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Arte al femminile

Le donne sono un soggetto dominante nell’arte fin dai tempi preistorici: rappresentate come fanciulle, madri, dee e seduttrici hanno sempre stimolato l’immaginazione e la creatività di generazioni di artisti. Molto più rare le donne che hanno praticato l’arte. Nell’antichità abbiamo solo i nomi citati da Plinio il Vecchio nell’Antichità o da Boccaccio nel Medioevo: Timarete, Kalypso, Hirene, Aristarete, Iaia e Olympas.

Dettaglio di una miniatura di un’antica artista greca: Timarete dipinge la dea Diana. (1400-1425 ca), Londra, British Library 

Non ci restano opere o forse, più verosimilmente, non siamo in grado di sapere se l’anonimo autore di un’opera sia un uomo o una donna in quanto per secoli, fino all’età rinascimentale firmare un’opera non era una prassi comune. Tuttavia nel Medioevo le donne dipingevano e a loro volta spesso venivano “ritratte” in scene miniate come quella di Timarete o nel manoscritto realizzato dalla famosa Ildegarda di Bingen che si autoritrae in un angolo della pagina miniata.

L’influenza esercitata sulla terra dalle sfere del fuoco, dell’aria e dell’acqua – Ildegarda di Bingen, Liber Divinorum Operum (copia della prima metà XIII sec.) Biblioteca Governativa di Lucca

In età moderna le donne pittrici sono più frequenti ma solo poche raggiungono una fama tale da arrivare fino a noi; nel nostro blog sono state spesso presenti e oggi ne vogliamo ricordare alcune a partire dalla famosissima Artemisia Gentileschi, celebrata in questi giorni in una splendida e imperdibile esposizione a Napoli, capace di raccogliere con eccezionale impeto la grande lezione di Caravaggio.

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come Santa Caterina d’Alessandria, 1616, National Gallery, Londra

In questo spazio abbiamo accolto anche Sofonisba Anguissola, artista cremonese che nel XV secolo dipinse molti ritratti e riuscì con caparbia a scalare i vertici della società dell’epoca pur provenendo da una famiglia modesta.

Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi, 1555, Narodowe Muzeum, Poznań

Lavinia Fontana, manierista emiliana, famosa ritrattista e autrice di notevoli opere con tematica biblica di cui abbiamo parlato tempo fa nel nostro blog.

Ritratto di nobildonna, L. Fontana, 1580, National Museum of Women in the Arts, Washington

Rosalba Carriera che con le sue opere esprime con ineguagliabile delicatezza la società veneziana rappresentata nelle commedie di Goldoni

Rosalba Carriera, Autoritratto con il ritratto della sorella, 1715, Firenze, Galleria degli Uffizi

e infine la rivoluzionaria e raffinatissima Tamara de Lempicka che ci ha raccontato in una serie di articoli il nostro storico dell’arte preferito: Filippo Alberto Musumeci.

Buon 8 Marzo!

Il classico atleta

L’idea del nudo

I Greci vivevano in un mondo abitato di immagini e un buon numero di queste erano figure nude maschili. Il fatto non dovrebbe sorprenderci perché oggi viviamo nell’era dell’immagine e, tuttavia, ci sono delle profonde differenze in quanto le nostre rappresentazioni sono apparizioni rapide e fugaci, mentre quelle greche erano immaginate per rendere eterni i protagonisti o rendere protagonisti “eterni” come le divinità. Inoltre l’opera d’arte nell’antichità, in particolare la statua di una figura, era qualcosa di vivo e partecipe nella vita sociale quotidiana: Atena in marmo pronta ad attaccare con la lancia era ritenuta davvero un baluardo contro eventuali nemici.

Athena Promachos, bronzo,  500–475 a.C. ca., Museo della Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi

Le figure nell’arte greca erano il soggetto predominante, solitamente nude o vestite, in modo che le loro caratteristiche fisiche fossero visibili, traducevano l’attitudine della civiltà delle poleis a mettere al centro di ogni attività politica l’incontro tra persone e talvolta lo scontro tra persone; se una questione non poteva essere risolta con il dialogo si doveva usare il corpo, lo scontro fisico, la guerra. Questo ci fa capire quanto il corpo bello e sano fosse importante e come da ciò scaturisca il concetto base dell’estetica greca “Kalos kai agathos” – bello e buono – caratteristiche del soggetto al vertice della società “democratica”, che doveva essere dotato di agilità, vigore e bellezza per poter competere al meglio in combattimento o nelle gare olimpiche.

