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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (Prima parte)

Una grande DONNA e una grande ARTISTA: TAMARA!

Sul Parnaso

 “LA REGINA DELL’ARTDÉCO”

di Filippo Musumeci

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Ho provato le febbricitanti passioni, le spasmodiche pulsioni, le indomabili trepidazioni. E tutto ciò per una creatura nobile, una donna eccentrica, un’artista sublime.

Invaghirsi di una “Gran Dama” di vocazione internazionalistica e di labile identità; di colei che incarnò la raffinatezza blasonata dell’Art Déco, la fece propria e la riscrisse con l’inconfondibile charme del suo glamour, fino a divenirne la rappresentazione iconica più autentica. Non è un azzardo dichiarare come l’Art Déco sia nata con lei e in lei dimorò per tutto il corso della sua costellata e osannata esistenza, lunga un ottantennio.

Una russo-polacca bianca “anticomunista” che della sua dichiarata bisessualità, della sua natura trasgressiva, del suo dandysmo declinato al femminile ne fece l’anticonformistico vanto della propria libertà intellettuale, creativa e socio-culturale. Nessuno seppe sottrarsi all’incantesimo della sua eleganza: Imperatori, zaristi, nobili magnati, collezionisti e galleristi fecero a…

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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (parte sesta). Sacre visioni. I soggetti religiosi e devozionali della “polacca”

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO”

(parte sesta)

Sacre visioni. I soggetti religiosi e devozionali della “polacca”

 di Filippo Musumeci

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Come si è avuto modo di appurare negli articoli precedenti, di Tamara de Lempicka si ha un’immagine ormai da tempo collaudata, vale a dire quella di un’artista dandy, trasgressiva, egocentrica e anticonformista. Una donna senza regole portata, per inclinazione naturale, a fissare nuove regole e a imporle disinvoltamente al gusto del tempo. Eppure, magari non tutti sono al corrente di una produzione figurativa più intima, raccolta e convenzionale della “polacca”, pianificata a inizi anni Venti dopo l’apprendistato parigino presso Maurice Denis e André Lhote: soggetti religiosi, perlopiù mariani o d’apres di capolavori michelangioleschi e berniniani, di un’umanità commossa, ma per cui non venne meno quell’equilibrato binomio intimismo-seduzione, già riscontrato nei dipinti aventi per modella la figlia Kizette. Una Lempicka credente non praticante? Dalle indagini condotte da Gioia Mori, pare di sì! Ma al di là di una probabile fede mai platealmente manifesta, bensì celata a sguardi indiscreti, il tema sacro rappresenta da sempre una tradizione iconografica con la quale ogni artista, nel corso dei secoli, ha voluto misurare il proprio virtuosismo stilistico e ideologico. Una palestra, insomma, con la quale testare il talento ereditato e la maturità acquisita, poiché non è banalmente una semplice questione di fede o ateismo, di “credo – non credo”, piuttosto, una tappa obbligata nel percorso formativo e sperimentale dell’artista. “Arte tout court”, in parole povere! Nel caso di Tamara, poi, scavando nella sua biografia emerge un malessere interiore affiorato nel 1928, a seguito del divorzio dal primo marito Tadeusz Lempicki Junozsa. Un profondo stato depressivo con il quale l’artista farà i conti, a più fase alterne, per oltre un decennio, tanto da spingere nel 1936 il secondo marito, il barone Raoul Kuffner de Dioszegh, a rivolgersi a uno psichiatra svizzero per colmare il vuoto esistenziale vissuto dalla nostra. Come non è neppure un caso che il corpus dei soggetti sacri sia stato realizzato dalla pittrice specie nel terzo decennio del Novecento: l’età aurea che ne decretò la fama internazionale e l’ingresso nell’Olimpo delle personalità illustri del modernismo come l’indiscussa “Regina dell’Art Déco”. Un’ipotesi affascinante quella di una Lempicka segreta, intima e disincantata, lungi dal glamour attraverso il quale la stessa aveva saputo ammaliare il proprio pubblico più affezionato e, adesso, discretamente votata a un filone tematico quale custode di fragilità recondite. Il confine sacro – profano, evidenziato in questa sezione produttiva, ha il suo antesignano in “Maternità”, un dipinto del 1922 memore della lezione simbolista di Denis, da cui la pittrice recupera in modo eloquente certe soluzioni formali, senza giungere, tuttavia, alla delicatezza evanescente delle figure del maestro e mostrando, altresì, alcune incertezze nella resa dei particolari anatomici: lo scorcio della Vergine e del Bambino che si staglia da uno sfondo monocromo terrigno per mezzo della netta linea di contorno ritmicamente spezzata, atta a definire la struttura ovale dei volti anonimi del gruppo mariano; il tratto sommario del corpo di Gesù Bambino nonché quello virgolettato della palpebra, della bocca e delle mani di Maria.

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Questa è avvolta in un manto azzurro lumeggiato con grumi di colore e accompagnato da un velo bianco con sfumatura azzurrognole mediante i quali controbilanciare le tonalità brunastre del fondale e degli incarnati. L’impianto compositivo d’insieme ruota attorno all’amplesso totalizzante in cui, come ricorda Gioia Mori, «è raccolta tutta la potente energia dell’esclusivo rapporto tra la madre e il piccolo», in una forma ellittica funzionale a trasfigurare il soggetto in una moderna icona sacra, quale emblema e summa del tema iconografico della maternità. La cultura figurativa di Tamara si evince anche dalla scelta della cromia della veste e del velo della Vergine: il primario blu e il neutro bianco sono le tue tinte per antonomasia dell’iconografia mariana quale simbolo, rispettivamente, di umanità e purezza, attributi, questi, dell’Immacolata Concezione. Il binomio sacro – profano si evince in altri splendidi lavori, come ne “Il velo verde” del 1924: libera rielaborazione dell’ “Odalisca” di Brera di Francesco Hayez del 1867, documentato, tra l’altro, dal d’apres “Odalisca” di collezione privata e databile sempre al 1924 circa. La fonte “profana” de “Il velo verde” è indizio, ancora una volta, del nutrito bagaglio culturale posseduto dalla Lempicka e della costante tendenza alla reinterpretazione dei soggetti tradizionali, riaggiornandone, di volta in volta, lo spirito con sapiente vigore espressivo e rinnovata freschezza stilistica.

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Una Vergine dal manto verde, anziché azzurro, già di per sé un’operazione agli antipodi rispetto all’iconografia sacra, poiché la scelta del secondario verde qualifica il contenuto del soggetto: una Madre “terrena”, o meglio, una Donna “angelica” dichiaratamente mortale, seppur in estasi mistica, sensualmente carnale e seducente per via di alcuni espedienti, come lo sguardo orante, la scriminatura orientale dei capelli e quelle labbra… ah, quelle labbra!! Così “dannatamente” belle e carnose da volerle prendere a morsi e indurre al peccato (s’intenda, veniale!). Deliberatamente incantato da questo piccolo capolavoro, e senza comprenderne appieno la misteriosa causa, rimembro come nel marzo 2015 trovandomi al suo cospetto riaffiorarono nella mia mente questi versi: «due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano». Chissà! Forse perché, nonostante quest’odalisca moderna nulla abbia in comune con “La Lupa” verghiana, gli effetti sensoriali provocati dalla visione di codesta aggraziata effigie sono consimili a quelli imposti al lettore dallo scrittore verista. Mi piace pensare che Tamara sia contenta di queste pulsioni e di aver condotto per mano l’osservatore alla messa in scena degli umani sensi. Del tutto laica è invece “Maternità” del 1928 di collezione privata, ove l’indissolubile legame madre – figlio è sintetizzato nell’atto naturale e commovente, allo stesso tempo, dell’allattamento, il quale prescinde da discriminazioni sociali ed equipara l’universo femminile in quel sentimento materno che non conosce principio, poiché innato.

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Al 1931 risale l’olio su compensato di piccolo formato “Vergine col Bambino”, opera della maturità ove il rapporto madre-figlio è trasfigurato in un’icona moderna intrisa di intimismo e sensualità. Il volto di Maria ricorda i connotati fisiognomici di madame Ira Perrot, amante, musa e modella della pittrice dal 1921, immortalati da questa in numerosi dipinti, specie per il naso alla francese e per la fossetta al mento; mentre il Bambino dormiente ha il capo protetto da una deliziosa cuffietta di cotone lavorata a mano «quasi una domestica aureola» (Gioia Mori) di sapore laico.

