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Resurrezione

Buona Pasqua cari lettori, oggi vi proponiamo un breve post sulla Resurrezione di Matthias Grünewald, originalissimo artista del Rinascimento tedesco, contemporaneo di Dürer ma pittoricamente vicino agli esiti novecenteschi dell’Espressionismo tedesco.

Il Cristo che risorge di Grünewald è una perfetta metafora del Cristo come Luce del mondo, l’iconografia è quella classica di Piero della Francesca: Gesù emerge dalla tomba ai cui piedi giacciono i soldati addormentati, ma il moto della figura non è più quello razionale e misurato del capolavoro quattrocentesco,

La Resurrezione di Cristo, Piero della Francesca, 1463-65, Museo civico di Sansepolcro

è più simile a quello di una fiamma che si innalza, in antitesi con gli elementi orizzontali della pietra del sepolcro e dei corpi addormentati. Queste figure non sembrano riposare serenamente abbandonate, non ne vediamo i volti ricoperti dagli elmi o dalle mani ma i gesti sono inquieti, quella in primo piano impugna la spada quasi a proteggersi dalla luce divina vittoriosa sulle tenebre, probabilmente rappresentano la condizione dell’uomo prigioniero del peccato e non degno di quella luce vivificante.

Matthias Grünewald, Resurrezione di Cristo, particolare del Polittico dell’altare Isenheim, 1512-16, Unterlinden Museum, Colmar
M. Grünewald, Figure dormienti e sepolcro, particolare della Resurrezione, vedi sopra.

L’innovazione di questa Resurrezione è, in ogni caso, nell’uso dei colori che contraddistinguono soprattutto la figura del Redentore, il viso chiarissimo quasi si fonde con la tonalità luminosa del globo sullo sfondo ed appare come volto di Dio, il corpo bianchissimo riprende la posizione di Cristo sulla croce, visibile al centro del Polittico chiuso, in quel caso però esprime infinita sofferenza mentre nella Resurrezione le piaghe delle mani, dei piedi e del fianco sono in evidenza come prove della vittoria sulla morte.

Resurrezione, particolare.

Il Polittico dell’altare di Isenheim, capolavoro di Grünewald, è stato attribuito al maestro di Würzburg dal grande Jacob Burckhardt solo a metà Ottocento, prima era ritenuto opera di Dürer che stilisticamente è il suo opposto: Dürer ricerca il vero con l’uso equilibrato di linea e forma, Grünewald è il capostipite dell’Espressionismo tedesco e, infatti, la sua grandezza come artista viene riconosciuta proprio nel periodo di diffusione di questo movimento, per essere messo in ombra ancora una volta nel periodo nazista e definitivamente consacrato dopo la seconda guerra mondiale.

Friedrich Dürrenmatt: l’anticonformismo nell’arte

“L’arte, la letteratura, sono, come qualunque altra cosa, un confronto col mondo. Una volta afferrato questo, ne potremo intravedere anche il senso.” F. Dürrenmatt

Ho scoperto Dürrenmatt solo di recente, grazie al provvidenziale suggerimento di un collega, e inizialmente l’ho apprezzato per lo stile nitido e intensamente evocativo, per la capacità di esprimere il conflitto tra il bene e il male in tutta la sua atroce complessità e, infine, per le ambientazioni e le atmosfere che mi ricordano il mio paese natale: la Svizzera. La lettura de La promessa: un requiem per il romanzo giallo è stata davvero illuminante.

Dürrenmatt è infatti elvetico, nato a Konolfingen nel cantone di Berna, il 5 gennaio 1921, da un pastore protestante, a sua volta figlio del poeta e politico Ulrich. Si trasferisce a Berna nel 1935 e qui si diploma e intraprende gli studi universitari iscrivendosi alla facoltà di filosofia, lettere e scienze naturali. Prima di completare gli studi decide di dedicarsi all’attività di scrittura. La sua creatività si esprime sia nella narrativa che nel teatro e nella pittura, prediligendo spesso soluzioni ibride e decisamente originali.

