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L’INCANTO DI “S. VITALE” A RAVENNA

IL SOLENNE INCANTO DI “SAN VITALE” A  RAVENNA

di Lucrezia Bettas (classe IIˆ Liceo Artistico)

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 Appena pochi giorni or sono ho avuto modo di visitare la città romagnola di Ravenna, partecipando al viaggio d’istruzione organizzato annualmente dal Liceo Artistico presso il quale frequento la classe seconda. I professori-accompagnatori di Storia dell’Arte hanno accompagnato e guidato le classi alla scoperta dei monumenti simbolo della città, tra i quali a catturare maggiormente la mia attenzione è stata la Basilica di SanVitale.

Sulla soglia del portale d’ingresso posto sull’àrdica a forcipe non mi sarei mai potuta immaginare lo spazio espanso degli interni, nonostante l’analisi descrittiva preventivamente compiuta a lezione dal mio prof di Storia dell’Arte. È stata una grande scoperta! Solitamente negli ambienti religiosi non mi sento a mio agio, ma lì è stato esattamente il contrario! Non avrei più voluto abbandonare quel luogo, anzi avrei passato ore e ore a guardarmi intorno e a imbambolarmi. Quando si accede nel sito l’occhio cade istintivamente sui mosaici per mezzo delle tessere dorate, le quali trasmettono ricchezza e sobrietà. E persino un ateo rimarrebbe “inchinato” di fronte a cotanta bellezza. Ho provato grande gioia e un particolare interesse nel comprendere dal vivo le tecniche esecutive dei pannelli musivi, dinanzi ai quali mi sono lasciata rapire dai colori intensi e luminosi.

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San Vitale è stata iniziata nel 525 d.C. dal vescovo Ecclesio, continuata nel 535 d.C. dal vescovo Vittore e terminata tra il 540 e il 548 d.C. dall’arcivescovo Massimiano, esarca dell’Imperatore Giustiniano.

La pianta della basilica è ottagonale con esonartece a fòrcipe (a testate semicircolari) obliquo e tangente a un angolo del solido geometrico (in aria bizantina e ravennate detto “àrdica”, il cui significato etimologico è  sinonimo di “nartece”, cioè “recinto”) e abside poligonale all’esterno, ma semicircolare all’interno.

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L’esterno è sobrio, presentando una veste povera per mezzo della struttura nuda in cotto, in netto contrasto con la ricchezza decorativa e ornamentale degli spazi interni dalla luminosità diffusa: una similitudine per indicare la caducità del corpo umano, fragile e imperfetto in quanto mortale, dunque, costretto a subire gli effetti inesorabili del tempo, e l’eternità dell’anima, la quale entro il luogo sacro riscopre la luce e da questi è purificata e, di conseguenza, salvata. Sono due gli ingressi: il principale con sviluppo assiale, perché in asse con l’abside, e l’ingresso secondario con sviluppo non assiale, perché laterale e ricavato sul fianco anteriore dell’àrdica a fòrcipe.

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Varcata l’ingresso si approda al deambulatorio, per del quale si accede, poi, all’ottagono centrale successivo e ai cui lati sono otto esedre simile ad altrettante absidi. Ai lati dell’area presbiteriale si aprono due locali circolari, ovvero la pròtesis e il diacònicon: all’interno del primo era abitudine conservare il pane e il vino per l’eucarestia, mentre nel secondo erano custodite le suppellettili e i paramenti sacri degli officianti. L’intero spazio interno è delimitato da colonne bizantine proveniente da Costantinopoli, caratterizzate da capitelli a cesto o d’imposta al di sopra dei quali sono posti i celebri pulvini con decorazioni policrome a rilievo e traforo, aventi la funzione di donare maggiore slancio verticale alle colonne stesse. Al primo registro dell’ottagono di base si somma quello superiore ove sono i matronei, vale a dire le gallerie aperte riservate fin dall’età paleocristiana all’assemblea femminile, sorretti anch’essi dalle medesime colonne citate.

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La cupola è alleggerita da tubi fittili disposti su filari concentrici, tecnica sperimentata dagli architetti bizantini e da questi importata in Italia, mentre il tiburio posto esternamente a protezione della stessa presenta anch’esso una forma ottagonale.

