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“Le crude e taglienti visioni di Annalisa Gallo”

Correva l’anno scolastico 2009-10 quando, in toni deliziosamente cortesi e amicali, mi fu chiesto da Annalisa Gallo, giovane e talentuosa pittrice calabrese, di redigere il mio umile, disinteressato e sincero parere circa alcuni dei tanti lavori composti dalla stessa in un decennio di fervente attività creativa. Non nego di aver vissuto – anche se per un esiguo arco temporale – un avvilente timore, poi infondato (con mia grande gioia), per la paventata ipotesi di dovermi inoltrare entro un pastoso e fuorviante labirinto di diffuso astrattismo, al quale, tendenzialmente, si attribuisce valore più sul piano contenutistico che su quello prettamente iconografico.
Confesso alacremente di aver incespicato in un avventato quanto ridicolo passo falso! Poiché,qui sono le impressionanti creature della Gallo a imporsi con la loro forza e drammaticità.
I soggetti da lei eternati sono un felice connubio inscindibile di forma e contenuto, perfettamente incastrati e coesi alla stregua di tessere della più abile e nobile tradizione musiva, ove l’uso della rigorosa ricerca cromatica costituisce il reticolo entro cui spigolosi e chiaroscurali anatomie umane si profilano come figure geometriche scrupolosamente calcolate, immesse in altrettante studiate griglie prospettive con punto di vista rialzato e taglio fotografico volutamente ravvicinato.
Per esprimere l’intrinseco sentimento di cui è invasa la scena raffigurata non occorre affollarla di dovizia di particolari, poiché tutto appare lucidamente rivelato nel ristretto fotogramma immortalato quale tranche de vie, («fetta di vita») di una realtà sfaccettata e variopinta, al pari dei mutevoli stati d’animo scaturiti a ridosso delle più disperate vicissitudini.
E l’esaustiva risposta all’interrogativo supposto risiede nell’acuta e, a tratti, terrificante visione di una pittura riuscita sul piano tecnico-percettivo, memore della lezione espressionista europea di Ernst Ludwing Kiechner, Edvard Munch sino all’eredità inconscia di Oskar Kokoschka ed Egon Schiele, nelle cui opere l’incombere della morte è l’epilogo tragico di una concezione esistenziale violentemente denudata della più flebile delle speranze concesse all’uomo.
Tuttavia, è necessario munirsi d’una robusta armatura abilmente forgiata da mani sapienti per evitare l’inevitabile rapimento ottico e cardiaco persino del più distratto degli osservatori, magari, fosse solo per caso, postosi al cospetto di questi manufatti partoriti dallo sguardo caparbiamente introspettivo di un talento sensibile, a cui auspico l’impervia e amara via lungo la riconoscenza professionale abbia vita assai breve.
Il batik “Desiderio inconscio” è la terrificante immagine che sequestra il nostro sguardo, terrorizzandolo e costringendolo a svelare senza alcuna remora tutto il bagaglio delle nostre più intime e celate paure. I plastici contrasti chiaroscurali definiscono la tormentata e contratta figura dell’uomo dai profili taglienti e vetrosi come schegge che lampiscono, dominandolo, il fragile limite tra realtà e finzione.

1Ancora, fredde figure marmoree, fortemente scorciate e sintetizzate dall’incisiva graffiante linea di contorno: figlie legittime di quel realismo espressionista, dalla visione satiricamente grottesca e sociale, avente il suo capostipite in Honoré Daumier. Come il francese, anche qui l’autrice comunica la prova alta della sua arte attraverso una linea rapida e balenante che riproduce una realtà deformata grottescamente in funzione espressiva.
È il caso dell’opera “Crack” in cui il bianco-nero rispettivamente dello sfondo e del contorno sono il vuoto in cui impostare il giallo ambra di un’immagine priva d’ogni lieto anelito di libertà logica, precocemente vittima dell’eterna condanna alla tossicodipendenza.

Complesso e temerario scorgere le silenti sfumature dell’essere; estenuante il suo contorto divincolarsi dall’involucro fisiognomico, prigioniero abietto di ore lente e tetre, instancabilmente battute dalla monotona nota grave: subdola, mancina, corrosiva.

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Ma i soggetti in cui l’autrice adotta, a mio modesto avviso, un taglio decisamente più aggressivo e convincente sono quelli a sfondo bellico: “Infanzia in Sierra Leone” e “Giochi pericolosi”, in cui il dilaniante orrore del conflitto armato – con il suo pesante carico di violenza, disperazione, fame, morte – è l’effetto, già visto, già vissuto, già pianto, della sua causa.
Un canovaccio di corpi scheletrici, straziati ed arsi al pari dei polverosi suoli su cui giacciono agonizzanti, quali vittime innocenti e sacrificali d’una sterile barbarie e cieca ignominia, dettata dal più nocivo tra i virus letali: l’ossessionante brama di potere di cui è infettata la specie umana.
Atroci e crude visioni, quelle di Annalisa Gallo, che straziano l’individuo e lo investono d’un’acre impotenza, alla quale, tuttavia, siamo gelidamente assuefatti perché facile, perché comodo, perché fashion.

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4Ad Annalisa, al suo talento, alla sua perseverenza – in nome delle tante ore, dei tanti (troppi) Km marciati quotidianamente alle prime buie luci dell’alba, degli ideali comuni vissuti e condivisi – non posso che augurare ogni felice traguardo e ogni meritata fortuna.

Filippo Musumeci