Gli atleti

Il Discobolo, copia romana, II secolo d.C., da un originale greco dello scultore Mirone del 450-440 a.C. , Roma, Museo Nazionale Romano

Le raffigurazioni di atleti, così frequenti nell’arte greca, sono legate al culto del bel corpo, appena descritto, e a quella pratica di iniziazione dei giovani attraverso la relazione omoerotica con un uomo adulto che non era tanto una pratica sessuale quanto sociale, tipica dei ceti egemoni; partendo da questi presupposti molti capolavori dell’età classica sono queste figure nude realizzate con uno straordinario livello tecnico e con studio attento dell’anatomia.

La stilizzazione dei periodi più arcaici si diluisce sempre più a favore della ricerca di naturalezza, i kouroi e le korai acquisiscono gradualmente dinamicità e realismo, pur restando nel canone delle proporzioni matematicamente calcolate che permettevano alle figure di raggiungere armonia e bellezza. Nel V secolo a.C. lo sperimentalismo di forme scultoree sempre più ardite, nel rappresentare il corpo in azione, si traduce in opere come quelle di Mirone, l’autore di una delle statue di atleta più famose: il Discobolo. La tensione degli arti si rileva nella flessione in avanti degli arti inferiori contrapposti alle braccia e alla testa piegate all’indietro nello slancio della prova. Le forze opposte realizzano un equilibrio assoluto nel tempo e nello spazio.

Il Discobolo Townley, copia romana, II secolo d.C., da un originale greco dello scultore Mirone del 450-440 a.C. , Londra, British Museum

Il gioco delle forze opposte diventa perfetto e insuperabile nell’opera di Policleto che nella figura stante del Doriforo, probabile rappresentazione di Achille, segue uno schema contrapposto: la gamba libera poggia solo la punta del piede e, il braccio ad essa corrispondente, stringe la lancia ed appare quindi contratto per lo sforzo, dall’altra parte, alla gamba, su cui poggia tutto il peso, corrisponde il braccio rilassato.

Policleto, Doriforo, copia in marmo, I sec. a.C, dall’originale del 440 a. C MANN, Napoli

Policleto riesce a conciliare dinamicità e staticità nella figura del chiasmo. Si tratta di una esplicita rappresentazione delle sue teorie esposte nel Canone, il trattato in cui Policleto definì il suo concetto di bellezza. La fortuna del Doriforo è testimoniata non solo dalle numerose copie romane ma anche dall’utilizzo dello stesso schema per la realizzazione della statua-ritratto ufficiale dell’imperatore Augusto vestito di corazza e con il braccio levato.

Augusto di Prima Porta, copia marmorea di un originale bronzeo creato poco dopo il 20 a.C., Musei Vaticani, Roma

Gli originali

Non è semplice stabilire gli snodi temporali dell’evoluzione della statuaria nell’antica Grecia, anche perché buona parte degli studi deve prendere in esame delle copie di epoca romana. Sappiamo che gli originali erano in bronzo e tale materiale è stato spesso soggetto a pratiche di fusione per la creazione di altri oggetti. Il ritrovamento dei Bronzi di Riace, nel 1972, ha per questo motivo un valore eccezionale .

Le figure rappresentano probabilmente guerrieri eroici, realizzate nel V secolo a.C., con dimensioni molto simili ma leghe differenti, risentono nelle proporzioni allungate delle caratteristiche del periodo severo ma la presenza delle forze contrapposte è indice che la “ponderatio” del Canone di Policleto non è molto lontana.

La statua A rivela una maggiore tensione sia nel volto contratto con i denti digrignati che nel corpo dalla muscolatura più evidente e in procinto di agire con impeto violento. Anche la capigliatura appare quella di un uomo più giovane e vigoroso, forse Aiace o un atleta vincitore.

La statua B evidenzia una minore tensione, rappresenta un uomo più posato, con una forza che è più interiore che esteriore, come doveva essere l’uomo greco vincitore dei barbari ma posto davanti alle nuove sfide del mondo greco la cui forza, la democrazia, era anche la sua maggior debolezza.