Dürrenmatt F, Prometeo modella degli uomini, 1988, Centre Dürrenmatt Neuchâtel

I principali riferimenti letterari e drammaturgici sono da rintracciarsi in Brecht o più probabilmente in Beckett e Jonesco, dal punto di vista pittorico Dürrenmatt guarda all’opera di Goya, soprattutto il ciclo dei Capricci, le incisioni che deformano la realtà per rivelarne le pieghe più oscure e sconvolgenti, ma anche all’intensa stagione dell’espressionismo tedesco e alle visioni dell’amico Willy Varlin.

Nelle sue opere è evidente il senso di smarrimento dell’uomo di fronte alla labirintica città contemporanea e la capacità di osservare la realtà per rilevarne gli aspetti più inquietanti e grotteschi.

Friedrich Dürrenmatt, Labirinto II: Il Minotauro spaventato, 1974

Le sue opere di natura visiva affrontano i racconti della mitologia classica, in chiave allegorica, oppure prendono spunto dalle più avanzate idee scientifiche.

In alcuni casi si tratta di illustrazioni che accompagnano le sue narrazioni e tuttavia lui ne parla in questi termini:  

“I miei disegni non sono lavori accessori alle mie opere letterarie, ma i campi di battaglia disegnati e dipinti su cui si svolgono le mie lotte, le mie avventure, i miei esperimenti e le mie sconfitte di scrittore”.

Dürrenmatt è un artista ancora poco noto, morto a Neuchatel nel 1990, molti dei suoi lavori sono conservati in collezioni private ma una raccolta di tutto rispetto è sicuramente quella del Centre Dürrenmatt Neuchâtel dove di recente si sono tenute numerosi eventi di approfondimento e un’interessante conferenza che racconta il suo parallelo con il siciliano Leonardo Sciascia con cui lo svizzero condivide tematiche (il genere poliziesco e la riflessione sulla giustizia) e periodo storico.

L’espressionismo

Cari amici di Sul Parnaso,
qualora aveste del tempo da voler trascorrere in compagnia di video-lezioni sulla nascita delle Avanguardie storico-artistiche novecentesche europee, ecco qui una proposta. Si tratta di lezioni tenute nei mesi scorsi dal prof. Filippo Musumeci nella città della Mole, Torino, ospite del CRAL, Regione Piemonte, con la gentile collaborazione di SunStudio, curatore delle riprese e dei montaggi video. Questi, in numero di 5 puntate, saranno così caricati sul canale youtube e sul nostro blog:
1 Espressionismo
2 Cubismo
3 Futurismo / Art Déco-Cubofuturismo
4 Astrattismo / Metafisica
5 Dadaismo / Surrealismo

Le altre verranno pubblicate prossimamente.

Buona visione a tutti

LA PAURA DELLA VERITÀ IN QUEL “GRIDO” DI DOLORE. (PARTE PRIMA)

di Filippo Musumeci

MUNCH 2
“Non è precisamente mia intenzione ricostruire la mia vita. Piuttosto è mia intenzione cercare le forze segrete della vita, per tirarle fuori, riorganizzarle intensificarle allo scopo di dimostrare il più chiaramente possibile gli effetti di queste forze sul meccanismo che è conosciuto come vita umana, e nei suoi conflitti con altre vite umane”. (Munch)

