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LETTURA OPERA: LA “PIETÀ DI SANTA CHIARA” DI PIETRO NOVELLI IL MONREALESE.

LA “PIETÀ DI SANTA CHIARA” DI PIETRO NOVELLI IL MONREALESE

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Pietà di Santa Chiara”

– Anno:1646 ca.

– Tecnica: olio su tela

– Dimensioni: 336 x 220 cm.

– Ubicazione originaria: fino al 1827, prima Cappella della navata destra della chiesa di Santa Chiara di Palermo; successivamente fu traslata nella chiesa del Reclusorio “di Saladino” (dal nome del benefattore committente), ove rimase fino al 1940.

– Ubicazione attuale: dal 1940, Palermo, Museo Diocesano.

– Ultima esposizione: Mostra “Gesù. Il Corpo, il Volto nell’arte”, a cura di Timothy Verdon, Scuderie Juvarriane della Reggia di Venaria Reale (To), 1 aprile – 1 agosto 2010. A Repetita iuvant…Repetita Novelli!!!  Si è già avuto modo di parlarne QUI. Il fine è quello di presentare ai nostri gentili lettori un maestro del Seicento inviso alla storiografia 2.0 e sconosciuto, se non altro, dagli studenti e/o amanti dell’arte di nuova generazione. Come affermava il Di Giovanni nelle sue “Opere d’arte nelle chiese di Palermo” (1827) si tratterebbe dell’ «ultima opera di Pietro Novelli, che può pareggiare colle migliori opere dei più valenti maestri». Il soggetto dell’opera in esame sembrerebbe interpretare l’intitolazione della cappella palermitana per la quale fu concepita, presentando il consolidato tema iconografico della “pietà” della Vergine Addolorata sul corpo del Cristo deposto sul Golgota e coppia di angeli ai lati. Nonostante oggi la tela appaia in taluni punti appesantita da vistose ridipinture, essa rievoca chiare suggestioni caravaggesche e carraccesche, riberesche- stanzionesche: al primo stile si ascrive l’assimilazione della stesura drammatica compostamente interiorizzata; mentre al secondo l’impianto stilistico d’insieme, in linea con il classicismo barocco, e rintracciabile, in particolar modo, nella “Pietà” della Certosa di San Martino di Massimo Stanzione, datata 1638, e nell’altra, di egual soggetto, del Museo napoletano di Capodimonte di Annibale Carracci, collocabile negli anni 1599-1600. Tuttavia, attraverso una meditata semplificazione formale, il Monrealese seppe sintetizzare la tragedia evangelica stagliando a sinistra il fusto di un albero reciso, simbolo del “Sacro legno”, e sul torace del Cristo esanime la ferita al costato da cui sgorga un rigolo di sangue, già, riverso sulla coscia e assorbito dal candore del lenzuolo. E di rosso sono unti anche gli strumenti della Passio come i chiodi e la corona di spine, scorciati in primo piano a guisa del Redentore.

