.

Don Chisciotte e il busto incantato

 La storia prosegue con l’episodio della “testa incantata”. Si svolge nel salotto di Moreno, dove i duchi affermano che ci sia un busto parlante, al quale Don Chisciotte può rivolgere qualsiasi domanda e così fa, ponendo interrogativi sul futuro. In realtà è un’altra beffa ai danni del cavaliere, dato che la voce del busto è del cugino di Moreno, trasmessa attraverso un tubo ben nascosto.

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2.Don Chisciotte e il busto incantato

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3. SIMON FOKKE, Don Chisciotte e il busto incantato – incisione

Osservando sia l’olio su tela del 1732 (1, 58 × 1, 82 cm) che uno degli arazzi della collezione Rothschild (figg. 2 e 4), la scena narrativa diventa teatrale; l’accurata scenografia ci introduce in un salon aristocratico nel quale la pittura fa da sovrana. L’appartamento rispecchia un gusto molto attento all’estetica del suo tempo. Vi sono diverse opere d’arte che secondo alcuni studiosi, come Thierry Lefrançois, si tratterebbe dell’appartamento privato di Coypel presso il Louvre e i quadri con vedute di paesaggi alle pareti dovrebbero essere di Forest così come la statuetta della ninfa dormiente di Susini, oggetti realmente appartenuti al pittore.

Sembra quasi che ci abbia voluto lasciare traccia del suo vissuto, per ricreare un contesto fittizio ma anche reale, in un continuo gioco oscillante tra il vero/concreto e l’illusione/astratto, riflesso del mondo teatrale, in cui finzione e verità s’incontrano. L’artista ci introduce al palcoscenico e agli attori, ricreando una magnifica scenografia in cui si mescolano la passione dell’antico (i busti classici), il predominante paesaggismo bucolico settecentesco e il ritratto. Due porte laterali potrebbero essere le quinte teatrali: da una di esse si intravede una mezza finestra da cui si scorge un cielo sereno, da interpretare come la serenità che deve cercare di trasmettere l’opera. I busti sembrano quasi spettatori o custodi divertiti della scena, si animano come le statue di Watteau negli splendidi giardini rococò. Un busto si rivolge al pubblico invisibile, quasi volesse invitare i fruitori ad ammirare l’azione e per comunicare che lo spettacolo è iniziato. L’altro accenna un sorriso, come se perfino la materia potesse prendersi gioco del Don Chisciotte. Lo scarto tra realtà e finzione è molto sottile: ci si chiede con quali occhi la realtà possa essere interpretata, con quelli dell’immaginario o con quelli della razionalità? L’artista preferisce essere a metà strada come lo è stato Cervantes, in quella strana dimensione che Borges chiamerà “universi paralleli”, in cui il lettore diventa spettatore di se stesso in un gioco straordinario di piani fittizi. La profondità del piano di azione è suggerita dal taglio compositivo, dalla disposizione a tre quarti del tavolo su cui si trova il busto magico e dagli appartamenti nell’appartamento.

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4. Don Chisciotte e il busto incantato – arazzo

Le dame sono molto simili alle fanciulle delle fêtes galantes ed i loro gesti, posture ed espressioni rivelano la ricerca di leggiadria e frivolezza tipica dello stato femminile del tempo. L’incarnato è quello del pittore Van Loo, la delicatezza e la grazia dei corpi ricorda Watteau. Una di loro, seduta, è spettatrice nell’opera. Si realizza così una doppia entità di fruitori, quelli empirici, rinchiusi nel dipinto, e quelli ideali, al di là della dimensione artistica. Coypel comunica attraverso una specie di metateatro in cui epoche diverse, come quella del Rinascimento e del Rococò possano armonizzarsi perfettamente, dato che la dimensione dell’arte non può essere vincolata alle coordinate spazio-tempo.

Nell’incisione di Simon Fokke per l’edizione del 1744 curata da P. Gosse e A. Moetjens (fig. 3), vi sono molte differenze rispetto all’originale. Qualche quadro vedutista è sostituito da ritratti di personaggi nobili. Sulla parete di destra si scorge il quadro di un gentiluomo, la cui posa è ripetuta dall’uomo sottostante.

