TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO”
(parte quarta)
“Madame la Baroness, Modern Medievalist”:
il genere della natura morta nell’arte di Tamara de Lempicka
di Filippo Musumeci
Come si è avuto già modo di ricordare nella parte prima e seconda di questo nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”, gli esordi dell’attività figurativa della Lempicka sono documentati da un giovanile “diario figurato” di deliziosi acquerelli adolescenziali con nature morte floreali: primo genere pittorico su cui l’artista testa la propria abilità nell’indagine di oggetti “messi in posa” alla maniera fiamminga.
Questi acerbi esperimenti di soggetto floreali realizzati ad acquerello su carta risalgono al 1907, anno in cui la giovane Tamara Rosalia Gurwik Gorska aveva circa nove anni, e investigati con perentoria ricerca almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. È il caso delle nature morte floreali “Rose” e “Una rosa”, due splendidi dipinti del 1938 nei quali la pittrice polacca mostra le sue straordinarie capacità tecniche e l’afflato del suo lirismo. Confrontando questi due soggetti con gli stessi d’età adolescenziale si comprende come l’evanescente fragilità delle rose ha subito un processo di trasfigurazione verso una nuova solida e levigata carnosità, astutamente amplificata dallo scuro sfondo monocromo di tradizione fiamminga.
“Annaffierei le rose con le mie lacrime per sentire il dolore delle loro spine e il rosso bacio dei loro petali”, affermava lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez.
Tamara fedele alla tradizione, dunque, seppur riletta e rimpaginata per mezzo di una bagaglio creativo sostanzialmente inesauribile e di immediata grazia. Se in “Rose” si limita a riproporre il piano d’appoggio come da manuale, in “Una rosa”, si è spinta oltre, stavolta, immaginando lo stesso nell’insolita veste di scatolina (forse lignea o, perché no, cartonata) ricoperta da una leggera velina rosata di cui riporta persino la piega dell’angolo. I petali rosso-rosato di cui si vestono le due rosaceae sono manti di seta traslucidi di linee morbide e sinuose, sotto le quali si muove un corpo che pulsa di passione e ravviva ogni diletto umore. È un’ode sopra il suo nome, Rosalia, il cui significato etimologico è “corona di rose”; è un’ode sopra il simbolo di Venere, dea dell’amore, già cantato da Anacreonte tra il VI e il V sec. a.C.
Oggi vogl’io col canto
Lodar la rosa estiva,
E la stagion che avviva
L’erba novella e il fior.
Tu, mio tesoro, intanto,
Il canto mio seconda,
E facile risponda
A’ nostri carmi Amor.
Per l’odor suo gentile
Questo vermiglio fiore
È degli Dei l’amore.
Degli uomini il piacer.
E ognor che riede Aprile,
Le Grazie verginelle
Ornan di rose belle
Il vago crin leggier.
D’Amor la Genitrice
Sembra più bella in Cielo,
Se mai fra il roseo velo
Mostra l’eburneo sen.
Fin sull’Ascrea pendice
L’educan le Camene:
De’ canti d’Ippocrene
Soggetto ognor divien.
È dolce a chi raccoglie
Le rose porporine,
Sebben le ingrate spine
Gli pungano la man:
E a chi le molli foglie
Fra palma e palma asconde
Più grato odore altronde
Aspetta forse invan.
Si spargono le cene
Di rose delicate,
E son così più grate
Le rose al saggio ancor.
E quando il tempo riede
Sacro al buon Dio Tebano,
Si versa a piena mano
Nembo di rose allor.
Senza le vaghe rose,
Qual cosa è mai gradita?
Colle rosate dita
L’Alba colora il dì.
Le Najadi vezzose
Di rose hanno le braccia;
Di rose il sen la faccia
Venere ha pur così.
Ch’è di ristoro a’ mali
La rosa io so per prova,
E che incorrotti giova
Gli estinti a conservar.
Invan spiegando l’ali
Va il tempo sul suo verde,
Ch’ella l’odor non perde
De’ giorni al trapassar.