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L’arco trionfale absidale ha un chiaro significato simbolico legato al potere imperiale d’Oriente, poiché due aquile sorreggono il clipeo entro il quale è il monogramma cristologico stilizzato.

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Il catino absidale presenta il mosaico con il tema del Cristo globocratore: seduto sul globo, simbolo del creato, e affiancato da due angeli, il Redentore porge la corona del martirio a San Vitale (a sinistra), titolare della Basilica omonima, mentre il vescovo San Ecclesio (a destra), primo committente della stessa basilica, offre il modellino della stessa alla Maestrà Divina.

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Sulle due pareti presbiteriale di varco al catino absidale spiccano i due celeberrimi pannelli musivi del corteo imperiale di Giustiniano e della moglie Teodora”.

Questi, commissionato dall’esarca Massimiano a testimonianza del potere politico-spirituale del quale fu investito direttamente dall’imperatore d’Oriente, rappresenta in due scene il corteo imperiale per l’inaugurazione della Basilica ravennate nel 548 d.C. alla presenza degli stessi regnanti dell’Impero, nonostante questi, in realtà, non fecero mai visita a Ravenna, né tanto meno nel giorno inaugurale. Tuttavia, la scelta di rappresentarne i ritratti dev’essere interpretata dai fedeli e dal visitatore come l’onnipresenza spirituale di Giustiniano e di Teodora nei domini dell’esarcato come vicari di Cristo in terra.

Nel pannello di destra è “Teodora e la sua corte” : l’imperatrice, posta al centro entro una nicchia con catino mosaicato a conchiglia, porta come offertorio il calice del vino affiancata da due donne, identificate rispettivamente con la moglie e figlia del generale dell’Impero, Belisario, seguite, a loro volta, da cinque ancelle. La processione è aperta da due dignitari di corte, uno dei quali scosta la tenda dello stipite per facilitarne l’entrata in basilica. Ciò è indice dell’ambientazione esterna, sottolineata ulteriormente dal fondale verde, simbolo dei giardini del Paradiso, e dalla fontana all’estrema sinistra dinanzi l’ingresso, a testimonianza dell’antico quadriportico che lì sorgeva, prima che venisse abbattuto per far spazio all’àrdica a fòrcipe di cui si è detto sopra.

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Teodora indossa la corona imperiale tempestata di gioielli, pietre preziose incastonate e perle al pari della lunga collana con pendenti che le attraversa il busto, e veste un pesante mantello porpora, simbolo del potere imperiale, sul cui bordo inferiore sono rappresentati i Re Magi che, come l’imperatrice, offrono i loro doni, oro, incenso e mirra al Salvatore.

A sinistra, invece, è “Giustiniano e il suo seguito” : l’imperatore porta una patèna d’oro con il pane eucaristico fiancheggiato a sinistra dai soldati in armature e scudo con il Chrismon, e da tre dignitari di corte, uno dei quali barbuto e identificato con il generale Belisario, che riuscì a scacciare definitamente gli Ostrogoti da Ravenna nel 553 d.C. Il clero, invece, è rappresentato alla destra di Giustiniano nei tre uomini in vesti liturgiche: il turiferario, ovvero colui che tiene in mano il turìbolo, cioè l’incensiere, il secondo con il messale e il terzo con pallio, velo omerale dorato e croce gemmata, facilmente identificabile con l’esarca Massimiano grazie alla scritta latina “Maximianus”.

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Contrariamente al corteo di Teodora, la processione dell’Imperatore si compie all’interno della basilica, riconoscibile dal soffitto a capriate lignee riprodotto sulla fascia superiore del pannello musivo.

In entrambi le scene è proposto il fenomeno dell’isocefalia, in quanto le figure presentano la stessa altezza e queste, inoltre, appaiono bidimensionali con volti atarassici, vale a dire inespressivi. Ciò perché gli ignoti maestri mosaicisti bizantini, anziché curare la forma e il volume, hanno tentato di focalizzare l’attenzione sulla preziosità dei tessuti, sulla solennità e ieraticità dell’evento celebrativo. Attraverso il ribaltamento del piano permette ai regnanti di esser posti in posizione centrale privilegiata, anziché a inizio corteo, e la loro importanza socio-spirituale è contrassegnata dalle aureole che ne circondano il capo. Nella concezione bizantina, infatti, l’imperatore è il tramite tra Dio e gli uomini, quindi, la sua dignità, così come quella della moglie Teodora, sono simili a quelle dei Santi.