In modo personalissimo ci si accosta al dolore, al malessere, all’angoscia esistenziale. A quello stridente logorio che consuma, dilania, umilia, lentamente, ineffabilmente, sadicamente.
Innumerevoli volte l’indomabile ha fatto capolino con il suo medesimo puntuale carico di terrore, tale da non poterlo più governare, saperlo più fronteggiare, volerlo più affrontare, comunque o nonostante, l’amara e recidiva convivenza con l’arcigno marionettista.
Se ne percepisce la presenza senza necessità di metterlo a nudo; se ne avverte l’avvento come di profetica missione e si raggela all’apparir del gemito epidermico quando la repentina ansia strozza il vissuto in un flebile ricordo.
Non ci si illude più e non ci si riconcilia con l’umano lignaggio perché è questi a manovrare le sfibrate fila di un atto unico privo di finale, ove il tragico non ha principio né fine e l’incombere della morte è lì dietro l’angolo, ossuta e dura, inumana e scura.
Ci sono opere che ti folgorano, ti ammaliano, ti ossessionano senza scampo; ti rendono vile prigioniero senza via d’uscita di quel gioco perverso tra vittima e carnefice. È un vincolo strettamente connesso al messaggio criptato in seno alla violenza del tratto e della rifrazione dell’immagine, dolente, inquieta, terrificante, vuole sovente il caso!
Quel “Grido”, che trasuda agonia, che travalica i confini più reconditi dell’animo, che lesiona le cavità tristemente inagibili della psiche, si plasma nel greve, ultimo, estremo strazio di un’esistenza furiosamente segnata da quell’ineccepibile sordità ordinaria votata al disincanto. I primari rossi, blu e gialli, intervallati dai verdi e dai terrosi, per la prima volta (forse l’unica) non si contrastano (paradossalmente) secondo le leggi della percezione visiva, bensì, mediante una sinistra alleanza, reciprocamente si fondono in una sola sostanza più profonda per divenire complici di quel processo di smaterializzazione e rarefazione della forma a limite con la pura astrazione. Quel “Grido”, manifesto sincero e audace di Munch artista e uomo (nonché di chi in egual misura ne sente la vicinanza di umore e tensione), non è altro dal mal comune…e dal suo mezzo gaudio!!
Vittime non lo siamo, poi, tutti? Al bivio ci si arriva d’impeto e d’impeto si fa ritorno, con in corpo la frivola illusione che sia stata o debba essere necessariamente l’ultima. Illusione…..appunto!!
E se non fosse un “urlo” bensì un “grido”?
Non urla, nel senso di “ululare”, l’incorporea immagine frontale, bensì “grida”, nel senso di “invocare aiuto”. Il suo è un impotente e inascoltato monito all’umanità sofferente perché corrotta, muta e sorda; un disperato e alienato tentativo di salvezza da quell’ininterrotto e giammai fiacco ciclo che non permette opposizione alcuna né reazione possibile. Perché se dalle proprie ceneri si rinasce è pur vero che ogni rinascita implica una riscrittura di trama dall’epilogo inverso. È questo che viene a mancare e per il cui effetto non si produce nessuna rinascita ma soltanto una sopravvivenza disumanizzata.
Non s’imprime affatto il transitorio attimo nell’animo poiché è quest’ultimo a esprimersi, imponendo alla natura il proprio sentire: procedimenti cerebrali antitetici posti sull’univoca linea di stazione per tracciare, tuttavia, traiettorie prospettiche opposte. Non è la “luce” stavolta a primeggiare, ma il “cupo” a soffocare sul nascere ogni tagliente barlume, quale emblema di un’esanime speranza “ridicolizzata”, ormai, e svuotata del suo più limpido significato.
Il ricordo di quel tramonto infuocato che ispirò l’artista, e lucidamente riportato dallo stesso nel suo diario, resta l’eredità più veritiera sulla genesi dell’opera, ove quella maschera scheletrica senza più connotati fisionomici si trasfigura nell’autoritratto di un’anima tormentata, consumata dalla propria solitudine e riforgiata alla stregua di un pupazzo: “Mi ricordo benissimo, era l’estate del 1893. Una serata piacevole, con il bel tempo, insieme a due amici all’ora del tramonto. […] Cosa mai avrebbe potuto succedere? Il sole stava calando sul fiordo, le nuvole erano color rosso sangue. Improvvisamente, ho sentito un urlo che attraversava la natura. Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi. […] Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare… Ma nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori. Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io”.