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La resa delle mani, poi, sono un superbo saggio del virtuosismo ormai pienamente acquisito da Tamara, smentendo, in tal modo, le critiche poco lusinghiere avanzate nello stesso 1931 da Berthélot, il quale parlò di difetti e malformazioni delle mani forgiate dalla pittrice a guisa di elementi meccanici dalle giunture d’acciaio. Altri tre deliziosi capolavori di piccolo formato sono “Madonnina” e “Vergine blu” del 1934 e il tondo con “Madonna” del 1937. Il secondo di questi, “Vergine blu”, fu presentato al Salon des Tuileries del 1934 e da subito acquistato dal collezionista catanese Gino Puglisi, prima di essere battuto all’asta romana Finarte nel 1994 e trovare nuova ubicazione in altra collezione privata italiana.

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Il modello dell’opera pare sia stato il volto mariano della Pietà vaticana michelangiolesca, particolarmente amato e studiato negli anni Trenta dalla pittrice, la quale realizzò nel 1937 anche un d’apres della Sibilla Libica della Sistina.

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Tuttavia, secondo Gioia Mori, non è da escludere il ricordo delle Madonne lignee russe e boeme viste dalla pittrice negli anni giovanili trascorsi in Russia o in Cecoslovacchia nei primi soggiorni presso il barone Raoul Kuffner. Un volto mariano incorniciato da un leggero velo blu lumeggiato, ma trasfigurato in un volto profano fortemente umanizzato, come per altri precedenti, per mezzo di particolari accessori: gli occhi allungati dal taglio orientale, le labbra accese di rosso dal rossetto e le sopracciglia sottili e appena accennate, quasi fossero disegnate con una matita da trucco. De Charnage nel 1934 parlò di resa “metallica” della figura, comune ad altre opere di questi stessi anni, e François Rubadeau Dumas, invece, di opere realizzate “con metallo fuso”. Un’icona di “glaciale fermezza”, dunque, per concludere con un’altra espressione di Gioia Mori, per la quale la Lempicka rievoca il mondo minerale mediante l’incarnato perlaceo e la preziosità del blu lapislazzulo. Alla pittrice si devono anche alcune figure devozionali di giovani fanciulle raccolte in preghiera, ma dotate della stessa carica seduttiva succitata, nonostante il loro atteggiamento dimesso, come ne “La Messa” (meglio noto come “La polacca”) del 1933 e nella “Giovane contadina che prega” del 1937.

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Del primo lavoro, la pittrice realizzò due versioni per le quali posò la figlia Kizette: la prima esposta al Salon des Tuileries del 1933 con il titolo “Polonaise” (“Polacca”), poi nel settembre dello stesso anno a New York con il titolo “Paysanne” (“Contadina”) e acquistato per 5000 franchi da Monsieur Léger, ambasciatore francese in Canada; la seconda, invece, con il titolo “La messe” (“La messa”), fu realizzata su insistente pressione del collezionista catanese Gino Puglisi, come si evince da due lettere spedite da Tamara a questi nella città etnea, rispettivamente l’11 settembre 1933 e il 22 giugno 1934. Nella prima lettera, spedita dal lago di Como, la pittrice informa il collezionista di lavorare alla seconda versione de “La messa”, mentre nella seconda, spedita da Zurigo, comunica allo stesso di averla terminata: «Gentile Signore. /Ho finito un quadro preciso / à “la messe” lo stesse dimensioni, /colori, composizione etc.» (si riportano anche gli errori di ortografia della Lempicka). L’acquatinta su carta esposta all’antologica torinese si pone proprio come studio preparatorio della seconda versione realizzata per il Puglisi, e rispetto alla prima versione presenta alcune differenze: gli occhi rivolti al cielo, una diversa inclinazione del volto e una diversa apertura del messale, l’assenza dell’anello all’anulare e del rosario a grani grossi. Kizette, in entrambe le versioni, indossa sul capo il tipico scialle polacco a motivi floreali, il quale ne risalta maggiormente gli incantevoli lineamenti già indagati nella parte quinta del nostro viaggio. “Giovane contadina che prega” del 1937 è un’altra immagine devozionale di Kizette assorta in preghiera, in cui il tono popolare è sintetizzato dal foulard blu lapislazzulo a motivi geometrici in bianco, in accordo con la camicetta sbottonata. A Tamara bastano davvero pochi elementi per creare quell’equilibrio perfetto, già affrontato nel precedente saggio (parte quinta), tra innocenza e malizia. I santi, poi, sono altrettante immagini devozionali memori della ritrattistica fiamminga e della teatralità barocca, per le quali la pittrice gioca sulle icone di devozione popolare, come per il “Sant’Antonio II” del 1979, il d’apres, come per la “Santa Teresa d’Avila” berniniana del 1940, e la libera rielaborazione della statuaria policroma di fine XVI secolo di Gaspar Núñez Delgado, come per il “San Giovanni Battista” decollato del 1936.

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Quest’ultimo lavoro fu realizzato durante quel periodo di profondo stato depressivo vissuto dalla Lempicka, come testimonia una lettera a Gino Puglisi spedita il 5 giugno 1936 da Monte Verità, vicino Ascona, sul lago Maggiore: «un essere infelice, tormentato, senza patria, senza casa, sempre sola!». Il critico Bazin notava come l’opera dovesse la sua fonte, come già detto, alla statuaria policroma tardo-cinquecentesca e barocca, con diretti richiami alla “Testa di San Giovanni Battista” di Núñez Delgado del 1591. Tuttavia, Gioia Mori non esclude un ricordo della Testa di San Giovanni Battista” del pittore lombardo cinquecentesco Andrea Solario, e le cupe apparizioni provenienti dal reame dei sogni del simbolista francese Odilon Redon, come per la “Testa di martire” del 1877.

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Nel dipinto della Lempicka la testa del Battista, citando la Mori, «vaga in uno spazio nero percorso da grigie striature, come fossero nuvole che vagano in un cielo notturno». Il capo appena decapitato con gli zampilli di sangue dovuti al macabro martirio voluto da Erode il Grande, la bocca aperta nell’ultimo soffio di vita, gli occhi chiusi e infossati, i capelli fluenti e la barba dai riccioli composti. Esposto negli State nelle quattro mostre che la pittrice tenne nel 1941-42, il dipinto fu elogiato per la perizia tecnica e virtuosistica. Durante il secondo conflitto mondiale la Lempicka fu impegnata in campagne benefiche che culminarono nell’arruolamento negli Women’s Emergency Corps nel febbraio 1942, con il grado di Staff Sergeant e capo del Dipartimento educativo. Ciò getta uno sguardo nuovo sulle cause da cui scaturirono i soggetti più intimamente commoventi e devozionali della produzione della pittrice. Ancora la Mori sostiene che: «i dipinti degli anni Trenta dedicati ai ‘vinti’, agli umiliati, ai sofferenti, ai santi, alle donne in fuga e alle suore piangenti assumono una dimensione meno personale di quanto solitamente si pensi: non nascono solo dalla depressione di cui la Lempicka soffrì a lungo, ma indicano quanto fosse in lei primario e urgente il rapporto con il mood del proprio tempo, quanto ne sia stata un’interprete efficace, sia nel caso degli spensierati e vitali anni Venti, sia nel caso dei difficili anni Trenta, e dei tragici anni di guerra». In questo scenario, dunque, il dipinto “La fuite” (“La fuga”) del 1940 assume un messaggio contenutistico di estrema chiarezza, poiché nato a seguito dell’occupazione nazista della Polonia del 1° settembre 1939. L’opera avrebbe le sue fonti nei reportage fotografici dell’Europa dell’Est, in cui è documentata la fuga di civili dalle città occupate, come nella “Strage degli innocenti” di Guido Reni (1611, Bologna, Pinacoteca Nazionale), e venne impiegata assieme al celeberrimo “Madre superiora” per la campagna promozionale di stampa della monografica “Tamara de Lempicka (Baroness de Kuffner)” presso la Julien Levy Gallery di New York nell’aprile 1941.

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Il “San Francisco Call Bulletin”, comunque, espresse un giudizio aspramente negativo circa le soluzioni formali del soggetto nell’articolo “Lempicka Art at Courvoiseir” pubblicato l’8 settembre dello stesso anno, dichiarando che: «il risultato è efficace, ma pantomimico, gli occhi della donna sono di colore rosso, ma non di pianto», accusando, quindi, l’opera di finzione cinematografica. Sarà!! Ma il volto della donna, chiusa nel suo abbraccio protettivo e con lo sguardo contrito di dolore, è un’immagine della sofferenza che commuove e induce a riflettere sulla barbarie umana e sulla brama di potere da cui essa scaturisce. Ma indubbiamente, l’opera alla quale Tamara fu più legata, tanto da non volerla mai mettere in vendita, ma donata, poi, allo Stato francese solo nel 1976, è “Madre superiora” del 1935, oggi custodita al Musée des Beaux-Arts di Nantes.

