Andrea Camilleri è una delle voci più importanti del panorama italiano tra XX e XXI secolo, l’erede più completo di una ricca tradizione culturale e narrativa siciliana che raccoglie Pirandello e i più contemporanei Brancati, Sciascia e Bufalino ma anche attento osservatore della letteratura e del teatro più recente da Beckett, a Jonesco fino a Majakovskij. Il maestro siciliano opera in campi differenti e su livelli culturali molto variabili cioè dedicati ad un pubblico con richieste e appetiti disparati. Il suo personaggio più amato e più noto al grande pubblico è sicuramente il commissario Montalbano, nato dalla sua penna nel 1994, con La forma dell’acqua che in televisione nel 2000 è diventato il primo episodio del raffinatissimo poliziesco-investigativo Il ladro di merendine.
Copertina della Forma dell’acqua, Sellerio
Perché parliamo di Camilleri su un blog come il nostro solitamente dedicato alle arti statiche e visive della pittura e della scultura? Perché stiamo parlando di un autore che dipinge con le parole, pensiamo alle sue intense descrizioni della Sicilia più bella, ai ritratti così definiti e finemente psicologici dei personaggi che mette in scena.
La nottata era proprio tinta, botte di vento arraggiate si alternavano a rapide passate d’acqua tanto malintenzionate che parevano volessero infilzare i tetti. Montalbano era tornato a casa da poco, stanco perché il travaglio della jornata era stato duro e soprattutto faticante per la testa. Raprì la porta-finestra che dava sulla verandina: il mare si era mangiato la spiaggia e quasi toccava la casa. No, non era proprio cosa, l’unica era farsi una doccia e andarsi a corcare con un libro. Sì, ma quale? A eleggere il libro col quale avrebbe passato la notte condividendo il letto e gli ultimi pinsèri era macari capace di perderci un’orata. Per prima cosa, c’era la scelta del genere, il più adatto all’umore della serata. Un saggio storico sui fatti del secolo? Andiamoci piano: con tutti i revisionismi di moda, capitava che t’imbattevi in uno che ti veniva a contare che Hitler era stato in realtà uno pagato dagli ebrei per farli diventare delle vittime compatite in tutto il mondo. Allora ti pigliava il nirbùso e non chiudevi occhio. Un giallo? Sì, ma di che tipo? Forse era indicato per l’occasione uno di quelli inglesi, preferibilmente scritti da una fìmmina, tutto fatto di intrecciati stati d’animo che però dopo tre pagine ti fanno stuffare. Allungò la mano per pigliarne uno che non aveva ancora letto e in quel momento il telefono sonò. Cristo! Si era scordato di telefonare a Livia, certamente era lei che chiamava, preoccupata. Sollevò il ricevitore.
[Andrea Camilleri, Gli arancini di Montalbano, Mondadori, 2000]
In verità Andrea Camilleri ha l’arte tra i suoi molteplici interessi, ha collaborato con Renato Guttuso alla Vucciria, un’opera mista dei colori del pittore di Bagheria e della capacità ideativa dell’autore agrigentino.
La Vucciria
Della rappresentazione del famoso mercato palermitano lo stesso Camilleri dice in una nota:
“Un narratore o un commediografo, davanti alla Vucciria, avrebbero materia di scrittura sino alla fine dei loro giorni”
La sua attenzione per l’arte è presente in un altro capolavoro narrativo, Il colore del sole, qui l’attenzione si pone sul ritrovamento del diario di Caravaggio relativo al suo soggiorno tra Malta e la Sicilia nell’estate del 1607, ed in particolare sulla realizzazione della Decollazione di San Giovanni Battista. Michelangelo Merisi vive i suoi ultimi giorni inquieti cercando di risolvere il mistero del “sole nero” che è la chiave per comprendere il suo modo di dipingere.