Or sull’istessa cetra
Io ridirò cantando,
Com’ella nacque, e quando
Già dal terren spuntò.
Quel dì, che in faccia all’etra
Sulla cerulea culla
Venere ancor fanciulla
L’onda del mar mostrò,
Quel dì, che Giove, armata,
Spettacolo giocondo,
Espose al Cielo al Mondo
La Diva del saper,
Allor si vide ornata
La terra del bel fiore,
Ch’è degli Dei l’amore
Degli uomini il piacer.
Allora i Numi a gara
La pianta avventurosa
D’ambrosia rugiadosa
Presero ad irrigar:
E al buon Lièo sì cara,
La rosa porporina
Sulla nativa spina
Si vide germogliar.
(Anacreonte, “Sopra la rosa”, Ode LIII)
Quest’atto di alta poesia sarà traslato in altre nature morte in cui le rose lasceranno il posto alle calle bianche di trasparenza vitrea entro vasi di cristallo, dalle medesime qualità trasparenti, accostati a una cornice lignea dorata con foto in bianco e nero e con una tenda rossa drappeggiata sullo sfondo. Qui, Tamara ripropone le sensuali sinfonie di rossi, verdi e bianchi già abilmente composte nei ritratti di modelli degli anni Trenta (e di cui si dirà nella parte settima).
Il genere della natura morta adottato dalla Lempicka non si limita soltanto ai soggetti floreali, bensì coinvolge anche la realtà domestica nella sua più intima e ordinaria frugalità. Ne sono esempi eloquenti le opere “La caraffa Luigi Filippo” (1923), “Natura morta con mandarini (1925 circa), “Natura morta con cavolfiore” (1925), “Natura morta” (“Il macinacaffé” 1941 circa) e “Coppa di frutta I” (Frutta su fondo nero, 1949), ove la visione lenticolare di lezione fiamminga si traduce in una solidità di volumi e una struttura compositiva equilibrata, cui fanno eco i calibratissimi accostamenti cromatici. Come afferma Gioia Mori, queste nature morte «narrano un quotidiano lento a trascorrere, dove il tempo è segnato da pasti poveri, fatti di mandarini sbucciati, arance squillanti come raggi di sole, cavolfiori dalle foglie color petrolio già di durezza metallica».
L’attenta riflessione sulla mimesi fiamminga giungerà a saggi virtuosistici di trompe-l’oeil, come nel già citato “Il macinacaffè” del 1941, ove l’indiscusso e superbo spessore illusionistico è esplicitato dalla brocca da cucina, resa nei suoi diversi materiali costitutivi e stagliata contro la parete di compensato, nonché dall’espediente del bianco cartiglio tenuto fermo da uno spillo di antica memoria quattro-cinquecentesca. Un cartiglio autografato dalla pittrice solo nel 1954, come dimostrato dalla brochure della mostra alle Courvoisier-Galleries di San Francisco del 1941.
In quell’occasione, Christopher Stull, recensore del “San Francisco Chronicle”, scriveva a proposito delle capacità tecniche della pittrice polacca «Nelle sue nature morte si diverte con la durezza del metallo, con la semi-durezza del legno». E persino quell’umile strumento domestico, nella denudata crudezza della sua natura, viene qualificato per mano della Lempicka grazie alla purezza delle linee e alla perfezione delle forme. Nonostante i meriti riconosciutile dalla critica, il gusto statunitense datato anni Quaranta etichettava le nature morte della baronessa anacronistiche, quando non obsolete, facendole guadagnare l’ironico titolo di “Mme La Baroness, Modern Medievalist”.