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Come succitato, questo piccolo capolavoro fu impiegato assieme a “La fuite” (“La fuga”) per la campagna promozionale di stampa della monografica alla Julien Levy Gallery di New York nell’aprile 1941, e per il suo iperrealismo, particolarmente manifesto, la rivista “Art Digest” dichiarerà nell’articolo del 15 aprile 1941 che la Lempicka «è specializzata nel dipingere occhi lacrimosi». Su tutt’altra lunghezza d’onda, invece, il “San Francisco Call Bulletin”, il quale non mancò nello stesso articolo, già citato, “Lempicka Art at Courvoiseir” dell’8 settembre di stroncare pesantemente l’arte della pittrice polacca, asserendo che: «per molti versi il suo lavoro è inquietante. C’è tutto uno strano contrasto tra l’austerità metallica della linea e la sentimentalità del soggetto. ‘Madre superiora’ è un cospicuo esempio di questo. È mirabilmente concepita e scrupolosamente eseguita, ma due imperdonabili lacrime di glicerina sminuiscono l’effetto d’insieme». Per non parlare, poi, del commento di “Argonaut”, nel quale si parlò addirittura di «pericolosamente vicino alla volgarità». Tuttavia, la pittrice amò sinceramente questa sua creatura, tanto che Cholly Knickerbocker nell’articolo del 1° ottobre 1958 del “New York Journal-American” pubblicherà la notizia circa il rifiuto della Lempicka di vendere il quadro nonostante l’offerta di 25000 dollari (una somma davvero esorbitante per i tempi). Divenuto ben presto fra i soggetti devozionali più noti di Tamara, il dipinto fu immortalato in un celebre scatto di Nicholas W. Orloff in occasione de “The Paderewski Testimonial Day” del 18 aprile 1941 alla Julien Levy Gallery di New York, nell’ambito della mostra succitata, ove fa da sfondo al colloquio fra la pittrice e l’istrionico Salvador Dalì.

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Un curioso aneddoto, poi, è offerto da Alice Hicks Burr sul “Los Angeles Times” del 15 maggio 1941, in cui si riporta del party in onore di George Washington Kavanagh e di Leonora Warner tenuto dalla Lempicka nella villa di King Vidor a Beverly Hills alla chiusura della mostra newyorkese, e in occasione del quale volle riservare ai suoi ospiti un’inaspettata sorpresa: «ma la camera più popolare anche rispetto al bar era la biblioteca. Qui, nel buio, le voci sono diventate silenziose quando gli ospiti hanno visto il ritratto illuminato di una suora piangente». Ma quale fu la genesi di quest’opera tanto amata dall’artista polacca? Variamente datata tra il 1935 e il 1939, Tamara stessa raccontò che il soggetto nacque durante quella fase depressiva che la travolse nel 1934-35 e di cui restano, come abbiamo avuto modo di vedere, diverse testimonianze nella corrispondenza con il collezionista Gino Puglisi. Nel 1935 la pittrice tentò di sottoporsi a una cura antidepressiva presso Salsomaggiore, ma avvinta da uno struggente stato malinconico si recò in un convento vicino Parma, ove incontrò la madre superiora, la quale, pur portando sul viso “tutta la sofferenza del mondo”, riuscì a donarle, in parte, serenità: «Soffrivo di una depressione da artista. Quando uno crea, crea, e nel creare mette tanta parte di se stesso, finisce con l’esaurirsi e diventa depresso. Ero andata in Italia per vedere di vincere la mia depressione, e li improvvisamente decisi di rinunciare a tutto, di ritirarmi in un convento e limitarmi a dipingere cose semplici. Andai in un convento presso Parma e suonai il campanello. Mi aprì una bellissima suora e le chiesi di vedere la Madre superiora. “Siediti, figlia mia”, disse. Mi sedetti su una panca dura e aspettai. Non so quanto. Poi entrai in una splendida sala rinascimentale, con il soffitto e le colonne, e li era la Madre superiora, e sulla sua faccia vi era tutta la sofferenza del mondo, così terribile a vedersi, così triste, che mi precipitai fuori dalla stanza. Avevo dimenticato il motivo per cui ero andata lì. Sapevo solo che volevo tela e pennelli e dipingere quella faccia. Ma stavamo già facendo i bagagli per l’America, il mio secondo marito, il barone ed io. Così fui costretta ad aspettare. Arrivammo a New York, Alloggiammo al Savoy Plaza, ma io avevo lo studio altrove, un vecchio polveroso studio, con un gatto, proprio come in Europa. Portai dall’albergo tela bianca e tela nera; nello studio le disposi su una vecchia poltrona che si trovava sul podio, in buona luce, e allora vidi la Madre superiora. Ero come in estasi, febbricitante. Le parlai, le dissi di voltarsi più a sinistra, e così via. Lavorai, lavorai, e lavorai, per tre settimane, e infine fu terminato. Mio marito lo mise sulla mensola del caminetto in albergo. Lo guardò a lungo, in silenzio. Poi disse: “È il migliore, credo”» (Tamara de Lempicka). Le fonti iconografiche e stilistiche dell’opera vanno individuate nella pittura fiamminga per stessa ammissione della pittrice, la quale rilascerà una dichiarazione al “Sunday Mirror” del 6 aprile 1941 in cui citerà Roger van der Weyden quale matrice ispiratrice. Bazin sostenne che: «quando ritrasse la santa donna, tra lei e il suo modello si possono vedere i numerosi ritratti di Vergine addolorata di scuola fiamminga successivi a van der Weyden». Gioia Mori ha proposto quattro possibili modelli iconografici per la “Madre superiora”: le donne dolenti della “Deposizione di Cristo” di Roger van der Weyden, la “Vergine dei dolori” della bottega di Dirck Bouts, la Vergine piangente del “Cristo morto” di Andrea Mantegna e “La veuve” (“La vedova”) del 1924 della stessa Lempicka.

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Un confronto tra quest’ultima e la “Madre superiora” dimostra, secondo la Mori, come il dolore contenuto sul volto della vedova, frutto di quella forza virile per mezzo della quale Tamara non cedette al sentimentalismo imperante, è andato perduto sul volto della suora piangente: «L’iniziale secchezza metallica sembra addolcirsi, rimane immutata solo nel trattamento del velo, e gli occhi gonfi di lacrime sono virtuosisticamente restituiti in tutta la loro acquosa trasparenza».

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 P.S. Vi diamo appuntamento alla parte settima del nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”

BIBLIOGRAFIA

 -Gioia Mori, Tamara de Lempicka. La Regina del Moderno, catalogo della mostra (Roma, Complesso del Vittoriano, 11 marzo – 10 luglio 2011), Milano, Skira, 2011.

-Gioia Mori, Tamara de Lempicka, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

-Gilles Néret, Tamara de Lempicka (1898-1980). La dea dell’epoca dell’automobile, Taschen, 1999.

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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (parte quinta) Kizette, “The Artist’s daughter” (La figlia dell’artista)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO”
(parte quinta)
Kizette, “The Artist’s daughter” (La figlia dell’artista)