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Infine il fondo luminoso privo d’impianto prospettico e ottenuto con foglie d’oro tenuto insieme da tessere di pasta vitrea determina un’assenza spazio-temporale come simbolo della dimensione ultraterrena in cui le stesse figure appaiono quasi sospese e senza peso nella loro rigidità e ripetitività di gesti.

L’esperienza vissuta è servita alla mia formazione perché ho potuto godere attraverso gli occhi, arricchendo mente e cuore allo stesso tempo. Dunque, credo fermamente nella frase “Mi affascina solo chi mi sa stupire, tutto il resto è noia”.

Il colore dell’Oro

Il colore dell’Oro

di Emanuela Capodiferro

Una materia unica

L’oro è un minerale dal fascino indiscutibile, usato dall’uomo già nell’età preistorica accanto al più frequente rame. Duttilità, malleabilità ma anche resistenza all’attacco degli agenti esterni hanno reso questo minerale raro il metallo nobile per eccellenza. Solitamente in natura si trova legato all’argento, per cui gli oggetti più antichi sono non tanto in oro puro ma in elettro, una lega che comprende anche argento appunto. Dal X secolo a.C. in poi si comincia a impiegare la tecnica che permette di ottenere oro puro attraverso l’uso del crogiolo.

Il significato nell’Antichità

Il principale motivo che ha reso l’oro prezioso agli occhi dell’uomo è indubbiamente il suo colore: glorioso, sfolgorante e giallo come il sole. Fin dalle epoche preistoriche l’astro era simbolo delle divinità principali negli arcaici pantheon e ad esso erano tributati culti di grande rilievo riconoscendo in esso la prima fonte di vita. Ogni volta che si voleva richiamare, attraverso l’arte, la divinità, spesso si impiegava l’oro nella figurazione. In principio non è ancora presente nei dipinti ma in oggetti preziosi, gioielli e utilizzato come moneta di scambio.

Orna la cima di piramidi, obelischi, l’interno di tombe e templi spesso decorati ricorrendo all’oro o al giallo proprio quale riferimento alle divinità solari. Gli Egiziani ritenevano che la stessa sostanza del sole fosse oro liquido.

Salute a te, oh Râ!

Nella tua bellezza e nella tua perfezione

in qualunque posto tu sia

e nel tuo brillante oro.

Omaggio a te, che ti elevi nell’oro

che rischiari i Due Paesi.

Il giorno in cui tu nascesti al mondo

quando tua madre ti fece infante nelle sue mani

Tu hai rischiarato l’orbita del disco solare.

In questo inno presente nei Testi delle Piramidi è esplicito il riferimento a Râ, dio del sole, come sostanziato d’oro e accanto a lui anche in altre civiltà le divinità solari era rappresentate sempre con l’oro o il giallo oro.

Rappresentazione del Sole, Arte egizia

Anche i miti greci rappresentano con l’oro la sostanza divina. Notissima è la leggenda del vello d’oro ricercato dagli Argonauti, e altrettanto lo è il mito di Eos, personificazione dell’Aurora, di Elio, la divinità che conduce il sole raggiante su un carro durante il giorno fino ad immergersi al tramonto in una coppa d’oro.

Anche Apollo, dio greco della salute del corpo e dell’anima (attraverso la poesia) e altra personificazione del sole, ricevette un culto luccicante d’oro prima in Grecia e poi nel mondo romano.

La materia dorata oltre ad essere associata al sole è anche simbolo di incorruttibilità e immutabilità, per cui di tutto quello che è sacro ed eterno. Zeus per amare la bella Danae si muta in pioggia d’oro. Ma anche le rappresentazioni di Atena, Demetra, Ermes o Dioniso parlano di chiome dorate e di armi auree e preziose.

Anche presso gli Ebrei, l’oro era simbolo di sacralità, basti pensare alla descrizione dell’Arca dell’Alleanza nella Bibbia.

“Faranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì. Nell’arca collocherai la Testimonianza che io ti darò.”

Esodo XXV, 10-16

L’oro nella lunga stagione bizantina

Il simbolismo dell’oro come luce ultraterrena e spiritualità divina viene completamente assorbito dall’arte cristiana matura che definiamo bizantina. Difficile pensare alle icone senza l’oro rilucente dei loro sfondi. Infatti è la materia dorata, sotto forma di foglie d’oro legate allo sfondo trattato delle tavole o a tessere di mosaico trasparenti che includono sottilissimi fogli d’oro sul fondo, a rendere i soggetti dipinti intangibili, privi di materia e appartenenti ad una dimensione ultraterrena, priva di tempo. Nella pratica la realizzazione delle icone trova il suo riferimento filosofico nelle teorie di Plotino, il maestro dell’estetica della luce. L’arte può permettere la comprensione della verità se non si limita a imitare il reale ma supera il sensibile e diventa collegamento con il mondo superiore e divino. Ad esprimere la luce divina nulla di meglio che l’oro delle icone in cui è protagonista insieme ai grandi occhi dei volti. La doratura dello sfondo è la rappresentazione di questa luce ultramondana e sacra rintracciabile nei dipinti delle più antiche età bizantine fino alle icone russe contemporanee che ricalcano antiche tradizioni locali. E nell’icona, come dice Dionigi l’Areopagita, troviamo “la raffigurazione visibile di uno spettacolo, misterioso e soprannaturale”.

Mosaico della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli: Cristo Pantocratore con l’imperatore Costantino IX e sua moglie Zoe.

Anche i grandi artisti del Duecento e del Trecento, codificatori del linguaggio artistico italiano, scelsero di volta in volta di impiegare il fondo oro nelle loro composizioni o di farne a meno.

Simone Martini, Annunciazione tra i Santi Ansano e Margherita, Galleria degli Uffizi, 1333

L’oro nell’Arte contemporanea

Lo sfondo dorato abbandona la grande Arte occidentale al termine della prima stagione rinascimentale e resta relegato nella tradizione della pittura sacra dell’Europa Orientale. Lo sperimentalismo e direi l’umiltà dell’Arte nel XIX secolo indussero molti artisti a ritrovare tecniche e modalità del passato con esiti e applicazioni del tutto nuove. É il caso dell’Art Nouveau e di uno dei suoi più alti esponenti: Gustav Klimt. Sicuramente influenzato dal lavoro paterno di orefice ma anche dai magnifici mosaici ravennati ammirati attentamente insieme alle opere del gotico Gentile da Fabriano, l’artista viennese fece in modo di rendere l’oro protagonista non come semplice sfondo ma come materia capace di trasfigurare e rendere eterno il reale.

Gustav Klimt, Il bacio, 1907-1908. Olio su tela, cm.180×180. Vienna, Osterreichische Galerie.

La tecnica dell’applicazione della foglia d’oro

Tecnica assai complessa quella dell’applicazione della foglia d’oro, richiede la preparazione attenta di una base di argilla liquida rossastra chiamata bolo. Inoltre prima di far aderire con grande delicatezza le leggerissime ma preziose fogli d’oro occorre applicare una miscela di albume e acqua per mantenere umida e adesiva la superficie.

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Il Mosaico: la pittura per l’eternità

Arte e tecnica sono intimamente connesse, comprendere queste connessioni è la chiave per comprendere molti sviluppi e orientamenti analizzati dalla Storia dell’Arte. Motivo per cui tra i temi trattati vogliamo considerare anche gli aspetti tecnici sia dal punto di vista formale che storico e pratico. Qui cominciamo con una delle tecniche più durevoli: il mosaico.

Tecnica antichissima, può a buon diritto chiamarsi pittura per l’eternità (come fu definita dal Ghirlandaio), infatti in condizioni di stabilità del supporto a cui aderisce, il mosaico può perdurare per tempi lunghissimi. Abbiamo infatti pregevoli mosaici risalenti ad epoche antichissime.