Decollazione di San Giovanni Battista, Caravaggio, olio su tela, 1608, Malta, Cattedrale di San Giovanni
… Elli gravemente dissemi che avea capito che la luce della decollazione era la luce del sole nero. Io prontamente negai. Ma elli ripetemmi che trattavasi di maleficio sopremamente diabolico. Dissemi anco che lo Creatore avea creato e governato tutta la materia per li suoi fini e li suoi propositi e che quindi la visione inversa de lo sole e de la luce sua significava obbedienza a la legge inversa, contraria a la divina, significava abbracciare per vero l’opposto suo, lo contrario de’ propositi del Creatore Supremo. Se lo sole è vita, lo sole nero è morte, ancor disse. Consigliommi digiuno e preghiera. Ma io hora cognosco che tutta l’esistenzia mia, ancor prima assai che Celestina mi desse quel liquido, era comenzata e continuata sempre sotto lo segno de lo sole nero…
[Andrea Camilleri, Il colore del sole, Mondadori, 2007]
Anche se con un giorno di ritardo anche gli autori di Sul Parnaso augurano buon compleanno ad Andrea Camilleri e infinite buone letture e visioni a tutti quanti i nostri lettori.
Arlecchino è probabilmente la maschera più rappresentativa del Carnevale, un simbolo ricco di sensi e anche di non sensi. Personaggio capace di incarnare numerosi vizi e qualche virtù, amato e rappresentato da molti artisti, in particolare da Picasso che lo ha dipinto in diverse occasioni e modalità. Oggi è associato all’idea di gioco, di allegria e spensieratezza, tuttavia le sue origini più remote richiamano scenari infernali da incubo. Un primo richiamo alle radici di questa figura è presente nell’Historia ecclesiastica di Orderico Vitale, autore di un imponente cronaca medievale in cui riporta la testimonianza di in monaco di Bonneval che afferma di aver incontrato la “gente di Hellequin”, una turba innumerevole di demoni e dannati, appartenenti ad ogni classe sociale e condotti da un gigante infernale di nome Hellequin. Il monaco riconosce diversi personaggi passati a miglior vita di recente e sottoposti ad un anticipo cruento delle pene infernali. La descrizione ricorda sicuramente le terrificanti visioni infernali che nel Medioevo si diffondono per dissuadere i credenti dalle cattive azioni e che sono state sicuramente utilizzate da Dante quale fonte per descrivere il suo Inferno. Infatti anche nella Divina Commedia compare il demone Alichino,
DORE’, Il volo di Alichino – incisione
nel canto XXI della Cantica infernale, chiamato da Malacoda insieme ad altri a far da scorta a Dante e alla sua guida Virgilio, alla ricerca di un passaggio verso una nuova zona dell’Inferno. Se l’Alichino dantesco fa parte di un esercito di demoni buffoni, quello della cronaca di Orderico è a capo di un esercito di creature infernali che ricorda da vicino sia il motivo della danza macabra che quello della caccia selvaggia (mito nordico legato all’attività di psicopompo del dio Odino).
P. N. ARBO, Caccia selvaggia di Odino, 1872, Oslo
Possiamo tradurre entrambi i temi come la versione antica delle turbe di zombie, tanto presenti nell’immaginario cinematografico contemporaneo. Col tempo la turba infernale si è trasformata in scherzosa brigata, tuttavia il nostro Arlecchino conserva ancora una natura mossa dagli istinti bestiali (brama di cibo, di sesso) e la stessa maschera in origine riporta una sorta di bernoccolo che richiama forse le corna di un demone. Inoltre la veste decorata da rombi multicolore ricorda quella carica di lusinghe del re dell’Inferno.
P. BRUEGEL, Lotta tra il Carnevale e la Quaresima, 1559, Vienna
Il Carnevale è una festa di origine pagane all’interno del quale la figura di Arlecchino si è andata delineando, forse anche con l’inconscia intenzione di esorcizzare il terrore della morte e delle immagini più macabre ad essa associate. Bruegel è uno dei più visionari artisti dell’arte del passato e in questa grottesca sfida tra Carnevale e Quaresima è impossibile non vedere un parallelo stringente con le immaginifiche e apocalittiche visioni infernali dello stesso artista.