Ciò, tuttavia, non turbò i propositi dell’artista, che, anzi, insistette per tutto l’arco del decennio successivo nel recupero del “mestiere”, cimentandosi nel trompe-l’oeil di tavole ricoperte da drappeggi dalla consistenza serica su cui fanno mostra frutti maturi o bacati, madreperle translucide e conchiglie dalla carità eroica manifesta, come ne “La conchiglia”, sempre del 1941. Uno splendido olio su tela in cui su di un drappeggio a motivi floreali sono stati adagiati, confondendosi, due conchiglie, due perle, un rametto di corallo e un bicchiere di cristallo: oggetti che per insite raffinate qualità, nonché per caratteri allegorici, sono direttamente riconducibili alla baronessa Kuffner, alla sua seduttiva femminilità, al suo dirompente charme. La composizione è tutta giocata sui toni rosa-verde-grigio con i quali si dà forza ai volumi solidi e leggerezza ai tessuti, restituendo la translucenza cromatica del guscio madreperlaceo.
Alla produzione degli anni Quaranta appartengono anche alcuni dipinti in cui il soggetto attenzionato è quello delle mani, le quali, come afferma sempre Gioia Mori, sono: «vaganti su fondi monocromi, fluttuanti frammenti di energia». Il 5 febbraio 1940 confessa al “Los Angeles Examiner” l’intenzione di organizzare un’antologica di nature morte con unico soggetto “le mani”, concretizzatasi, poi, solo alla fine degli anni Quaranta quale contributo a un soggetto già condotto negli anni Venti da altri artisti europei, come la polacca Maryla Lednicka, scultrice e amica di Tamara, tra le prime a creare opere con sole “mani”. Il più delle volte, sono citazioni di opere celeberrime come per “Mani e fiori” del 1949, il cui soggetto è ripreso dalle mani del ritratto raffaellesco di “Maddalena Strozzi; altre volte, invece, sono più semplicemente frutto del genio creativo della pittrice stessa, come per “Chiave e mano” del 1946 e “Mano surrealista” del 1947: la cui lirica intonazione è testimone muto di quell’inesorabile monito del divenire: “Tempus fugit cave tibi” (“Il tempo passa inesorabile, fai attenzione”).
Le cause di tale scelta sono da ricercare nella volontà di apportare migliorie nella resa di un particolare anatomico su cui sovente la critica aveva avanzato pareri poco lusinghieri, come nel caso di Berthélot, il quale nel 1931 ritenne severamente le mani forgiate dalla pittrice simili a elementi meccanici dalle giunture d’acciaio, parlando di difetti e malformazioni. Berthélot era in torto! Non comprese appieno il valore rivoluzionario di quelle figure modellate dalla Lempicka e il messaggio di quel “metallismo”, poi, invece, compreso e magnificamente illustrato da Giancarlo Marmori nel 1977. Attraverso un’opera di contestualizzazione, sono state scoperte da Gioia Mori straordinarie consonanze tra dipinti, sculture e fotografie dal soggetto succitato. Specie la fotografia trovò nei lavori degli anni Trenta di artisti tra i quali si ricordano Berenice Abbott, André Kertész, François Kollar, Dora Maar, Gisèle Freund e Thérèse Bonney i protagonisti di un nuovo genere che qualificava l’identità di un personaggio per mezzo delle sole “mani”, ritenute per la loro riconoscibile autenticità più vere e credibili del volto umano, non di rado celato da trucchi e maschere sociali. Tra le creazioni più significative si ricorda la poesia surrealista della “Mano-conchiglia” (1934) di Dora Maar, compagna di Picasso dal 1935 al 1944, e gli scatti dello sloveno François Kollar dedicati alle mani di celebri stiliste di mode come Suzy e Agnès ed Elsa Schiaparelli.
Alle “mani” la Lempicka, rispetto ai suoi colleghi, ha aggiunto il “calore dell’evocazione”: «se infatti nelle foto il resto del corpo viene suggerito da un ‘ombra, un dettaglio, nei dipinti della Lempicka le mani sembrano i frammenti spaesati e vaganti di un corpo dissolto, muti depositari di emozioni e sentimenti» (Gioia Mori).
P.S. Vi diamo appuntamento alla parte quinta del nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”.
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BIBLIOGRAFIA
Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.
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