di Filippo Musumeci

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Come già affrontato nella parte prima di questo nostro viaggio nel mondo della “Regina dell’Art Déco”, Tamara ebbe dal primo matrimonio con l’avvocato polacco Tadeusz Lempicki Junozsa una figlia, Marie Christine, meglio conosciuta come Kizette, nata il 16 settembre 1916.
Il rapporto madre-figlia fu alquanto tormentato: Kizette rimase per l’artista una “figlia scomoda”, mentre questa rimproverò alla madre il suo “killer instinct” per mezzo del quale antepose il suo genio creativo agli affetti. E Ciò traspare con chiarezza nella biografia dell’artista stesa dalla stessa Kizette con la collaborazione di Charles Phillips dal titolo “Passion by Design: The Art and Times of Tamara de Lempicka”, e pubblicata nel 1987.
La figlia ricorda: «Quando rientrava da una festa, a notte inoltrata, ancora eccitata e piena d’energia, a volta mi svegliava per raccontarmi degli artisti e degli scrittori famosi che aveva incontrato, dei conti e dei duchi con cui aveva danzato, delle contesse e delle duchesse che l’avevano invitata a pranzo, a cena, all’Opéra, a ancora a un’altra festa».
Inarrestabile e impetuosa, Tamara non esitava a stare sotto i riflettori da diva qual era, schivando il “dolce far niente” senza dar tregua all’inesorabile divenire, poiché per lei, racconta ancora Kizette, «Le giornate erano sempre troppo corte».
“L’istinto assassino” della “polacca” si evince con estrema lucidità in altri avvincenti passaggi della sua biografia, nei quali la figlia tradisce una certa amarezza e risentimento per quell’affetto negatole dalla madre: «Aveva le sue leggi, ed erano quelle degli anni Venti. Le interessavano soltanto quelle persone che lei chiamava ‘le migliori’: gli aristocratici, i ricchi e l’élite intellettuale. Come qualunque persona di talento, anche mia madre era convinta di meritarsi tutto ciò che il mondo poteva offrire e questo le dava la libertà di frequentare solo chi poteva aiutarla o contribuire a sviluppare il suo ego. Viveva sulla Rive Gauche, dove dovevano vivere gli artisti e detestava tutto ciò che era borghese, mediocre e ‘carino’. Indossava solo abiti di lusso per accecare il suo pubblico e creare un’aura di mistero attorno al suo passato, alla sua età, alla sua vita in Polonia e in Russia, e perfino sulla sua stessa famiglia. La ragazza polacca di buona famiglia, la sposa bambina, l’emigrante, la madre giovanissima furono inghiottite dai suoi dipinti come paraventi del camerino di una diva. Al loro posto comparve la bellezza moderna, affasciante, raffinata e persino decadente del celebre autoritratto che pochi anni dopo avrebbe dipinto per la copertina della rivista di moda Die Dame. ‘Io vivo ai margini della società’, diceva Tamara. ‘Per quelli come me le regole comuni non valgono’. Fin dal principio, mia madre aveva puntato sullo stile».
Non era invidia quella di Kizette; e neanche gelosia nei confronti di una madre talmente titanica. Era, piuttosto, un sentimento nostalgico intriso di rabbia e di profondo disincanto per quanto negatole, per quanto dovuto e non dato. Era solitudine!
La psicoanalista Melanie Klein nel suo ultimo lavoro “Sul senso di solitudine” (1960) sostenne come questa nasca da una fusione tra «la nostalgia per una comprensione che avviene senza l’uso di parole – in ultima analisi il primissimo rapporto con la madre» e l’impossibilità di accettare in modo completo il proprio bagaglio emotivo di fantasie e angosce. «Sebbene il senso di solitudine possa essere diminuito o accresciuto per influenza di fattori esterni, esso non può venir mai completamente eliminato, perché lo stimolo ad effettuare l’integrazione, con la sua intrinseca sofferenza, ha la sua origine in conflitti interni che conservano inalterata la loro forza per tutta la vita».
Le cronache riportano come Tamara, non appena giunta a New York nel maggio del 1939, arriverò persino a dichiarare alla stampa statunitense di non aver figli e di non esser madre se non delle proprie creazioni figurative. E come la prese Kizette? Non certo bene! Sapeva di essere una presenza ingombrante per una madre così coinvolta nella definizione del proprio profilo iconico, il quale necessitava di un’assoluta indipendenza sociale quanto mentale. E Tamara quest’indipendenza tanto agognata, per una serie di vicissitudini, non le fu negata! Già nel 1929, a seguito del divorzio dei genitori nell’anno precedente, la giovane Kizette, appena tredicenne, si vide costretta a vivere in collegio: il padre si era ricostruito una vita con la nuova compagna Irene Spiess, che sposerà nel 1932; Tamara, per le cause succitati, non avrebbe potuto adempiere ai suoi oneri e doveri materni.

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I rapporti, già seriamente compromessi dagli eventi, s’incrinarono inesorabilmente quando, una volta approdata negli State il 3 luglio 1940 a bordo della nave Nea Hellas, salpata da Lisbona, la figlia fu presentata al pubblico dalla pittrice in persona come la, di lei, sorella minore. La ragazza, allora ventitreenne, fece la traversata oceanica in compagnia di Louisianne Kuffner de Dioszegh, nata nel 1925, figlia del barone Raoul, ed entrambe dirette a Villa Vidor di Beverly Hills, sita al 1141 di Tower Road, presa in affitto dai baroni Kuffner fino al 1942. Ma la convivenza tra le due sorellastre durò ben poco: se Louisianne fu iscritta alla Douglas School a Pebble Beach, Kizette, con alle spalle una laurea conseguita a Oxford, si iscrisse, invece, alla Facoltà di Scienze Politiche di Stanford, gettando le basi per un’intensa vita mondana.
Di Louisianne resta oggi un ritratto di piccolo formato del 1940, ritagliato da Tamara alla morte del barone Raoul nel 1961 da una tela il cui disegno preparatorio ne prevedeva la figura intera, in realtà mai completata, e poi spedito alla ragazza come ricordo del breve periodo trascorso insieme. Dallo sfondo monocromo dai toni grigiastri si staglia l’ingenua immagine della quindicenne, impreziosita dall’elegante acconciatura con cerchietto dal fiocco bianco e retina di memoria rinascimentale che, come ricorda Gioia Mori, divenne di moda grazie alla Katie Scarlett O’Hara (in Italia il nome della protagonista fu mutato in Rossella O’Hara) di Via col vento, quando la protagonista del Kolossal, ormai caduta in disgrazia, indossava l’accessorio durante la fatica degli umili lavori.

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Louisianne, deceduta il 12 novembre 2009, dopo la morte del padre non mantenne seri rapporti con Tamara e la figlia Kizette, già piuttosto fragili per via del patrimonio del barone lapidato in breve dalla pittrice e per il titolo nobiliare di cui si fregiò la stessa, tra l’altro, come se non bastasse, usato anche in seguito da Kizette pur non essendo figlia diretta del barone Kuffner.
In poche parole, ognuno si portava dietro il proprio fardello di lacrime e rancore e Kizette non fu la sola a subire sulla propria pelle lo spirito autoritario della “polacca”.
Eppure, per ironia della sorte, la grazia fisionomica di Kizette, unita alla sua incantevole eleganza, tornarono strategicamente utili alla madre per tutto il corso degli anni Venti, divenendone ben presto modella prediletta di opere celeberrime e pluristellate dalla critica.
Tra i lavori per cui la figlia posò per la madre vi è “Portrait d’une fillette avec son ourson” (Ritratto di bambina con il suo orsacchiotto) realizzato nel 1922, vale a dire ai tempi del domicilio presso Place Wagram 1 a Parigi. Kizette, all’età di appena sei anni e in compagnia del suo orsacchiotto di peluche, presenta una posa dal taglio fotografico resa attraverso una tavolozza ridotta a poche tinte: ocra, giallo, blu, verde e avorio restituite con rapide pennellate incrociate a definire i volumi dell’infante e memori del “furor” dei fauves.

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Un’opera decisamente lontana dalle ricerche formali di lì a poco intraprese dalla Lempicka, ma senza, tuttavia, rinunciare alla carica psicologica del soggetto, che per impianto compositivo e scelta cromatica è equiparabile al dipinto del 1920 “Bambina con giocattoli” di Boris Dimitrievič Grigoriev.

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Lo stesso tema infantile del Ritratto di bambina con il suo orsacchiotto” sarà riproposto dalla Lempicka nel 1933 in “Portrait de Mademoiselle Poum Rachou” (Ritratto di Mademoiselle Poum Rachou), ove, al di là delle sorprendenti somiglianze tra la giovane modella e Kizette (ai tempi del dipinto già diciasettenne), è ripreso il particolare dell’orsacchiotto tenuto stretto al petto da Poum, ma in una veste figurativa tutta nuova tra innocenza e malizia, già largamente sperimentata dalla pittrice a inizi anni Venti nelle opere aventi per modella la figlia.

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Ne è un valido esempio “Potrait de Kizette” (Ritratto di Kizette), del 1923-24, ove la stessa appare all’interno del nuovo atelier parigino di rue Guy de Maupassant, 5: su uno sfondo mosso dalle pieghe di un tendaggio dalle spiccate tonalità di grigio posa l’innocente figura di Kizette in abitino rosa fucsia, tenuto fermo da una cintura della medesima tinta, e scarpette di vernice nera; gli occhi cerulei e i capelli biondi con taglio “à la garçonne”.