MUNCH 1
“Urlo” e “grido” sono equiparati, quindi dallo stesso artista nel suo diario e i colori assolvono pienamente a questa funzione “espressionistica” quando nel cogliere i particolari di quel volto mummificato le pennellate nervose assumono la forma di linguette nette, ora verdastre, ora giallastre, per il fine ultimo di definire la conformità cranica attraverso un andamento curvilineo-ellittico informe, letto come disarmante indagine introspettiva del soggetto.
Tutto diviene gesto: nella figura come nel paesaggio, nella stesura cromatica dal ritmo ondulato come nella forza plastica dei colori. Gesto inteso come tensione emotiva messa a freno e irruentemente esplosa, infine, per folle paura di verità. Ma di quale verità si tratta in fondo? Quella di vivere!!
E questa verità è data dalla “visione”, che è altra cosa dalla “veduta”: “vedo con occhi, ma visiono con sentimento”. E il sentimento è figlio della varietà che prescinde dall’unità di genere, perché il singolo sperimenta in modo pienamente soggettivo le pulsioni attivatesi nell’io. Di processo inverso si tratta, dunque, all’impressione en plein air poiché il moto “emozionale” procede non più dall’esterno all’interno, bensì da questi all’esterno: è l’individuo-uomo a condizionare e trasfigurare forma e contenuto della natura, non più questa a persuadere le scelte del primo.
Munch affermò che: “La verità è che si vede con occhi diversi di volta in volta. Al mattino vediamo le cose in un modo, alla sera in un altro, e questo dipende dal nostro modo di essere. Uno stesso soggetto viene perciò percepito in tanti modi differenti ed è questo che rende l’arte tanto affascinante”.
Christian Krohg, pittore e amico di Munch, dichiarò: “Dipinge, o piuttosto, osserva le cose diversamente dagli altri artisti. Ha occhi solo per l’essenziale, e naturalmente dipinge solo questo. Ecco perché i quadri di Munch non sono di regola ‘finiti’ come la gente compiacerebbe di constatare. Ma certo che lo sono: la sua opera completa. L’arte è completa quando l’artista ha detto veramente tutto quanto aveva dentro di sé”.
E Munch possedeva al pari di Freud la giusta dialettica per dire, ma pittoricamente, ciò che sentiva agitarsi dentro il suo animo: “a guardarsi dentro……ho sentito parlare delle teorie sulla psiche umana sviluppate dal dottor Freud, a Vienna, lo avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere”.
Sottile il confine tra vita e morte annidato nell’arte del pittore norvegese quando in un altro dei suoi passi dichiara: “Adesso la vita porge la mano alla morte. Viene chiusa la catena che unisce mille generazioni di morti a mille generazioni future”.
E quel “Grido” non conoscerà “fine” perché ciclicamente amplificato dall’ignoto che in esso si rispecchierà, rifugerà e immedesimerà quando un’alba scura porterà con sé il suo tacito spasmo pronto a tuonare in un rito agognante intriso di sacralità.
Chiamatelo pure “mal di vivere”, se vi pare! Ma a ciascuno verrà dato dire in un probabile intermezzo riflessivo : “Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io!”

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Tempus fugit

TEMPUS FUGIT

di Emanuela Capodiferro

Tempus fugit, dicevano gli antichi, e difficilmente qualcuno non concorderà con loro. Oggi più che mai, nell’era dei messaggi istantanei, del vediamoci su facebook, del pronto in tavola, del fast food & fast travel e delle mille cose che rendono tutto più veloce, mentre le nostre vite sono sempre più compresse, sempre più prive di tempo per noi, di tempo che conta per noi.

Questo spazio nasce su stimolo del mio caro amico e collega Filippo con cui condivido la passione sincera per l’Arte e per l’Educazione.

Collaborare alla creazione di questo blog rappresenta un modo per riprendere il mio tempo, per occuparmi di ciò che amo, scoprendo, condividendo e confrontando nuove visioni dell’Arte.

E quindi comiciamo dal Tempo e dalla visione terrificante che di esso ci offre uno dei giganti della Storia dell’Arte di tutti i tempi:Goya.

Francisco Goya, Crono divora i suoi figli, 1821-23, Madrid , Prado.

Un visione che anticipa di quasi un secolo gli esiti più cupi dell’Espressionismo novecentesco e che descrive la disumana crudeltà del nostro più inesorabile nemico: il Tempo.

L’opera appartiene al periodo più tardo di Goya ed anche più tragico, segnato dalla sofferenza di una grave malattia. Appartiene al ciclo delle “pitture nere” e rappresenta Crono, il padre di Zeus, nell’atto di divorare i suoi stessi figli ed è anche allegoria del principio distruttore, insito in ogni vivente, Chronos, il Tempo. Non vi sono committenti da soddisfare ma solo emozioni da esprimere, per cui Goya non cerca di piacere.Le pennellate sono crude e rapide, i toni cupi lasciano emergere solo il rosso del sangue e delle membra strappate. Protagonista è lo sguardo folle e agghiacciante del padre che dilania il figlio.

Goya mette in campo un modo nuovo per indagare il lato oscuro dell’uomo, dipinge gli istinti più irrazionali e violenti, riflette su aspetti che raramente, almeno nell’arte prenovecentesca, erano stati considerati. Ma soprattutto è il modo che è nuovo e in assoluto anticipo.

p.s. mi sono alzata con il piede storto…

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