Bibliografia

  • HÖLSCHER T., Il mondo dell’arte greca, Giulio Einaudi editore, Torino, 2008
  • BEJOR G.; CASTOLDI M.; LAMBRUGO C., Arte greca: dal decimo al primo secolo a.C., Mondadori, Milano, 2013
  • SETTIS S., I Greci: Storia Cultura Arte Società, vol. II, Giulio Einaudi editore, Torino, 1997

LETTURA OPERA: LA “NIKE DI SAMOTRACIA”

LA “NIKE DI SAMOTRACIA”

di Noemi Bolognesi

Scultore: Pitocrito

Scultura ellenistica realizzata nel II sec. a.C. (190 ca)

Supporto: Marmo Pario

Luogo di collocazione: Parigi, Museo del Louvre

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Prima di cominciare con l’opera, vorrei ringraziare il mio professore che mi ha dato l’opportunità di partecipare a questo Blog. A tutti voi una buona lettura.

L’ELLENISMO

La Nike di Samotracia è a parere mio una delle più belle opere ellenistiche. Ma cosa intendiamo per periodo ellenistico?

È importante definire bene l’ellenismo per capire al meglio l’opera che abbiamo davanti ai nostri occhi. La storiografia moderna indica come ellenismo un periodo ben definito: tra la morte di Alessandro Magno (323 a.c) e la battaglia di Azio (31 a.c). Il fenomeno ellenistico è il risultato di una crisi culturale del mondo greco, che ha le sue radici già all’inizio del IV secolo e che sovverte i principi ideologici su cui si fondava la cultura dell’età classica. La riflessione umana si sposta verso la mortalità e abbandona concetti quali l’eternità. Il potere assoluto di un uomo e il culto per il sovrano, sostituiti ai principi democratici e alla devozione degli dei, cancellarono i fondamenti etici e morali del pensiero greco. Durante il periodo delle conquiste di Alessandro, l’arte è ancora influenzata dall’età classica, tuttavia contiene già una trasformazione ellenistica. La produzione ellenistica si può dividere in tre grandi fasi: la prima (323-301 a.c) corrisponde alla lotta tra i diadochi conclusa con la formazione dei regni ellenistici, in questo periodo c’è ancora la persistenza dell’arte classica; la seconda fase (301-168 a.c) conserva le caratteristiche più innovative riguardo all’arte ellenistica; l’ultimo periodo (168-31 a.c) viene chiamato anche “periodo di restaurazione” dominato dall’affermarsi della potenza romana.

MITOLOGIA E ANALISI DELL’OPERA Nike nella mitologia greca è figlia del titano Pallante e della ninfa Stige. I due hanno altri figli: Cratos (Potenza), Bia (Forza) e Zelos (Ardore). Secondo la mitologia classica, Stige portò i suoi quattro figli da Zeus quando quest’ultimo stava raggruppando gli alleati per la Guerra contro i Titani: Zeus nominò Nike condottiera del suo carro divino e venne associata alla Dea Atena. Atena (in greco antico Ἀθηνᾶ, traslitterato in Athēnâ), figlia di Zeus e della sua prima moglie Metide, era la dea della sapienza, della saggezza, della tessitura e in generale dell’artigianato e degli aspetti più nobili della guerra (come ad esempio una guerra difensiva o fatta per giusta causa), mentre gli aspetti più crudeli e violenti della guerra rientravano nel dominio di Ares. La Nike di Samotracia, rinvenuta nel 1863 in stato frammentario, venne dedicata nel Santuario dei Grandi Dei sull’isola di Samotracia per commemorare le vittorie di Rodi, Roma, Pergamo a Side e Mionesso (191-190 a.c). La statua è acefala e in origine policroma.

Il basamento a forma di prua fu invece ritrovato nel 1879 nella stessa isola. La dea alata è ora conservata al Museo del Louvre. Essa rappresenta uno dei caratteristici impianti di matrice rodia, in cui si fondono ricordi del passato classico (la personificazione della Vittoria interamente panneggiaimageto) ed echi della scultura pergamena (il fianco sporgente come la Fanciulla Di Anzio). Il panneggio bagnato è la caratteristica principale, che non passa inosservata. La resa regala un particolare effetto, infatti il panneggio sembra mosso nel vento, nel momento in cui la figura si posa sulla prua della nave per annunciare la vittoria. Un vento impetuoso investe la figura protesa in avanti, muovendo il panneggio che aderisce strettamente al corpo e crea un gioco chiaroscurale di pieghette dall’altissimo valore virtuosistico, in grado di valorizzare il risalto dello slancio.