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È un ritratto alla moda, poiché la figlia di Tamara indossa un capo di abbigliamento della Maison Mignapouf, specializzata in parures per bambini, e documentato da una serie di scatti pubblicati su “L’Officiel de la Couture et de la Mode” nel marzo del 1923, dunque, contemporaneo al dipinto. La fortuna di questo modello è comprovato pure da un servizio di “Les Modes” pubblicato nel settembre dello stesso per il quale posò una piccola star del cinema anni Venti, Régine Dumien, la cui posa, acconciatura, nonché disinvolta sicurezza, sono, anche in questo caso, facilmente sovrapponibili a quelle di Kizette.

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In occasione dell’antologica “Tamara de Lempicka. La regina del moderno” al Complesso del Vittoriano di Roma (11 marzo – 10 luglio 2011), Gioia Mori, curatrice della mostra, ha condotto nuovi studi finalizzati a chiarire l’esatta cronologica esecutiva ed espositiva di un incantevole dipinto che la storiografia passata datava al 1928, anziché, com’è stato dimostrato dalla celebre studiosa, eseguito entro il 1926 ed esposto per la prima volta al Salon des Indépendants di Parigi, inaugurato il 21 gennaio 1927. Si tratta di “Kizette en rose” (Kizette in rosa): il primo di una serie di ritratti della figlia di Tamara nel quale appare il binomio “innocenza-malizia” per cui alle forme innocenti del soggetto si contrappongono gli atteggiamenti maliziosi e perversi dello stesso.

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Dagli interni di un locale – forse a Cannes, in Costa Azzurra, ove la famiglia di Tamara trascorreva le vacanze estive; oppure lo stesso atelier parigino di 5, rue Guy de Maupassant –, che si apre sul porto parigino limitrofo per mezzo della finestra sul fondale, si staglia la figura scorciata di Kizette dai tratti somatici acerbi dallo sguardo ammiccante e dalla posa già seducente. La quinta scenografica con i profili dei transatlantici trova una fonte nel dipinto “Un porto sotto la luna”, realizzato dalla pittrice nel 1924, in cui le ricerche cubiste sui volumi spaziali urbani approderanno all’equilibrio compositivo della fase matura, superbamente rappresentata dalla stagione dei nudi femminili inseriti su di uno scenario prospettico contemporaneo enfatizzato dallo sviluppo verticalistico dei grattacieli di matrice statunitense.

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Gli occhi color pervinca di Kizette hanno lasciato al momento la lettura del romanzo dalle pagine prospetticamente restituite alla visione e tenuto fermo dal braccio destro cui contribuisce il sostegno della gamba sinistra sollevata; il piede sinistro scalzo, privato della scarpetta bianca abbandonata al suolo, è tenuto fermo alla panca dalla pressione della caviglia destra. Il tutto addolcito dal colorito abbronzato della pelle delicatamente chiaroscurata su cui spicca il leggero tocco di rossetto sulle labbra e la gamma cromatica minimale dei grigi e rosa dell’abitino. Se il fine della Lempicka si era rivelato come rilettura della ritrattistica contemporanea, non poteva sfuggirle di certo l’omaggio alla moda del tempo di cui era ambasciatrice emerita. Non a caso, Kizette assume anche le vesti di indossatrice con il carrè “à la garçonne” e quell’abitino che tutto è fuorché un indumento infantile. Tutt’altro!! Si tratta di un completino femminile da tennis allora in voga, la cui gonna plissettata era già in uso da alcuni anni come capo sportivo, ma venne resa succinta nel 1926 (stesso anno del dipinto) e accompagnata da maglia lunga fermata ai fianchi da una sottile cintura, come dimostra un servizio pubblicato sulla rivista “Femina” nel maggio dello stesso anno.

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L’immagine così innovativa del soggetto indussero la critica già nel 1928 a risalire alle fonti, avanzando alcune ipotesi: un scatto fotografico o una diretta ispirazione all’opera di Marie Laurencin, “Femme au chien” del 1924-25 e custodito all’Orangerie di Parigi.

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Al di là delle possibili fonti, il successo di critica e pubblica di cui godette il dipinto fin dal suo esordio al Salon des Indépendants del 1927 è da attribuire al dinamicità e alla naturalezza della posa di Kizette che «sovvertiva infatti il tradizionale ritratto infantile, in cui i bambini appaiono bloccati in pose da adulti, rivelandosi improbabili modelli pazienti e ubbidienti» (Gioia Mori).
Ciò determina, per via diretta, una posa dal taglio fotografico maliziosamente seducente e dal carattere sottilmente erotico, quale antesignano di quel “lolitismo” letterario cantato nel 1955 dal russo Vladimir Vladimirovič Nabokov nel bestseller Lolita.
Dopo il Salon des Indèpendants del 1927, l’opera fu pubblicata dalla stampa internazionale belga, polacca e tedesca, vedendo presentata, poi, alla Galerie d’Art Moderne di Ostenda, Belgio, nell’agosto dello stesso anno e, infine, alla Galerie d’Art Decré Frères dal 17 gennaio al 17 febbraio 1928 per l’esposizione curata da Thomas Maisonneuve e a seguito della quale fu acquistata dal Musée des Beaux-Arts di Nantes per la significativa cifra di 15.000 franchi.
Fu in occasione d quest’ultima esposizione che il critico Teallendeau pubblicò un articolo il 18 gennaio, all’indomani dell’inaugurazione, sulle pagine di “Le Populaire” e nel cui finale dichiarava che se la Lempicka avesse fatto anche solo questo dipinto, meriterebbe di essere considerata una grande artista.
Un altro celeberrimo ritratto della figlia di Tamara, allora undicenne, e oggi custodito al Centre Pompidou di Parigi, è “Kizette al balcone” del 1927, esposto a giugno all’Exposition Internationale des Beaux-Arts di Bordeaux, ove fu premiato, e a novembre al Salon d’Automne assieme a un’altra meravigliosa opera, “La Bella Rafaëla” (di cui si dirà ampiamente nell’ottava parte di questo progetto). Il dipinto rappresenterà, inoltre, anche la Polonia alla ventottesima edizione della International Exhibition of Paintings di Pittsburg, Pennsylvania, del 1929.

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L’impianto compositivo è debitore di “Kizette in rosa”, la cui posa di scorcio seduta di una panca è inquadrata in un balcone della casa-atelier parigino di 5, rue Guy de Maupassant affacciato sulle antiche ferronneries da cui si scorge l’abitato nel silenzio di una scena notturna nella quale gli edifici dai tetti a spioventi sono resi, anche in questo caso, attraverso una scomposizione sapiente dei volumi architettonici di matrice cubista. Il buio della notte è appena rischiarato dalla calda illuminazione artificiale dei lampioni stradali, nonché dalle finestre illuminate dall’interno delle abitazioni e per mezzo delle quali è possibile cogliere la sommessa intimità domestica degli anonimi risiedenti. L’occhio analitico della Lempicka si spinge oltre, toccando note di assoluta poesia nel particolare della finestra aperta sul cui davanzale è stata adagiato un vasetto in terracotta con una pianta di fiorellini rossi. Altre finestre, invece, sono spente come a voler sottolineare l’attività onirica in atto entro le mura degli abitati.
Se in “Kizette in rosa” erano le tonalità dei bianchi rosa e grigi a determinare il valore tonale della tavolozza, adesso quest’ultima è affidata primariamente a quelle grigie a cui si oppongono i terrigni bruno e giallo-ocra. Nonostante la posa possa apparire a primo acchito ingessata e formalmente più composta del dipinto precedente, in realtà la mano sinistra di Kizette stretta alla ringhiera in ferro battuto e l’inclinazione del busto verso la sinistra di chi guarda, cui si contrappongono quelle inverse del capo e del piede destro, suscitano nell’osservatore una sensazione di lenta instabilità del corpo, cui fanno eco le diagonali del panneggio dell’abito grigio, anch’esse orientate verso sinistra, seguendo, in tal modo, lo sviluppo a “S” delle membra. Questo moto fisico esercita una spinta sul tessuto tale da mostrare l’incarnato levigato delle gambe oltre il ginocchio. Le labbra della modella presentano lo stesso colorito roseo di “Kizette in rosa” e persino il taglio dei biondi capelli, successivamente sostituito dalla Lempicka da un taglio più mosso, un tempo era “à la garçonne”.