Ritroviamo Arlecchino nell’arte francese, e se il diavolo è l’invincibile seduttore, la figura della Commedia dell’Arte non sembra essere da meno: lo sguardo smarrito di Colombina, nella pur idillica raffigurazione di Watteau, lo dimostra chiaramente.
J.A., WATTEAU, Arlecchino e Colombina, 1716 ca. – Londra
Gli Arlecchini delle epoche più recenti sono invece maschere malinconiche o enigmatiche; ecco Cézanne che dipinge suo figlio nei panni di un Arlecchino austero, passaggio verso una sempre più cristallina figurazione astratta giocata su toni rossi e blu, cupi e densi, secondo schemi geometrici attentamente elaborati.
P. CEZANNE, Harlequin, 1888 ca., Pola
Indubbiamente Picasso dedica ad Arlecchino maggiore attenzione rispetto a qualsiasi altro artista, facendone un soggetto speciale e privilegiato. Nel periodo rosa dipinge un piccolo Arlecchino con acrobata: gli sguardi divergenti dei due personaggi guardano lontano e in opposte direzioni, l’artista sceglie tonalità più tiepide e varie, lasciando il monocromatismo del periodo precedente. Sono gli anni in cui il grande pittore andaluso si “accontenta di vedere le cose come le vedono gli altri”, disse Gertrude Stein, descrivendo le opere che preludono alla svolta cubista.
P. PICASSO, Acrobata e giovane Arlecchino, 1905, Barnes Foundation, Lower Merion, PA, US
Nel 1924 usa il soggetto in una composizione cubista, piena di ritmo e di colore e indubbiamente molto musicale…infatti oltre alle losanghe del costume di Arlecchino, riconosciamo anche la chitarra, altro ospite amatissimo della pittura di Picasso.
P. PICASSO, Arlecchino musicista, 1924, Washington, National Gallery of Art
Il soggetto della Commedia dell’Arte è ripreso in numerose altre opere, in esso Picasso rispecchia la contraddizione esistenziale dell’uomo che appare in un modo ma è intimamente qualcos’altro; per questo la scelta di Arlecchino, personaggio da commedia, maschera polivalente, indossata da fanciulli e giovani uomini tristi ma mai stanchi di pensare.
L’ultima visione di questo post è quella di un altro grande artista spagnolo, Juan Mirò: il Carnevale di Arlecchino. Opera surrealista, che esplora la dimensione del sogno, realizzata attraverso automatismi psichici, ossia con un trasferimento diretto e non ragionato nelle forme simboliche visive così come l’inconscio suggerisce. Tra l’opera di Mirò e quella di Bruegel c’è indubbia affinità: uso libero della fantasia, giocosa disposizione di simboli e figure enigmatiche, scelta di evadere verso la dimensione del sogno…o dell’incubo.
J. MIRO’, Il Carnevale di Arlecchino, 1925, Albright-Knox Art Gallery di Buffalo
In questi freddi giorni di inizio Gennaio molte zone del nostro Paese sono ricoperte di neve. Venti gelidi spirano un po’ ovunque trasformando i nostri consueti paesaggi, rendendoli qualche volta magici, in ogni caso diversi.
Dipingere paesaggi innevati è una prova notevole, si tratta di un soggetto rappresentato raramente prima del XIX secolo, quando l’incanto delle nevicate diventa poetica visione per molti maestri della pittura.
In precedenza, nelle rappresentazioni artistiche la bianca coltre che caratterizza la stagione invernale era trattata poco frequentemente e con difficoltà, infatti spesso nelle opere più antiche appare come la neve fittizia del presepe di un dilettante fatta con della farina. La neve non è infatti semplicemente bianca, è fatta di cristalli di ghiaccio che riflettono la luce e i colori circostanti per cui è necessario impiegare cromie audaci, fondate sull’osservazione della luce delle sue variazioni, aspetti curati particolarmente da Monet e dagli altri impressionisti.