L’allegorismo della Vittoria è dimostrato dalla posizione delle braccia, dalle ali che sembrano spiegate e pronte per il volo e soprattutto dall’associazione con la Dea Atena. Dinamismo ed abilità di esecuzione si uniscono quindi in un’opera che concilia spunti dai migliori artisti dei decenni precedenti: il vibrante panneggio fidiaco, gli effetti di trasparenza e leggerezza prassitelici e la tridimensionalità lisippea. Scolpita nel pregiato marmo di Paro da Pitocrito, la dea posa con leggerezza il piede destro sulla nave, mentre per il fitto battere delle ali, che frenano l’impeto del volo, il petto si protende in avanti e la gamba sinistra rimane indietro.

L’ala destra fu ricostruita nel 1900 interamente in gesso mentre le braccia sono ora conservate nel museo di Vienna. Con l’acquisto delle braccia, Vienna dimostrò che esistettero dei popoli e che questi reperti archeologici rappresentavano un’attrattiva per il pubblico. In origine il braccio destro era abbassato, a reggere probabilmente il pennone appoggiato alla stessa spalla, mentre il braccio sinistro era sollevato, con la mano aperta a compiere, secondo la conservatrice del Louvre Hamiaux, un gesto di saluto, o meglio a reggere una corona. L’autore della Nike ha esasperato tutto ciò che può suggerire il movimento e la velocità.

La Nike per me non solo rappresenta la Vittoria, ma il coraggio, la costanza di Noi stessi anche se controcorrente. È facile strafare e arrivare in cima nike3alla montagna con la mania del “gigantismo” o meglio conosciuta come quella del “tutto e subito” , e così facendo in un attimo ci si ritrova a terra. Più difficile invece è rimanere su una linea continua, costante. Rimanere noi stessi, umili e coraggiosi, affaticati ma soddisfatti. E lentamente arrivare alla cima per rimanerci. È un invito a lottare, contro tutto e tutti per inseguire gli obiettivi che riteniamo importanti. La Nike vinse, controcorrente. Le sue ali fanno vibrare ancora adesso la sala in cui si trova, e ci si perde nell’ immensità del nostro animo, una sensazione che regala una frizzante sensazione di Vivere. Un inno alla Vita e alla Vittoria di noi stessi.

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Il colore dell’Oro

Il colore dell’Oro

di Emanuela Capodiferro

Una materia unica

L’oro è un minerale dal fascino indiscutibile, usato dall’uomo già nell’età preistorica accanto al più frequente rame. Duttilità, malleabilità ma anche resistenza all’attacco degli agenti esterni hanno reso questo minerale raro il metallo nobile per eccellenza. Solitamente in natura si trova legato all’argento, per cui gli oggetti più antichi sono non tanto in oro puro ma in elettro, una lega che comprende anche argento appunto. Dal X secolo a.C. in poi si comincia a impiegare la tecnica che permette di ottenere oro puro attraverso l’uso del crogiolo.

Il significato nell’Antichità

Il principale motivo che ha reso l’oro prezioso agli occhi dell’uomo è indubbiamente il suo colore: glorioso, sfolgorante e giallo come il sole. Fin dalle epoche preistoriche l’astro era simbolo delle divinità principali negli arcaici pantheon e ad esso erano tributati culti di grande rilievo riconoscendo in esso la prima fonte di vita. Ogni volta che si voleva richiamare, attraverso l’arte, la divinità, spesso si impiegava l’oro nella figurazione. In principio non è ancora presente nei dipinti ma in oggetti preziosi, gioielli e utilizzato come moneta di scambio.

Orna la cima di piramidi, obelischi, l’interno di tombe e templi spesso decorati ricorrendo all’oro o al giallo proprio quale riferimento alle divinità solari. Gli Egiziani ritenevano che la stessa sostanza del sole fosse oro liquido.

Salute a te, oh Râ!

Nella tua bellezza e nella tua perfezione

in qualunque posto tu sia

e nel tuo brillante oro.

Omaggio a te, che ti elevi nell’oro

che rischiari i Due Paesi.

Il giorno in cui tu nascesti al mondo

quando tua madre ti fece infante nelle sue mani

Tu hai rischiarato l’orbita del disco solare.

In questo inno presente nei Testi delle Piramidi è esplicito il riferimento a Râ, dio del sole, come sostanziato d’oro e accanto a lui anche in altre civiltà le divinità solari era rappresentate sempre con l’oro o il giallo oro.

Rappresentazione del Sole, Arte egizia

Anche i miti greci rappresentano con l’oro la sostanza divina. Notissima è la leggenda del vello d’oro ricercato dagli Argonauti, e altrettanto lo è il mito di Eos, personificazione dell’Aurora, di Elio, la divinità che conduce il sole raggiante su un carro durante il giorno fino ad immergersi al tramonto in una coppa d’oro.