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Il tendaggio alle spalle della bambina è uno schermo di sporgenze e rientranze su cui viene proiettata l’ombra del profilo, generata da una fonte luministica artificiale esterna al quadro e proveniente dall’interno dell’atelier di rue Guy de Maupassant. Ciò è lucidamente chiarito dalle ombre della panca, il cui sostegno anteriore sinistro proietta una fascia ombreggiata diagonale indicante l’esatta angolazione del punto di vista della pittrice, dunque, dell’osservatore stesso. L’armonia di grigi pervade l’intera scena ed efficacemente restituisce la sensazione di silente quiete notturna che emana la composizione, tuttavia, animata dalla scompostezza, a tratti sbarazzina e seducente, di Kizette, escludendo ogni enfasi sentimentale a favore di una freschezza dal taglio fotografico. Elogiato al Salon d’Automne del 1927 dai critici Thiébault-Sisson, Woroniecki e Lahalle e pubblicato sul numero del 7 gennaio 1928 della rivista polacca “Swiat”, l’opera rappresentò soprattutto per la giovane Kizette un’apparente ed effimera conquista.
Infatti in occasione dell’International Exhibition of Paintings di Pittsburg del 1929, Tamara non nascose l’identità della modella e la maternità fino ad allora negata alla stampa. La fonte è documentata da un articolo del “Pittsburgh Sun-Telegraph” del 13 novembre 1929 dal titolo “The Artist’s Daughter” (lo stesso utilizzato per presentarvi questa quinta parte del nostro viaggio nell’arte della Lempicka), in cui si legge: «“Kizette in balcone” ha detto di essere un ritratto di sua figlia».
La carica seduttiva di sapore “lolitiano” palesemente manifesta negli ultimi due lavori della pittrice appare solo in parte mitigata ne “La Comunanda” del 1928, ove la figlia assume una posa convenzionale e attinente al tema trattato.

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Anch’esso, come “Kizette al balcone”, il dipinto fu presentato nello stesso anno al Salon d’Automne e nel 1929 al Salon des Indèpendants e alla mostra di Poznan, in Polonia, ove venne premiato con una medaglia di bronzo in occasione delle celebrazioni per il primo decennale della nazione.
La figura scorciata di Kizette, adesso dodicenne, occupa il primo piano della scena mediante un punto di vista particolarmente ravvicinato e, per conseguenza, ristretto. La cubatura spaziale è resa per mezzo del piano dell’inginocchiatoio in velluto rosso sul quale è adagiato un libro liturgico, presumibilmente, dato il carattere sacrale del soggetto, quello delle “ore” da recitare durante la consacrazione dei sacramenti. L’armonia dei bianchi e grigi è enfatizzata dai caldi bruni dell’abbronzatura magistralmente ricreata sul morbido e levigato incarnato della comunanda Kizette, le cui labbra carnose sono rese dalla tinta squillante del rosso, capace, già da solo, di accenderne l’angelico viso inscritto nell’ovale segnato dalla cuffietta con nastrino legato sotto il mento. I volumi plastici sono restituiti dalle linee taglienti e nette del disegno privo di sfumature, in un saggio di eccellente perizia tecnica nella resa delle trasparenze del velo deliziosamente chiaroscurato. Su questi agisce la colomba bianca sospesa in volo nell’atto di sollevarne un lembo con il becco; mentre le mani giunte e gli occhi assorti nella preghiera determinano l’atteggiamento orante della fanciulla, in un’atmosfera tesa tra mistico e assenza di sentimentalismi gratuiti. Anche in questo caso, è stato proposto il binomio innocenza-malizia, esplicitato proprio dalla presenza simbolica del volatile, poiché la colomba bianca è per tradizione attributo pagano e cristiano, rispettivamente di Venere e dello Spirito Santo. François Vallon, medico, collezionista della Lempicka e critico d’arte per “La Revue due Médecin”, in un articolo del 1930 scrisse a proposito di questa presenza: «…una colomba, insidiosa messaggera di Venere, raffinata e diabolica contraffazione dello Spirito Santo, […] preannuncia, dopo il fuggitivo passaggio di Dio nel suo piccolo cuore pronto a straripare, le belle labbra amorose della donna-bambina».
Dell’opera esiste anche uno studio preparatorio in cui non compare ancora la presenza simbolica della colomba bianca e nel quale la pittrice dà prova delle proprie abilità nella tecnica del pastello nelle lumeggiature di bianco su un disegno sicuro e incisivo.

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Un’infanzia priva di candore, dunque, per cui il critico Arsène Alexandre nella recensione del Salon d’Automne del 1928, pubblicata su “Le Figaro” del 3 novembre, coniò il concetto di “ingrisme pervers” (ingrismo perverso).
Gioia Mori ha evidenziato che nelle opere della Lempicka: «Il suo universo femminile, infatti, manifesta spesso poli opposti della devozione e della perversione, e anche i volti angelici che rivolgono gli occhi imploranti al cielo sembrano in realtà rapiti in un’estasi ambigua di ascendenza barocca, o hanno atteggiamenti cosi ammiccanti da far evaporare ogni alone d’innocenza. Ma oltre agli atteggiamenti delle sue bambine, a far pensare a un’infanzia priva di candore perché “sapiente”, tenutaria forse di una conoscenza primigenia o già appesantita da dubbi cosmici, è quell’attributo che spesso compare nelle sue opere dedicate ai bambini».
L’ultimo ritratto di Tamara alla figlia, ormai quasi quarantenne, risale al 1955 nel quale l’artista polacca ne restituisce l’indiscusso fascino e l’espressione spavalda racchiusa negli occhi profondi pervinca nel rosso squillante delle labbra ancora carnose come un tempo.

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La fonte di questo piccolo formato potrebbe essere una foto scattata in occasione delle festività natalizie del 1955 trascorse con Kizette a Houston, città nella quale questa risiedeva dal 1952, al 3235 di Reba Drive. Kizette sposò nel 1942 a Las Vegas il geologo Harold Foxhall e ne diede annuncio a Tamara solo per telefono. Quest’ultima, a sua volta, impegnata nell’allestimento di un’antologica a Milwaukee, si limitò in un invito alla coppia nella villa di King Vidor a Beverly Hills.

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Tuttavia, la polacca si credeva vittima di Kizette, del marito e delle due figli, Christie e Victoria, a cui rimproverava una spiccata venalità e la continua richiesta di denaro. Risale agli anni Sessanta una caricatura eseguita da Tamara in cui confessava il suo ruolo svolto nei rapporti familiari: sdraiata sul pavimento e circondata da Kizette, dal marito e dalle due nipoti con la scritta “Money” e punti esclamativi.

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Quando Kizette morì il 16 aprile 2001 all’età di ottantacinque anni sullo “Houston Chronicle” comparve un breve articolo in cui la si ricordava come protagonista del jet set internazionale e per essere stata «The daughter of famed art deco painter Tamara del Lempicka».

P.S. Vi diamo appuntamento alla parte sesta del nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”.
BIBLIOGRAFIA

-Gioia Mori, Tamara de Lempicka. La Regina del Moderno, catalogo della mostra (Roma, Complesso del Vittoriano, 11 marzo – 10 luglio 2011), Milano, Skira, 2011.

-Gioia Mori, Tamara de Lempicka, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

-Gilles Néret, Tamara de Lempicka (1898-1980). La dea dell’epoca dell’automobile, Taschen, 1999.

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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (PARTE QUARTA)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO”

(parte quarta)

“Madame la Baroness, Modern Medievalist”:

il genere della natura morta nell’arte di Tamara de Lempicka

 

di Filippo Musumeci

TAMARA

Come si è avuto già modo di ricordare nella parte prima e seconda di questo nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”, gli esordi dell’attività figurativa della Lempicka sono documentati da un giovanile “diario figurato” di deliziosi acquerelli adolescenziali con nature morte floreali: primo genere pittorico su cui l’artista testa la propria abilità nell’indagine di oggetti “messi in posa” alla maniera fiamminga.

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Questi acerbi esperimenti di soggetto floreali realizzati ad acquerello su carta risalgono al 1907, anno in cui la giovane Tamara Rosalia Gurwik Gorska aveva circa nove anni, e investigati con perentoria ricerca almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. È il caso delle nature morte floreali “Rose” e “Una rosa”, due splendidi dipinti del 1938 nei  quali la pittrice polacca mostra le sue straordinarie capacità tecniche e l’afflato del suo lirismo. Confrontando questi due soggetti con gli stessi d’età adolescenziale si comprende come l’evanescente fragilità delle rose ha subito un processo di trasfigurazione verso una nuova solida e levigata carnosità, astutamente amplificata dallo scuro sfondo monocromo di tradizione fiamminga.

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“Annaffierei le rose con le mie lacrime per sentire il dolore delle loro spine e il rosso bacio dei loro petali”, affermava lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez.