I busti presentano tratti meno accurati. La testa incantata assume una fisionomia più autoritaria e meno classica. Lo stesso Don Chisciotte sembra più stanco che meditativo. Il ridicolo e sorpreso Sancho Panza diventa un personaggio grottesco, la cui più evidente modifica è nello strano copricapo.

Il banchetto di Sancho Panza all’isola di Barattaria

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5. Il banchetto di Sancho Panza all’isola di Barattaria – arazzo

Nella seconda parte del libro, capitolo XLVII, il vero protagonista diventa Sancho Panza, che tenendo fede ai consigli dati dal suo padrone, si reca nell’isola di Barattaria, dopo che il duca Moreno gli ha proposto di diventare governatore. In realtà si tratta di un’altra beffa ai danni dei due sventurati e difatti si mette in scena una farsa perfetta per prendersi gioco del povero ingenuo ed ignorante Sancho. All’inizio riesce ad essere un buon governatore, ma la vita nell’isola si fa insopportabile a causa di un medico che gli proibisce di mangiare qualsiasi cosa per la sua salute; per di più si aggiunge una lettera del duca che lo avvisa di non accettare cibo, dato che si sta tentando un complotto di avvelenamento.

Coypel raffigura proprio il momento del banchetto, in cui gli vengono presentate magnifiche portate e poi gli sono sottratte prima che si possa gustarle, per ordine del falso medico barbuto. Di questo episodio ci sono rimasti due arazzi (uno al Getty Museum e l’altro al Quirinale), il dipinto ad olio (presso il Museo di Compiègne, 1,58 × 1,83 cm) e l’incisione tratta dalla suddetta edizione del 1744 (fig. 5, 6,7).

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6. Il banchetto di Sancho Panza – olio su tela

L’arazzo conservato al Getty Museum presenta un cromatismo più tenue e delicato, con splendidi alentours floreali e allusioni al mondo cavalleresco, resi con notevoli sfumature cromatiche, su uno sfondo damascato fucsia.

Da notare è l’effetto luministico notevole e focale delle candele sul candelabro, posto in alto al centro della scena. La luce soffusa crea un gioco di ombre, allusione alla realtà che può trasformarsi in immaginazione. Le pareti dell’interno dai colori caldi sono in contrasto con la tovaglia bianca, il cui colore richiama l’attenzione sul banchetto.

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7. Il banchetto di Sancho Panza – incisione

Anche in questa scena come le altre, vi sono diverse persone che circondano la scena, in qualità di attori – spettatori. Il comico andirivieni di servitori sorridenti fa inquietare Sancho che pur avendo tanta fame non riesce a mangiare nulla. Tutta la scena è buffa grazie a diverse componenti: l’abbigliamento carnevalesco di Sancho, trasformato in un califfo, l’azione ironica dei servitori e il falso medico, con una lunga e folta barba, che impartisce ordini. Tale personaggio diventa ancora più comico nell’incisione corrispondente, in cui porta occhiali più grandi ed un copricapo grottesco.

La scena è un esempio di massima teatralizzazione della pittura, il cui movimento è espressione dei personaggi realizzati con grande efficacia.

Don Chisciotte servito dalle damigelle del Duca

Altri episodi sono espressioni raffinatissime della magnificenza architettonica inserita nella pittura settecentesca, con un’analisi attenta e meticolosa della luce e delle ombre, in spazi che si aprono all’esterno, in cui la perfetta prospettiva si armonizza con una sempre più accurata scenografia e mimica teatrale (fig. 8).

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8. Don Chisciotte servito dalle damigelle del Duca

Il giardino comunica con un ambiente classicheggiante. Sul proscenio sono deposte le armi del protagonista, il quale indossa un abito da cerimonia. Interessante è la fanciulla china su di un tavolo, che ci guarda in modo ammiccante e ci indica l’azione.

Il modello dalle accese e brillanti tonalità è stato realizzato nel 1723, mentre l’arazzo dalle sfumature più tenui e delicate è stato terminato nel 1746-48, il cui esemplare qui riportato si trova presso l’appartamento di Madama Felicita a Palazzo Reale di Torino (fig. 9).

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9. Don Chisciotte servito dalle damigelle del duca – arazzo

L’alentour riprende gli stessi colori pastello del riquadro centrale, riportando i simboli della cavalleria medievale. In basso il cane può essere l’allusione alla fedeltà ai valori. Le pecore possono interpretarsi come: allegoria della vita ideale e bucolica, immagine del cavaliere come pastore delle anime.