Il termine deriva dal latino opus musivum con probabile riferimento alle Muse e alle decorazioni delle grotte dedicate ad esse. Gli esempi presenti in Grecia, per esempio, ci permettono insieme alla pittura vascolare, di ricostruire i primi passi della pittura tradizionale (su tavola o murale) di cui invece non abbiamo quasi più traccia. Del resto spesso con il termine mosaico spesso si comprendono tecniche differenti come il litostrato in cui però non vi è l’impiego di tessere ma di ciottoli variopinti.

Sicuramente l’opera più nota di questa tipologia è la Battaglia di Isso scoperta negli scavi di Pompei e probabilmente copia di un mosaico più famoso di Filosseno da Eretria.

Battaglia di Isso, Museo archeologico di Napoli, III a.C.

Tracce di mosaico con tessere vitree sono note in Egitto ma la tecnica ebbe più larga diffusione in epoca romana e Plinio riporta alcune notizie sulle origini nel Naturalis Historia. Probabilmente per ottenere effetti cromatici più intensi e ricchi si pensò di introdurre accanto alle normali colorazioni delle pietre le tessere in pasta vitrea.

Le modalità tecniche

Per creare il mosaico sull’intonaco veniva steso, ma solo nell’area lavorabile nell’arco di poche ore, uno strato di mastice. Su questo supporto adesivo andavano adagiate le tessere musive, con dimensioni variabili in base alla disposizione, più piccole se destinate a riprodurre le figure, più grandi se utilizzate per lo sfondo. Le tessere potevano essere in terra cotta, in vetro trasparente o opaco oppure auree. Le opere realizzate spesso quali inserti della decorazione parietale erano spesso delimitate da cornici di conchiglie.

Mosaico con Nettuno e Anfitrite, Ercolano, I sec. d.C.

Il mosaico bizantino

Nell’Arte bizantina il mosaico diviene l’espressione artistica più caratterizzante, esprimendo al meglio le peculiarità delle figurazioni sacre. Anche la tecnica si evolve: oltre all’utilizzo di gamme cromatiche sempre più ampie e preziose si impiega un letto di intonaco più fine e resistente. In particolare gli sfondi realizzati con tessere dorate contribuiscono alla suggestione di una realtà divina e ultraterrena, aggiungendo ieraticità alle figurazioni.

Gli edifici sacri ravennati, realizzati tra il V e il VII secolo, accolgono alcuni tra i più straordinari mosaici bizantini come il Mausoleo di Galla Placidia o la Basilica di San Vitale.

Mausoleo di Galla Placidia, Mosaico con lunetta del Buon Pastore, Ravenna, V secolo

Le figure, frequentemente, vengono realizzate a parte e poi aggiunte alla decorazione musiva delle pareti, per consentire di elaborare con maggiore cura i dettagli più raffinati.

Non ci sono descrizioni della tecnica risalenti al periodo bizantino ma dalle stesse opere emerge la presenza di tre stati di intonaco man mano più fine, le dimensioni medie delle sezioni che i mosaicisti riuscivano a realizzare nell’arco di un giorno (circa 50 x 50 cm) e le modalità di disegno della figurazione. L’artista delineava le figure sull’intonaco fresco e col tempo cominciò a realizzare una sorta di affresco come disegno di base, come appare evidente nei mosaici di San Marco a Venezia.

L’evoluzione basso-medievale

Con l’invenzione del linguaggio italiano anche in pittura, l’impiego del mosaico si riduce notevolmente. La tecnica ricalca quella pittorica dell’affesco, per cui le tessere assumono forme diverse e soprattutto si dispongono a seguire l’andamento del disegno. Nei dettagli i mosaicisti impiegano tessere di dimensioni molto piccole per poter registrare meglio i passaggi di ombra e di luce.

Mosaici della Cappella Palatina nel Palazzo dei Normanni, Palermo 1143 ca.

Dal periodo rinascimentale in poi la tecnica musiva cade in disuso e solo pochi artisti decidono di impiegarla. Tra questi Raffaello che affida al veneziano Luigi De Pace, la decorazione musiva della cupola di Santa Maria del Popolo su suoi disegni.

La tecnica musiva torna in auge nel XX secolo come vedremo in un prossimo post dedicato al mosaico nell’Arte contemporanea.