Tamara fedele alla tradizione, dunque, seppur riletta e rimpaginata per mezzo di una bagaglio creativo sostanzialmente inesauribile e di immediata grazia. Se in “Rose” si limita a riproporre il piano d’appoggio come da manuale, in “Una rosa”, si è spinta oltre, stavolta, immaginando lo stesso nell’insolita veste di scatolina (forse lignea o, perché no, cartonata) ricoperta da una leggera velina rosata di cui riporta persino la piega dell’angolo. I petali rosso-rosato di cui si vestono le due rosaceae sono manti di seta traslucidi di linee morbide e sinuose, sotto le quali si muove un corpo che pulsa di passione e ravviva ogni diletto umore. È un’ode sopra il suo nome, Rosalia, il cui significato etimologico è “corona di rose”; è un’ode sopra il simbolo di Venere, dea dell’amore, già cantato da Anacreonte tra il VI e il V sec. a.C.

Oggi vogl’io col canto

Lodar la rosa estiva,

E la stagion che avviva

L’erba novella e il fior.

Tu, mio tesoro, intanto,

Il canto mio seconda,

E facile risponda

A’ nostri carmi Amor.

Per l’odor suo gentile

Questo vermiglio fiore

È degli Dei l’amore.

Degli uomini il piacer.

E ognor che riede Aprile,

Le Grazie verginelle

Ornan di rose belle

Il vago crin leggier.

D’Amor la Genitrice

Sembra più bella in Cielo,

Se mai fra il roseo velo

Mostra l’eburneo sen.

Fin sull’Ascrea pendice

L’educan le Camene:

De’ canti d’Ippocrene

Soggetto ognor divien.

È dolce a chi raccoglie

Le rose porporine,

Sebben le ingrate spine

Gli pungano la man:

E a chi le molli foglie

Fra palma e palma asconde

Più grato odore altronde

Aspetta forse invan.

Si spargono le cene

Di rose delicate,

E son così più grate

Le rose al saggio ancor.

E quando il tempo riede

Sacro al buon Dio Tebano,

Si versa a piena mano

Nembo di rose allor.

Senza le vaghe rose,

Qual cosa è mai gradita?

Colle rosate dita

L’Alba colora il dì.

Le Najadi vezzose

Di rose hanno le braccia;

Di rose il sen la faccia

Venere ha pur così.

Ch’è di ristoro a’ mali

La rosa io so per prova,

E che incorrotti giova

Gli estinti a conservar.

Invan spiegando l’ali

Va il tempo sul suo verde,

Ch’ella l’odor non perde

De’ giorni al trapassar.

Or sull’istessa cetra

Io ridirò cantando,

Com’ella nacque, e quando

Già dal terren spuntò.

Quel dì, che in faccia all’etra

Sulla cerulea culla

Venere ancor fanciulla

L’onda del mar mostrò,

Quel dì, che Giove, armata,

Spettacolo giocondo,

Espose al Cielo al Mondo

La Diva del saper,

Allor si vide ornata

La terra del bel fiore,

Ch’è degli Dei l’amore

Degli uomini il piacer.

Allora i Numi a gara

La pianta avventurosa

D’ambrosia rugiadosa

Presero ad irrigar:

E al buon Lièo sì cara,

La rosa porporina

Sulla nativa spina

Si vide germogliar.

(Anacreonte, “Sopra la rosa”, Ode LIII)

Quest’atto di alta poesia sarà traslato in altre nature morte in cui le rose lasceranno il posto alle calle bianche di trasparenza vitrea entro vasi di cristallo, dalle medesime qualità trasparenti, accostati a una cornice lignea dorata con foto in bianco e nero e con una tenda rossa drappeggiata sullo sfondo. Qui, Tamara ripropone le sensuali sinfonie di rossi, verdi e bianchi già abilmente composte nei ritratti di modelli degli anni Trenta (e di cui si dirà nella parte settima).

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Il genere della natura morta adottato dalla Lempicka non si limita soltanto ai soggetti floreali, bensì coinvolge anche la realtà domestica nella sua più intima e ordinaria frugalità. Ne sono esempi eloquenti le opere “La caraffa Luigi Filippo” (1923), “Natura morta con mandarini (1925 circa), “Natura morta con cavolfiore” (1925), “Natura morta” (“Il macinacaffé” 1941 circa) e “Coppa di frutta I” (Frutta su fondo nero, 1949), ove la visione lenticolare di lezione fiamminga si traduce in una solidità di volumi e una struttura compositiva equilibrata, cui fanno eco i calibratissimi accostamenti cromatici. Come afferma Gioia Mori, queste nature morte «narrano un quotidiano lento a trascorrere, dove il tempo è segnato da pasti poveri, fatti di mandarini sbucciati, arance squillanti come raggi di sole, cavolfiori dalle foglie color petrolio già di durezza metallica». 

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L’attenta riflessione sulla mimesi fiamminga giungerà a saggi virtuosistici di trompe-l’oeil, come nel già citato “Il macinacaffè” del 1941, ove l’indiscusso e superbo spessore illusionistico è esplicitato dalla brocca da cucina, resa nei suoi diversi materiali costitutivi e stagliata contro la parete di compensato, nonché dall’espediente del bianco cartiglio tenuto fermo da uno spillo di antica memoria quattro-cinquecentesca. Un cartiglio autografato dalla pittrice solo nel 1954, come dimostrato dalla brochure della mostra alle Courvoisier-Galleries di San Francisco del 1941.

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In quell’occasione, Christopher Stull, recensore del “San Francisco Chronicle”, scriveva a proposito delle capacità tecniche della pittrice polacca «Nelle sue nature morte si diverte con la durezza del metallo, con la semi-durezza del legno». E persino quell’umile strumento domestico, nella denudata crudezza della sua natura, viene qualificato per mano della Lempicka grazie alla purezza delle linee e alla perfezione delle forme. Nonostante i meriti riconosciutile dalla critica, il gusto statunitense datato anni Quaranta etichettava le nature morte della baronessa anacronistiche, quando non obsolete, facendole guadagnare l’ironico titolo di “Mme La Baroness, Modern Medievalist”.

Ciò, tuttavia, non turbò i propositi dell’artista, che, anzi, insistette per tutto l’arco del decennio successivo nel recupero del “mestiere”, cimentandosi nel trompe-l’oeil di tavole ricoperte da drappeggi dalla consistenza serica su cui fanno mostra frutti maturi o bacati, madreperle translucide e conchiglie dalla carità eroica manifesta, come ne “La conchiglia”, sempre del 1941. Uno splendido olio su tela in cui su di un drappeggio a motivi floreali sono stati adagiati, confondendosi, due conchiglie, due perle, un rametto di corallo e un bicchiere di cristallo: oggetti che per insite raffinate qualità, nonché per caratteri allegorici, sono direttamente riconducibili alla baronessa Kuffner, alla sua seduttiva femminilità, al suo dirompente charme. La composizione è tutta giocata sui toni rosa-verde-grigio con i quali si dà forza ai volumi solidi e leggerezza ai tessuti, restituendo la translucenza cromatica del guscio madreperlaceo.

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Alla produzione degli anni Quaranta appartengono anche alcuni dipinti in cui il soggetto attenzionato è quello delle mani, le quali, come afferma sempre Gioia Mori, sono: «vaganti su fondi monocromi, fluttuanti frammenti di energia». Il 5 febbraio 1940 confessa al “Los Angeles Examiner” l’intenzione di organizzare un’antologica di nature morte con unico soggetto “le mani”, concretizzatasi, poi,  solo alla fine degli anni Quaranta quale contributo a un soggetto già condotto negli anni Venti da altri artisti europei, come la polacca Maryla Lednicka, scultrice e amica di Tamara, tra le prime a creare opere con sole “mani”. Il più delle volte, sono citazioni di opere celeberrime come per “Mani e fiori” del 1949, il cui soggetto è ripreso dalle mani del ritratto raffaellesco di “Maddalena Strozzi; altre volte, invece, sono più semplicemente frutto del genio creativo della pittrice stessa, come per “Chiave e mano” del 1946 e “Mano surrealista” del 1947: la cui lirica intonazione è testimone muto di quell’inesorabile monito del divenire: “Tempus fugit cave tibi” (“Il tempo passa inesorabile, fai attenzione”).