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10. Don Chisciotte servito dalle damigelle del duca – incisione

Don Chisciotte e Sancho Panza sul cavallo di legno

Una scena molto bizzarra e che mette in evidenza la dimensione irreale nella quale vive il cavaliere è quella descritta nella parte seconda del capitolo XLI. Delle duchesse si prendono gioco del protagonista e gli raccontano che terribili incantesimi sono stati compiuti dal gigante Malanbruno nel palazzo della principessa Antonomasia e che avrebbe disfatto i sortilegi solo se Don Chisciotte della Mancia lo avesse sfidato. Il cavaliere accetta la sfida, ma per raggiungere il gigante gli dicono che deve cavalcare bendato e di notte Clavilegno, un cavallo volante. In realtà si tratta di un cavallo di legno, la cui coda è infuocata dai servitori per sfrecciare in aria e far credere ai due malcapitati di aver preso il volo.

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11. Don Chisciotte e Sancho Panza sul cavallo di legno

L’episodio è realizzato in modo molto comico da Coypel con un forte impatto scenico. Si osservano i servitori che fanno fuoco e azionano un mantice per il fumo. Gli spettatori attoniti e la bizzarra scena contrasta con l’austerità trionfale del protagonista. L’arazzo del 1747-49 è conservato a Palazzo Reale di Torino (figg.11, 12).

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12. Don Chisciotte e Sancho Panza sul cavallo di legno

Don Chisciotte abbandonato dalla follia

 Ultimo episodio in questa operazione di selezione, ma forse il più carico di significati, è tra quelli finali, in cui Don Chisciotte, ritornato a casa, è assistito dalla misericordia e rinsavisce dalla sua follia. Gli uomini hanno bisogno di misericordia e di ironia, per poter affrontare le disgrazie della vita terrena. Solo in punto di morte il protagonista riconosce che Dio e la misericordia sono il vero ideale degli uomini; tutto il resto è vanità.

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13. Don Chisciotte abbandonato dalla follia

Nell’ambiente domestico di Don Chisciotte la dimensione onirica, tanto decantata da Caldèron de La Barca nella La vita è un sogno, si fonde con la realtà, in uno spazio cupo e solitario. La testa china del cavaliere indica il suo stato di rassegnazione dopo essere stato sconfitto in duello e aver compiuto un percorso spirituale e tautologico. Si avverte la malinconia di un mondo che non è mai stato ed eppure è stato vissuto dal pensiero del protagonista. Quella dimensione irreale e quasi metafisica è stata l’unica a tenere in vita Don Chisciotte, poiché la ragione e la realtà ne costituiscono i limiti.

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14. Don Chisciotte abbandonato dalla follia – incisione

Al termine del viaggio la sua morte è soprattutto spirituale, alla continua ricerca di un’identità in qualità di homo faber del suo destino. Si rispecchia perfettamente l’ideologia rinascimentale che pone al centro di tutto l’uomo combattuto tra i suoi dubbi e la profonda fede cristiana. La misericordia è considerata da Coypel come una divinità classica, che come un deus ex machina appare in tutta la sua magnificenza e trionfalità.Nello stesso spazio Sancho vede la pazzia volare via, rappresentata come una bella fanciulla che in una mano porta un cappello da giullare (rappresentazione dell’ironia e delle beffe a scapito dei due personaggi) e nell’altra mano tiene un castello (simbolo dell’idealismo medievale cavalleresco del Don Chisciotte, ma anche possibile allusione alla prigione della psiche) (figg. 13, 14, 15).

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15. Don Chisciotte abbandonato dalla follia – arazzo

La pittura diventa arte teatrale. A questo proposito, Coypel scrive nelle Riflessioni sull’arte della pittura a confronto con l’arte della retorica: “Gli attori che noi mettiamo in scena non hanno altro linguaggio che il gesto e l’espressione del volto”. Ed è proprio la rappresentazione straordinaria della comunicatività dei suoi personaggi a farci riflettere su quello che l’artista Garouste ha definito “la ricerca dell’indefinito, di un rapporto autentico e vero tra pittura e natura”, in occasione della mostra sul Don Chisciotte al Museo di Compiègne nel 2000.

Miriam Raffaella Gaudio