Tuttavia anche nei secoli precedenti alcuni artisti coraggiosi si sono cimentati con le visioni invernali; indimenticabile è la pagina di “Febbraio” dalle Très Riches Heures du Duc de Berry , uno dei manoscritti più famosi del gotico internazionale, in cui i fratelli Limbourg, uniscono alla funzione religiosa quella narrativa, raccontando, come in una novella di Boccaccio o Chaucer, scene di genere e brani di vita dei campi in cui uomini e bestie cercano di sopravvivere al gelido inverno imperante su di un paesaggio imbiancato che sullo sfondo si fa cartolina di Natale ante litteram.
Febbraio, Fratelli Limbourg, 1412-16 ca., Musée Condé di Chantilly
Altri mirabili paesaggi innevati sono quelli rappresentati da Pieter Brueguel il Vecchio, un esempio è la splendida Caccia nella neve del 1565, in cui l’ampio panorama olandese è animato da innumerevoli figurine umane e animali in azione, con una linearità elegante, specialmente nel brano del volo dell’uccello nero o nella trattazione degli elementi vegetali spogli, alberi e arbusti. Le distese di neve candide sono messe in rilievo grazie alla preziosa e calda cromia delle case, dei cani e dei cacciatori che fa da contraltare al grigio-azzurro metallico del cielo e degli specchi d’acqua.
Pieter Brueguel il Vecchio, Cacciatori nella neve, 1565
Potremmo ricordare altri notevoli dipinti invernali opera di Rembrandt, Turner, Friedrich e Courbet -solo per citare i più famosi- ma a mio parere la rivoluzione nella trattazione degli elementi meteorologici avviene proprio con gli Impressionisti e con Monet in particolare. L’artista aderì completamente alla pratica della pittura en plein air e il suo obiettivo principale e infaticabilmente perseguito era quello di cogliere gli effetti mutevoli della natura. I testimoni della sua epoca lo ricordano imperterrito sotto le intemperie, alla ricerca di un raggio di luce, di un riflesso, di un’ombra colorata. E ai suoi discepoli consigliava:
“…cercate di dimenticare quali oggetti avete davanti, un albero, un campo…Pensate soltanto, quì c’è una macchia rosa, quì una striscia di giallo, e dipingeteli proprio come vi appaiono, l’esatto colore e l’esatta forma, finché non vi restituiscono l’impressione genuina della scena che avete dinanzi.”
Claude Monet, Il calesse. Strada coperta di neve a Honfleur, 1867, Parigi, Museo d’Orsay
In questa delicata rappresentazione invernale le figure umane attraversano in calesse la strada innevata di Honfleur, il cielo che a uno sguardo superficiale appare bianco, è realizzato con un fondo di terra calda e luminosa che dona la sensazione della luce del sole velata dalle nuvole, la neve sul paesaggio e sui tetti riflette più chiara le stesse tonalità, rese abbaglianti dalla presenza in contrasto della terra d’ombra usata per la vegetazione, il carro e le case contadine. Il manto nevoso non è uniforme e la sua variabilità non è determinata dalla sola presenza delle ombre come accadeva nel dipinto di Bruegel ma è in funzione delle interazioni luminose, del contrasto di zone calde e fredde. La materia è trattata con pennellate brevi e rapide e il risultato è un’immagine graficamente e cromaticamente armoniosa.
Claude Monet, Effet de neige à Falaise, 1886
Monet lavorò a diverse opere dedicate all’osservazione dei paesaggi invernali, le sue numerose interpretazioni evidenziano una profonda sensibilità, una capacità di guardare la natura in modo nuovo, un modo che ha molta affinità con la poesia di Giovanni Pascoli.
Nevicata
Nevica: l’aria brulica di bianco;
la terra è bianca, neve sopra neve;
gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:
cade del bianco sopra un tonfo lieve.