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Le cause di tale scelta sono da ricercare nella volontà di apportare migliorie nella resa di un particolare anatomico su cui sovente la critica aveva avanzato pareri poco lusinghieri, come nel caso di Berthélot, il quale nel 1931 ritenne severamente le mani forgiate dalla pittrice simili a elementi meccanici dalle giunture d’acciaio, parlando di difetti e malformazioni. Berthélot era in torto! Non comprese appieno il valore rivoluzionario di quelle figure modellate dalla Lempicka e il messaggio di quel “metallismo”, poi, invece, compreso e magnificamente illustrato da Giancarlo Marmori nel 1977. Attraverso un’opera di contestualizzazione, sono state scoperte da Gioia Mori straordinarie consonanze tra dipinti, sculture e fotografie dal soggetto succitato. Specie la fotografia trovò nei lavori degli anni Trenta di artisti tra i quali si ricordano Berenice Abbott, André Kertész, François Kollar, Dora Maar, Gisèle Freund e Thérèse Bonney i protagonisti di un nuovo genere che qualificava l’identità di un personaggio per mezzo delle sole “mani”, ritenute per la loro riconoscibile autenticità più vere e credibili del volto umano, non di rado celato da trucchi e maschere sociali. Tra le creazioni più significative si ricorda la poesia surrealista della “Mano-conchiglia” (1934) di Dora Maar, compagna di Picasso dal 1935 al 1944, e gli scatti dello sloveno François Kollar dedicati alle mani di celebri stiliste di mode come Suzy e Agnès ed Elsa Schiaparelli.

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Alle “mani” la Lempicka, rispetto ai suoi colleghi, ha aggiunto il “calore dell’evocazione”: «se infatti nelle foto il resto del corpo viene suggerito da un ‘ombra, un dettaglio, nei dipinti della Lempicka le mani sembrano i frammenti spaesati e vaganti di un corpo dissolto, muti depositari di emozioni e sentimenti» (Gioia Mori).

P.S. Vi diamo appuntamento alla parte quinta del nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

BIBLIOGRAFIA

Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (PARTE TERZA)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO

(parte terza) 

“Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”:

l’ultima dimora parigina, il secondo soggiorno negli State

e il rifugio messicano.

 (1940-80)  

di Filippo Musumeci

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A seguito del primo soggiorno negli State negli anni 1929-31, la Lempicka decide di cambiare residenza parigina, acquistando una nuova abitazione-atelier nel palazzo progettato dall’architetto modernista Robert Mallet-Stevens al n.7 di rue Méchain. Si tratta di un grande appartamento che l’artista abiterà fino al 1939 (e, saltuariamente, dopo il secondo conflitto mondiale fino al 1976) e per i cui interni la stessa chiamò all’opera la sorella Adrienne Gorska, ormai, affermato architetto di fama europea, specie per l’ideazione di una quindicina di Cinéac: un circuito di moderne sale cinema funzionali munite di acciaio e neon, esaltate dalla stampa e pubblicate su riviste specializzate. Il nuovo spazio della Lempicka fu immaginato dalla sorella Adrienne freddo, con tubi di cromo a vista, tavolo in acciaio e silite nera, tavolini di Djo Bourgeois, sedie di René Herbst, luci di Perzel, sculture dei fratelli Martel e Chana Orloff, amica di Tamara, ed elementi di riscaldamento Mécano, definiti ultramoderni.

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Ciò è documentato dalla serie di scatti fotografici della casa-atelier realizzati di Thérèse Bonney nel 1930 circa, oltre che da un filmato eccezionale di un minuto e trenta secondi dal titolo “Un bel atelier moderne”, girato da Pathé e proiettato il 16 novembre 1932, ove Tamara appare impegnata nella realizzazione dello studio preparatorio di un ritratto della cantante, modella e amante Susy Rocher Solidor con sullo sfondo gli interni dall’anima modernista, testimone di incantevoli creazioni pittoriche come Ragazza di verde, Adamo ed Eva e il Ritratto di Marjorie Ferry.

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Il 1939 segna il ritorno negli State per una nuova avventura artistica costellata di successi e riconoscimenti. Dalla capitale francese sbarca a Cuba e da qui, attraverso Miami, approda nella Grande Mela, ove l’artista terrà un’antologica alla Renhardt Galleries dal 2 al 23 maggio. Negli anni 1940-42 Tamara e il secondo marito, Raoul Kuffner de Dioszegh, dimoreranno al 1141 Tower Road di Beverly Hills, nella villa, presa in affitto, di King Vidor, il regista del film di guerra La grande parata del 1925. Un luogo magico, in vetta alla collina, progettato dall’architetto Wallace Neff per volere della seconda moglie del regista, l’attrice Eleanore Bordman. Qui la coppia darà vita a party memorabili, a volte di 200 invitati, ai quali parteciperanno glorie del cinema americano e polacco.

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Ma, come si è avuto modo di comprendere, lo spirito cosmopolita della polacca non poteva permettere che un’artista del suo calibro divenisse sedentaria e si fossilizzasse nelle mura di una dimora, seppur stellata, come Villa Vidor. Già il 17 luglio del 1942 il “New York Times” titola l’annuncio dell’acquisto da parte del barone Kuffner di un nuovo appartamento al 322 East 57th Street per 240.000 dollari. Si tratta di un “duplex” con vista sull’East River, ovvero di due piani, al sesto e settimo, con sei stanze e tre bagni. Gli interni saranno arredati dalla Lempicka con i mobili provenienti dal castello di Dioszegh in Ungheria del barone e venduto nel 1939. Mobili intagliati e intarsiati Biedermeier i italiani dipinti di bianco dall’artista stessa per coprire le originarie dorature degli specchi, dei tavoli e delle sedie e adattarli, in tal modo, alle grigio elefante delle pareti.

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Si nota, dunque, la rinuncia di Tamara e del marito alla fredda funzionalità modernista di rue Méchain e la neonata passione per le tappezzerie colorate in velluto o satin e per le cornici rocaille, presenti in dipinti con nature morte o in ritratti del marito dello stesso periodo. È l’esempio di Ritratto del barone Kuffner in poltrona del 1954, in cui il marito è ritratto in abito grigio e gilet, seduto in poltrona bianca laccata, con catenina d’oro di orologio, anello nobiliare al mignolo sinistro e baffi alla Francesco Giuseppe.

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Dopo il secondo conflitto mondiale i Kuffner torneranno più volte l’anno nella casa parigina di rue Méchain, in cui la polacca posa per gli scatti del celebre fotografo di moda Willy Maywald: vestita in sontuoso abito lungo davanti a un cavaletto; come un fantasma armato di candeliere in una stanza di gessi, tra i cui l’Ermes e l’Afrodite Cnidia di Prassitele, anche questo ripreso in diverse nature morte degli anni Quaranta-Cinquanta, come quello del Museo di Plock.

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Gli anni Sessanta saranno quelli dell’allontanamento della pittrice dalla vita artista e il suo continuo vagabondaggio tra Europa e Stati Uniti, tra Parigi e i lussuosi alberghi di Capri e Venezia in Italia, divenendo ben presto tra le maggiori rappresentanti di quel “jet set” internazionale alimentato da aristocratici, industriali e personalità note della cronaca rosa. Lo stesso termine di “jet set” era stato coniato da un amico della Lempicka, Igor Cassini (fratello del celebre stilista Oleg), il quale aveva fondato la rubrica di gossip sul “New York Journal-American”. E tutto questo proseguirà anche oltre il 3 novembre1961, giorno della morte del barone Kuffner durante l’attraversata oceanica di ritorno dall’Europa. Questi venne sepolto in mare, anche se l’annuncio fu dato solo il 22 novembre sul “New York Times”, ma la Lempicka non si fermò neppure dinanzi questo dolore: due giorni dopo, il 24 novembre, inaugurava un mostra alla Iolas Gallery di New York.

Nel 1976 si compiva l’ultima tappa nel rifugio messicano di Cuernavaca, ove visse gli ultimi quattro anni della sua lunga esistenza con il giovane artista e compagno Victor Manuel Contreras. Una villa in stile giapponese, immersa tra palme e bambù, con un piccolo atelier in cui la Tamara si dilettava a ripetere i soggetti che le diedero la gloria planetaria, e qui si spense quel 18 marzo 1980 all’età, pare, di 82 anni. Non fece in tempo a vedere il volume progettato da lei stessa sin dal 1978 e pubblicato a Tokio con introduzione di Eiko Ishioka e curato dal conservatore del Louvre Germaine Bazin.

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Fu solo l’inizio di un’infinita serie di pubblicazioni dedicate alla pittrice polacca e al “mito” che lei stessa aveva contribuito pienamente a costruire.

 P.S. Vi diamo appuntamento alla pubblicazione della parte quarta del nostro omaggio alla Regina dell’Art Déco.

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BIBLIOGRAFIA

Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.