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L’opera è in linea con i dettami controriformisti, saldamente radicati nell’isola a metà Seicento, per i quali le scene relative all’opera salvifica della croce avrebbero dovuto mirare in primaria istanza a suscitare presso i fedeli sentimenti di struggimento e misericordia, facendo leva sull’enfatizzazione del pathos: la Vergine mostra un dolore intenso ma degnamente contenuto, limitandosi a un dialogo diretto con la presenza invisibile del Creatore, verso cui cerca conforto volgendo un ultimo rassegnato languido sguardo, amplificato dalla linea tagliente della mano destra indicante il Figlio, ormai, spirato, la quale, altresì, squarcia incisivamente lo spazio intercorrente tra la tela e lo spettatore. Calibratissimo, poi, il compendio tra la solida inquadratura compositiva e la forza espressiva dei giochi chiaroscurali, intrisi, questi, sullo sfondo di note di quel “tenebrismo” ampiamente maturato dal Novelli sulla lezione, come succitato, di Caravaggio, Ribera e Stanzione, a cui fa da cornice l’indiscutibile contributo offerto dalla riflessione sull’esperienza vandyckiana, assimilata a seguito del soggiorno palermitano del maestro di Anversa tra il 1624 e 1625. Se, come si è detto, il gruppo delle figure pare trovi le sue dirette fonti iconografiche nella “Pietà” dello Stanzione e, in parte, in quella carraccesca, è, a ragion di logica, plausibile, se non altrettanto diretto, il richiamo al modello compositivo dell’ “Immacolata Concezione” proposto dallo stesso Novelli per l’omonima chiesa palermitana nel 1637-40. D Un attento confronto tra le due opere ci permetterebbe di notare in entrambe lo stesso impianto scenografico con schema compositivo geometrico curvilineo, costituito: dalla coppia di angeli prossimi al corpo esanime di Cristo, avvolto nel sudario dall’andamento circolare, e dalla Vergine Addolorata sulla bisettrice nella “Pietà”; dalla coperta di nuvole anch’esse dall’andamento curvo, ma stavolta ellittico, su cui poggiano putti alati e il trio di angeli prossimi, anche in questo caso, alla bisettrice della Vergine Immacolata. Speculari, poi, la gestualità, la postura e il cromatismo dei due angeli rispettivamente ai lati del Cristo nella prima opera e dell’Immacolata nella seconda: in ambo i casi gli angeli in questione sono ubicati nelle medesime posizioni compiendo i medesimi gesti di orazione e di “reggidrappeggio”. FG Si diceva pure dell’impianto luministico affidato al sapiente contrasto chiaroscurale di scuola seicentesca, ove i profili plastici sono modellati dalla sorgente di luce diretta obliquamente da destra (la sinistra di chi guarda) verso sinistra (la destra di chi guarda), definendo in maniera analitica i volumi torniti di Cristo e i drappeggi morbidamente forgiati da un deciso cromatismo, tutto giocato sui timbri del primari blu, rosso e giallo, maggiormente esaltati dagli squilli del neutro bianco del sudario. Sono questi lampi cromatici chiaroscurati a distaccare le figure dal tetro fondo nebuloso permettendo loro di emergere con tutta la forza della loro vigorosa massa. Perché come ricorda Vicenzo Scuderi (1990): «quella luce caravaggesca che, prima e dopo dell’aristocratico tono vandyckiano, fu esperienza e suggestione profonda e determinante della sua giovinezza; esperienza e suggestione poi più volte non senza significato e sino al momento conclusivo della sua vicenda, richiamata, coltivata e rivissuta in tante accezioni, ‘tra reale e ideale’»

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Esploriamo l’Opera di PIETRO NOVELLI: SAN BENEDETTO DISTRIBUISCE LA “REGOLA” SOTTO FORMA DI PANE AGLI ORDINI CAVALLERESCHI E RELIGIOSI

“S. Benedetto distribuisce i pani o S. Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi”

di Filippo Musumeci

– Anno: 1635

– Tecnica: olio su tela

– Dimensioni: 380 x 520 cm

– Ubicazione originaria: Monastero benedettino di Monreale (Palermo)

– Ubicazione attuale: Monastero benedettino di Monreale (Palermo) – parete destra dello Scalone.

Il dipinto, concordemente riconosciuto dalla critica come il più celebre della feconda produzione artistica del Monrealese, fu eseguito su commissione del Monastero benedettino di Monreale e, dapprima, ubicato in una parete del refettorio dello stesso, come ricorda il conte Rezzonico nella seconda tappa del suo “Viaggio” nella patria del pittore: «Il giorno 2 di settembre [1794] fui di nuovo a Monreale per vedervi il quadro del Refettorio de’ Padri Benedettini […] di Pietro Novelli.» (1828).

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Vincenzo Scuderi sostiene che il restauro del 1972 sia giunto ad evidenziare come la tela, inizialmente di forma lunettata per adeguarsi alla copertura del suddetto refettorio, al seguito del suo trasferimento nel 1797 sulla parete destra del nuovo scalone monumentale del Convitto Guglielmo di Monreale, abbia assunto un coronamento rettilineo, in quanto privata della parte superiore per mano del pittore neoclassico Giuseppe Velasques, il quale restaurò anche alcune parti accessorie.
Un rapido mutamento mentale e linguistico nell’arte del Novelli avviene intorno al 1633, in cui si colloca l’avvio del rapporto preferenziale con la grande committenza locale laica e religiosa, destinato a durare e crescere nel tempo: frutto di quel progetto di incentivazioni religiose popolari e nobiliari promosso dalle istituzioni vicereali e spirituali al seguito del Concilio di Trento (1545-1563).
Si ridimensionava il valore delle immagini miracolose a favore del primato della finalità didattica e pedagogica delle immagini, che dai calvinisti veniva accordata solo alla predicazione e alle Sacre Scritture. L’arte sacra, dunque, assumeva il ruolo di catechismo e quindi doveva essere ineccepibile dal punto di vista teologico e morale.
A tali ideali, ormai dotato di strumenti stilistici idonei e non certo dissenziente nell’animo, il trentenne Monrealese fornisce l’ampia disponibilità e versatilità dei suoi mezzi pittorici: dalla larghezza compositiva all’efficace disegno, dal vigore plastico e costruttivo alla penetrazione psicologica dei personaggi, sino alle decise gamme cromatiche e alle atmosfere tonali, ora fulve e calde, nelle tele, ora fresche e luminose, negli affreschi.
Il soggetto del dipinto s’ispira, come tanti del pittore, ad una fra le più ricorrenti iconografie della storia dell’arte:

quella benedettina, avente per nota caratteristica la concezione altamente caritatevole ed ascetica del Divino, nonché l’esaltazione delle sacre virtù di S. Benedetto da Norcia (480-543 d.C), fondatore del più antico ordine religioso in Occidente; «legislatore sapiente delle monastiche occidentali adunanze»; patriarca della Chiesa pellegrina sulla terra.
Il quadro, considerato da G. Di Stefano: «esclusivamente terreno e paesisticamente ambientato», presenta quattro gruppi di persone in abiti d’epoca: i primi tre, aventi per protagonisti chierici e cavalieri, sono disposti sul centro a raggiera in posizione leggermente indietreggiata rispetto all’ultimo, il quale, costituito essenzialmente da laici, è posto in primo piano a destra, anche se più distaccato dal nucleo centrale.
Nello specifico, nel primo gruppo da sinistra sono rappresentati: il Beato Bernardo Tolomeo (fondatore dell’Ordine dei Benedettini bianchi), S. Roberto (istitutore dei Cistercensi), S. Brunone (padre dei Certosini), S. Giovanni Gualberto, con in mano il tempietto (istitutore dei Vallombrasani), S. Romualdo (istitutore della ramificazione dei Camaldolesi) e Papa Celestino III, con in mano la tiara papale. Al centro è raffigurata la scena principale che dà titolo all’opera: S. Benedetto, nella sua senile e paterna immagine, impegnato nell’atto misericordioso di distribuire i pani agli astanti immediatamente a lui più radenti, mentre alle sue spalle due discepoli, in posizione retta e vestiti in univoca maniera con i tradizionali sài neri monacali dell’Ordine, reggono la mitra e il pastorale del loro maestro. Nel terzo gruppo, più sparuto e decentrato verso destra, sono riconoscibili, cinti nei loro bianchi manti contrassegnati, rispettivamente, dalle croci verde gigliata all’estremità, gialla e blu con ali dorate: il Cavaliere dell’Ordine di Alcantara (istituito da D. Suarez Fernandes Barrientos a S. Juliao de Pereyo nel 1156) raffigurato mentre riceve il pane dalle mani del Santo di Norcia; il Cavaliere di Montesia (afferente all’Ordine istituito da Giacomo II d’Aragona nel 1320) ed infine il Cavaliere dell’Ordine di Cristo (fondato da Dionisio re del Portogallo).
Completano il tutto: il gruppo familiare ricco di evocazione bucolica e il casolare diruto stagliato in fondo al paesaggio (A. Mazzè, 1989).
Ancora il conte Rezzonico afferma che «il pittore effigiò se stesso in uno dei cavalieri di S. Giacomo [il Montenera, accanto all’albero] e la sua figlia [Rosalia] e i suoi nipoti in una vaga donna che scherza amorosamente con due fanciulli. Avvi pure il ritratto di suo padre in un bellissimo vecchio con folta e nera barba, e dipinto in profilo, e tutti que’ volti sembrano di viva carne e le pieghe degli abiti sono a maraviglia gittate, e senza il minimo stento». Ad identificare nelle fattezze della giovane fanciulla la bellissima moglie del pittore, e non la figlia Rosalia, sarà il Gallo (1830).

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L’opera assomma tutte le peculiarità dell’arte novellesca: quel noto eclettismo che abbraccia il classicismo rinascimentale – da Michelangelo e Raffaello soprattutto – naturalismo e luminismo caravaggesco, aristocratici toni vandyckiani, neoveneti e poussiniani, solidità carreccesca, cromatismi e movimento lanfranchiano o guercinesco (V. Scuderi, 1990).
«Dal cielo nuvoloso e dal paesaggio romantico si diffonde una calda luce giallastra che permea tutta la scena e fonde i valori cromatici, che dal manto del Pontefice e dalla tunica bianca del monaco seduto al giallo della viste femminile e al rosso del vecchio contadino include la bianco-nera teoria degli adepti benedettini. Interessante, anche perché raro nel Novelli, lo spunto paesistico, tutto a destra in modo da portare verso il centro il gruppo, complesso per forme e per colori, dei fedeli e dei cavalieri. Ma anche qui il carattere più nobile è dato dalla toccante intensità psicologica dei personaggi, in cui la nobiltà di spirito si straduce in una chiusa umanità malinconica» (Di Stefano, 1889), quella che Giulio Carlo Argan vedrà come «la sensibilità ansiosa e la malinconia insulare dell’artista».
Il titolo stesso dell’opera è di per sé una chiara spiegazione del tema rappresentato dal pittore. La complessa scena, che lo Scrofani (1827) voleva di carattere storico e pertinente ad un miracolo del Santo compiuto intorno all’anno 1000, è ricca di contenuti emblematici attinenti alla difesa e propaganda della fede.
Il significato più veritiero e corretto del tema è stato sciolto ed illustrato dall’Abate G. B. Tarallo «come allegoria dell’alimento vitale della fede che la regola benedettina, simboleggiata dal pane, fornisce sia all’ordine stesso nei suoi vari rami, rappresentati dai vari fondatori, sia agli ordini cavallereschi affiliati, nonché allo stesso popolo dei fedeli» (V. Scuderi).
In altre parole, il dipinto «coniuga in un’armonica simbologia la ramificazione dell’Ordine benedettino nei tre indirizzi, religioso, cavalleresco e laico».