E le ventate soffiano di schianto
E per le vie mulina la bufera:
passano bimbi: un balbettìo di pianto;
passa una madre: passa una preghiera.
G. Pascoli da Myricae
Il tema della neve ha un forte richiamo alla poetica del Fanciullino e del Simbolismo più in generale, la natura viene osservata con un approccio irrazionale e infantile, e i suoi elementi vengono rappresentati non per come sono oggettivamente ma come l’artista/il poeta li sente soggettivamente.
Monet in Effet de neige à Falaise lascia che la materia pittorica vibri di indeterminatezza, il paesaggio è suggerito, la vegetazione si fonde nel paesaggio come sferzata dal vento, i colori destano un senso di freddo e di isolamento.
Monet, Neve ad Argenteuil, 1873, Tokyo
Isolamento che persiste anche nelle figure umane in lento cammino sui sentieri innevati della cittadina di Argenteuil, dove Monet soggiornò a lungo, a partire dal 1871, con la sua famiglia. Quì pure il vago chiarore dell’atmosfera invernale filtra attraverso la neve che dona una tonalità delicatamente rosata ed una sensazione di pacato silenzio, quasi si potessero sentire i passi lievi e ovattati sulla neve.
Monet, Le Givre, 1880, Museé d’Orsay
Ma è la magia del colore e del segno della pennellata a definire le visioni invernali di Monet. Quì più che altrove l’indefinito lascia spazio alle sensazioni, come nella lirica di Pascoli vi è qualcosa di irregolare, una creazione sempre più caotica, capace di stimolare l’immaginazione, di toccare ricordi lontani e frammentari ma tuttavia significativi.
Nell’ultimo dipinto le variazioni sul bianco sono minime, il cammino verso l’astrattismo è ormai avanzato, Monet ha sviluppato gli aspetti espressivi e simbolici della sua pittura che ha ormai smesso di essere cattura di un momento di realtà ed è divenuta percorso di ricerca della verità e del senso.
Dante non è solo un grandissimo autore della letteratura di tutti i tempi, è anche il reale protagonista della Divina Commedia, il personaggio-poeta che ascende dalla perdizione della selva oscura alle visioni di incomparabile beatitudine del Paradiso. Come personaggio narrativo Dante è stato largamente “raccontato” anche in numerose opere d’arte visuale. Vogliamo provare a ricordare alcune versioni e tematiche rappresentate nel tempo a cominciare dalla descrizione delle tre bestie che ostacolano il cammino del nostro Dante nella selva oscura.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
Inferno, I, 31-54
Siamo nel canto proemiale dell’Inferno, Dante è stanco e provato dai tentativi di ritrovare la strada per uscire dalla selva che rappresenta allegoricamente il luogo del peccato. La notte è al termine, il poeta è rincuorato nel vedere il colle verso cui si è incamminato che comincia a illuminarsi dei primi raggi del Sole, la speranza della salvezza però viene ricacciata indietro dalla paurosa vista di tre mostruose belve: una lonza, un leone e una lupa.
SANDRO BOTTICELLI, Le tre bestie, 1480 ca.
Tra i primi artisti che hanno illustrato un’edizione a stampa della Divina Commedia vi è Sandro Botticelli. Le prime immagini che si affacciano alla memoria sono le ineffabili immagini muliebri della Primavera e della Nascita di Venere; la loro idealizzazione assoluta, il loro essere creature perfette e appartenenti al mondo delle idee neoplatoniche, oscurano aspetti dell’arte botticelliana di eguale importanza.
Divisa tra i Musei Vaticani e i Musei statali di Berlino abbiamo un’ampia collezione grafica da cui emerge un Botticelli dalla linea espressiva incisiva, capace di narrare il testo dantesco attraverso una tecnica che prelude a quella dei moderni fumetti. Nella stessa illustrazione Dante appare prima immerso nell’intricata selva, poi incontra le diverse bestie esprimendo con il gesto delle braccia vari gradi di paura fino alla fuga disperata dalla lupa che lo sospinge nuovamente verso la selva e verso la sua guida attraverso l’Inferno: il savio Virgilio.