Anche Apollo, dio greco della salute del corpo e dell’anima (attraverso la poesia) e altra personificazione del sole, ricevette un culto luccicante d’oro prima in Grecia e poi nel mondo romano.

La materia dorata oltre ad essere associata al sole è anche simbolo di incorruttibilità e immutabilità, per cui di tutto quello che è sacro ed eterno. Zeus per amare la bella Danae si muta in pioggia d’oro. Ma anche le rappresentazioni di Atena, Demetra, Ermes o Dioniso parlano di chiome dorate e di armi auree e preziose.

Anche presso gli Ebrei, l’oro era simbolo di sacralità, basti pensare alla descrizione dell’Arca dell’Alleanza nella Bibbia.

“Faranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì. Nell’arca collocherai la Testimonianza che io ti darò.”

Esodo XXV, 10-16

L’oro nella lunga stagione bizantina

Il simbolismo dell’oro come luce ultraterrena e spiritualità divina viene completamente assorbito dall’arte cristiana matura che definiamo bizantina. Difficile pensare alle icone senza l’oro rilucente dei loro sfondi. Infatti è la materia dorata, sotto forma di foglie d’oro legate allo sfondo trattato delle tavole o a tessere di mosaico trasparenti che includono sottilissimi fogli d’oro sul fondo, a rendere i soggetti dipinti intangibili, privi di materia e appartenenti ad una dimensione ultraterrena, priva di tempo. Nella pratica la realizzazione delle icone trova il suo riferimento filosofico nelle teorie di Plotino, il maestro dell’estetica della luce. L’arte può permettere la comprensione della verità se non si limita a imitare il reale ma supera il sensibile e diventa collegamento con il mondo superiore e divino. Ad esprimere la luce divina nulla di meglio che l’oro delle icone in cui è protagonista insieme ai grandi occhi dei volti. La doratura dello sfondo è la rappresentazione di questa luce ultramondana e sacra rintracciabile nei dipinti delle più antiche età bizantine fino alle icone russe contemporanee che ricalcano antiche tradizioni locali. E nell’icona, come dice Dionigi l’Areopagita, troviamo “la raffigurazione visibile di uno spettacolo, misterioso e soprannaturale”.

Mosaico della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli: Cristo Pantocratore con l’imperatore Costantino IX e sua moglie Zoe.

Anche i grandi artisti del Duecento e del Trecento, codificatori del linguaggio artistico italiano, scelsero di volta in volta di impiegare il fondo oro nelle loro composizioni o di farne a meno.

Simone Martini, Annunciazione tra i Santi Ansano e Margherita, Galleria degli Uffizi, 1333

L’oro nell’Arte contemporanea

Lo sfondo dorato abbandona la grande Arte occidentale al termine della prima stagione rinascimentale e resta relegato nella tradizione della pittura sacra dell’Europa Orientale. Lo sperimentalismo e direi l’umiltà dell’Arte nel XIX secolo indussero molti artisti a ritrovare tecniche e modalità del passato con esiti e applicazioni del tutto nuove. É il caso dell’Art Nouveau e di uno dei suoi più alti esponenti: Gustav Klimt. Sicuramente influenzato dal lavoro paterno di orefice ma anche dai magnifici mosaici ravennati ammirati attentamente insieme alle opere del gotico Gentile da Fabriano, l’artista viennese fece in modo di rendere l’oro protagonista non come semplice sfondo ma come materia capace di trasfigurare e rendere eterno il reale.

Gustav Klimt, Il bacio, 1907-1908. Olio su tela, cm.180×180. Vienna, Osterreichische Galerie.

La tecnica dell’applicazione della foglia d’oro

Tecnica assai complessa quella dell’applicazione della foglia d’oro, richiede la preparazione attenta di una base di argilla liquida rossastra chiamata bolo. Inoltre prima di far aderire con grande delicatezza le leggerissime ma preziose fogli d’oro occorre applicare una miscela di albume e acqua per mantenere umida e adesiva la superficie.

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Il Mosaico: la pittura per l’eternità

Arte e tecnica sono intimamente connesse, comprendere queste connessioni è la chiave per comprendere molti sviluppi e orientamenti analizzati dalla Storia dell’Arte. Motivo per cui tra i temi trattati vogliamo considerare anche gli aspetti tecnici sia dal punto di vista formale che storico e pratico. Qui cominciamo con una delle tecniche più durevoli: il mosaico.