Il delicato maestro fiorentino riprende la modalità illustrativa dalle miniature medievali ma le modalità espressive sono moderne, il tratto descrive con cura le emozioni del poeta dapprima pensoso e afflitto poi sempre più terrorizzato. Inoltre, nelle miniature precedenti non è presente l’attenzione al dato naturale, nel disegno di Botticelli invece sono chiaramente riconoscibili le essenze arboree che costituiscono la fitta foresta e le bestie sono tracciate con notevole naturalismo, distinguibili tra loro e delineate secondo l’indiscutibile conoscenza delle loro fattezze reali. La lupa poteva infatti essere nota ma difficilmente era possibile osservare leoni o ghepardi se non tramite opere di altri autori o in occasione di qualche esposizione di animali esotici come accadeva alla corte di qualche signore dell’epoca. Tuttavia un artista medievale non si sarebbe preoccupato di rendere il dato reale come invece era normale per un artista del Rinascimento.
L’opera di Dante è una delle più lette non solo in Toscana e negli stati presenti nella penisola italica, nella seconda metà del Cinquecento Jan van der Straet, artista formatosi in area fiamminga, opera a Firenze al servizio della famiglia Medici e realizza una cospicua serie di illustrazioni della Divina Commedia.
J. VAN DER STRAET, Le tre bestie
In quella relativa all’incontro con le tre bestie abbiamo una buona ricostruzione dell’ambiente così come emerge dalla descrizione del poeta che dice di trovarsi tra la selva avvolta dalle tenebre e il colle illuminato dai primi raggi dell’alba. Il chiaroscuro nei toni delle terre e le lumeggiature creano un gioco di volumi maggiore rispetto alla scelta bidimensionale di Botticelli, ma la scelta dell’artista di Bruges è comunque orientata verso un’immagine meno drammatica e meno attenta al dato naturalistico per quanto sia comunque possibile distinguere le bestie tra loro.
W. BLAKE, Dante fugge dalle tre bestie, 1824-27
L’attenzione all’opera di Dante è molto presente nella cultura anglosassone, soprattutto a partire dal XVIII secolo, quando, seguendo i consigli di John Locke, molti gentiluomini si avvicinano alla cultura italiana, spesso in modo diretto ma ancora più spesso seguendo indicazioni autorevoli come quelle di Richardson che ponevano l’opera di Dante ai vertici dell’ingegno creativo italico, al pari solo di Michelangelo per le arti visive.
Un esempio di notevole originalità è quello di William Blake, tra i più evocativi e singolari artisti del Romanticismo. Egli considerava Michelangelo l’artista supremo e probabilmente l’idea di illustrare alcuni episodi del poema dantesco gli venne proprio dallo studio del grande artista della stagione rinascimentale. Certo nelle sue rappresentazioni della Divina Commedia c’è molto di più, le bestie, nel caso in esame, non sono solo simboli del peccato, sono antropomorfiche, hanno occhi grandi che sembrano pozzi sull’Inferno ormai vicino, e sono uomini privi però di umanità, similmente a quanto accade nel Nabucodonosor ma ad uno stadio più avanzato.
W. BLAKE, Nabucodonosor, 1795
Blake lavorò alle incisioni per la Divina Commedia negli ultimi anni, ebbe modo di terminare solo sette incisioni ma lasciò un centinaio di disegni, molti completati con acquerelli dai colori vibranti e con una tecnica originalissima. Del resto anche i suoi metodi di incisione restano avvolti nel mistero, lo stesso artista affermava di aver avuto una rivelazione a tal proposito dal fratello morto. In ogni caso egli univa alle immagini la parte testuale e ritoccava a mano tutte le stampe, usava pigmenti molto densi realizzati con una base di colla per falegnami con risultati obiettivamente molto particolari.
Centrale nell’opera di Blake, e in generale nel suo pensiero, è una vera e propria lotta contro la ragione che egli identifica in una sorta di demone, Urizen, e le bestie della rappresentazione in oggetto ne sono in un certo senso l’emanazione, perchè Blake, poeta oltre che pittore, vede in Dante un proprio fratello, un proprio omologo intento a fuggire i vizi e le passioni che lo allontanano dalla dimensione creativa dell’innocenza.
Le bestie-simbolo compaiono anche in una seconda illustrazione: quella relativa al secondo Canto dell’Inferno e alla missione di Virgilio.
W. BLAKE, La missione di Virgilio, 1824-27
Immagine sicuramente più complessa e visionaria della precedente in cui Blake tenta di rappresentare tutti i contenuti del canto, nel modo più ampio possibile. La straordinaria ricchezza di dettagli e colori, così come l’innegabile attenzione alla composizione, fanno di questo pezzo, anche osservandolo da un punto di vista informale, uno dei più suggestivi da vedere in tutta la serie. Le bestie, così concrete e materiche nella prima illustrazione, quì si confondono con la vegetazione e non incutono più timore a Dante pronto a seguire Virgilio nella sua missione di conoscenza e ascesi.
J-B. C. COROT, Dante e Virgilio, 1859
E’ stupefacente constatare come anche un artista della stagione del Naturalismo, quale Corot, osservi con attenzione il poema dantesco e ne tragga ispirazione per un’opera da presentare al Salon del 1859. Le belve si fanno più naturalistiche che mai, ma vi è anche un’acuta espressione dei sentimenti e delle emozioni: lo sguardo terrorizzato di Dante, il suo ritrarsi e il gesto eloquente di Virgilio, che qui veste come un patrizio dell’Antica Roma ed è coronato dell’alloro poetico. L’ombra dell’autore dell’Eneide rappresenta la sapienza umana, quella che permetterà a Dante di attraversare l’Inferno, riconoscere i propri peccati ed espiarli successivamente superando infine la vetta del Purgatorio, luogo dove la ragione non è più sufficiente e occorre una nuova guida: Beatrice.
G. DORE’, La lupa, 1860
Il più grande narratore della Divina Commedia resta tuttavia Gustave Doré. Le sue incisioni accompagnano il poema ad ogni passaggio e difficilmente potremmo immaginare un corredo illustrativo migliore. La resa della selva è magnifica, la vegetazione è intricata e pericolosamente avvolgente, il tratto si adegua alla materia da rappresentare e lo spirito narrativo trasforma il poema in un romanzo, adattondolo al gusto del XIX secolo.
G. DORE’, Il Leone
Il leone di Doré non potrebbe essere più superbo, con la sua folta criniera e il suo essere collocato in alto, tra rocce e rovi, mentre fronteggia Dante mesto nella sua paura, incorniciato dalle radici spettrali degli alberi.
La lupa nell’immagine precedente è invece magra come nella descrizione della Divina Commedia e bramosa di divorare ogni bene, simbolo dell’avidità da cui scaturiscono tutti i mali. Ed infatti il poeta non può difendersi da essa, perde ogni speranza e solo l’intervento di Virgilio gli restituisce fiducia. La speranza è qui simboleggiata dalla luce dell’alba che si intravede oltre la selva. Ma come sappiamo altro è il viaggio che Dante deve ancora compiere in compagnia di Virgilio e l’entrata dell’Inferno non può che essere nell’angolo più cupo della foresta.
Quando finalmente i vigili del fuoco ebbero sfondato la porta, l’odore, che fino a quel momento era filtrato attraverso gli spiragli, si diffuse per tutto il pianerottolo. La signora Lotti, che abitava nell’appartamento di fianco, fece un passo indietro; i volontari della Misericordia entrarono con la barella; Lorella strinse il braccio di suor Maria Consolazione.
ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)