Tecnica antichissima, può a buon diritto chiamarsi pittura per l’eternità (come fu definita dal Ghirlandaio), infatti in condizioni di stabilità del supporto a cui aderisce, il mosaico può perdurare per tempi lunghissimi. Abbiamo infatti pregevoli mosaici risalenti ad epoche antichissime.

Il termine deriva dal latino opus musivum con probabile riferimento alle Muse e alle decorazioni delle grotte dedicate ad esse. Gli esempi presenti in Grecia, per esempio, ci permettono insieme alla pittura vascolare, di ricostruire i primi passi della pittura tradizionale (su tavola o murale) di cui invece non abbiamo quasi più traccia. Del resto spesso con il termine mosaico spesso si comprendono tecniche differenti come il litostrato in cui però non vi è l’impiego di tessere ma di ciottoli variopinti.

Sicuramente l’opera più nota di questa tipologia è la Battaglia di Isso scoperta negli scavi di Pompei e probabilmente copia di un mosaico più famoso di Filosseno da Eretria.

Battaglia di Isso, Museo archeologico di Napoli, III a.C.

Tracce di mosaico con tessere vitree sono note in Egitto ma la tecnica ebbe più larga diffusione in epoca romana e Plinio riporta alcune notizie sulle origini nel Naturalis Historia. Probabilmente per ottenere effetti cromatici più intensi e ricchi si pensò di introdurre accanto alle normali colorazioni delle pietre le tessere in pasta vitrea.

Le modalità tecniche

Per creare il mosaico sull’intonaco veniva steso, ma solo nell’area lavorabile nell’arco di poche ore, uno strato di mastice. Su questo supporto adesivo andavano adagiate le tessere musive, con dimensioni variabili in base alla disposizione, più piccole se destinate a riprodurre le figure, più grandi se utilizzate per lo sfondo. Le tessere potevano essere in terra cotta, in vetro trasparente o opaco oppure auree. Le opere realizzate spesso quali inserti della decorazione parietale erano spesso delimitate da cornici di conchiglie.

Mosaico con Nettuno e Anfitrite, Ercolano, I sec. d.C.

Il mosaico bizantino

Nell’Arte bizantina il mosaico diviene l’espressione artistica più caratterizzante, esprimendo al meglio le peculiarità delle figurazioni sacre. Anche la tecnica si evolve: oltre all’utilizzo di gamme cromatiche sempre più ampie e preziose si impiega un letto di intonaco più fine e resistente. In particolare gli sfondi realizzati con tessere dorate contribuiscono alla suggestione di una realtà divina e ultraterrena, aggiungendo ieraticità alle figurazioni.

Gli edifici sacri ravennati, realizzati tra il V e il VII secolo, accolgono alcuni tra i più straordinari mosaici bizantini come il Mausoleo di Galla Placidia o la Basilica di San Vitale.

Mausoleo di Galla Placidia, Mosaico con lunetta del Buon Pastore, Ravenna, V secolo

Le figure, frequentemente, vengono realizzate a parte e poi aggiunte alla decorazione musiva delle pareti, per consentire di elaborare con maggiore cura i dettagli più raffinati.

Non ci sono descrizioni della tecnica risalenti al periodo bizantino ma dalle stesse opere emerge la presenza di tre stati di intonaco man mano più fine, le dimensioni medie delle sezioni che i mosaicisti riuscivano a realizzare nell’arco di un giorno (circa 50 x 50 cm) e le modalità di disegno della figurazione. L’artista delineava le figure sull’intonaco fresco e col tempo cominciò a realizzare una sorta di affresco come disegno di base, come appare evidente nei mosaici di San Marco a Venezia.

L’evoluzione basso-medievale

Con l’invenzione del linguaggio italiano anche in pittura, l’impiego del mosaico si riduce notevolmente. La tecnica ricalca quella pittorica dell’affesco, per cui le tessere assumono forme diverse e soprattutto si dispongono a seguire l’andamento del disegno. Nei dettagli i mosaicisti impiegano tessere di dimensioni molto piccole per poter registrare meglio i passaggi di ombra e di luce.

Mosaici della Cappella Palatina nel Palazzo dei Normanni, Palermo 1143 ca.

Dal periodo rinascimentale in poi la tecnica musiva cade in disuso e solo pochi artisti decidono di impiegarla. Tra questi Raffaello che affida al veneziano Luigi De Pace, la decorazione musiva della cupola di Santa Maria del Popolo su suoi disegni.

La tecnica musiva torna in auge nel XX secolo come vedremo in un prossimo post dedicato al mosaico nell’Arte contemporanea.