L’argomento della Consegna della Regola è ripetutamente trattato nei monasteri benedettini del Centro-Sud e con tipologie quasi costanti: a Camaldoli (Bassano) come a Napoli, in SS. Severino e Sossio (Belisario Correnzio) o a S. Pietro a Maiella ad opera di Nunzio Rossi e Alcamo come a Caltanissetta (A. Mazzè, 1980).
L’inserimento della famiglia del Novelli nella rappresentazione accanto alle più alte cariche ecclesiastiche e cavalleresche non è un fatto casuale, ma esprime un preciso aspetto della catechesi o dottrina sociale della chiesa post-tridentina, mirante ad un vero rimescolamento delle classi in un unico movimento devoto, che si potesse esprimere soprattutto nelle Congregazioni. Da ciò, anche, la nobile e peculiare atmosfera estetico-morale, la superiore unità fantastica che accomuna gruppi e personaggi, pur con tante diversità intrinseche. (V. Scuderi).
Per un’adeguata comprensione dell’arte del Monrealese, si necessita di attenzionare le fondamenta culturali e gli interessi delle componenti sociali, con le relative radici storiche. Ne sono valido esempio gli ideali neofeudali e cavallereschi da un lato, pienamente condivisi dal Novelli, e la morale neostoica dall’altro, largamente utilizzata dalla catechesi religiosa, gesuita specialmente. «Quale meraviglia, dunque, in tale contesto culturale, che gli ideali maturi e definitivi del Novelli si polarizzassero, a così dire, tra la figura-valore del “Cavaliere” in cui, notoriamente ci si presenta nella Benedizione dei pani di Monreale e quella di austero “Eremita”, quale lo vediamo nel quadro di Casa Professa?» (V. Scuderi).
La critica ha fornito una chiave di lettura del rudere di antiche costruzioni che il Monrealese introduce in alto a destra, sostenendo che per il noto simbolismo della rovina del paganesimo e delle sue strutture alla luce del verbo cristiano, una interpretazione più che altro di tal genere riteniamo che occorra dare alle ambigue e quasi sbozzate forme dell’inserto novellesco; in cui, a ben guardare, si può vedere anche una targa marmorea sul fornice in primo piano. Non sembra, allora di poter escludere del tutto una conoscenza del Novelli delle tele già a Roma e delle incisioni del Rubens con vedute del pittore fiorentino tardo-manierista Filippo Palatini.

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Bibliografia

• Guido Di Stefano, Pietro Novelli, il Monrealese, prefazione di Giulio Carlo Argan.
Catalogo delle opere e repertori a cura di Angela Mazzè, Flaccovio, Palermo, 1989.

• AA. VV., Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra, Palermo, Albergo dei Poveri, 10 giugno – 30 ottobre 1990, Regione Siciliana, assessorato Regionale dei Beni Culturali ambientali e della Pubblica Istruzione, Flaccovio, Palermo, 1990.

• Vincenzo Scuderi, Novelli in Kalós, maestri siciliani, Palermo, marzo-aprile, 1990.

Pietro Novelli, il Monrealese: un pittore “provinciale”?

Pietro Novelli, il Monrealese: un pittore “provinciale”?

di Filippo Musumeci

Chi ha studi filosofici alle spalle (io no, purtroppo) insegna che Immanuel Kant, nella sua “Critica del giudizio” (1790), asserisca quanto i giudizi estetici siano giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto. Uhm, non sarebbe male riprendere “adeguatamente” in mano questa pietra miliare della filosofia moderna!! In parole povere – correggetemi se sbaglio – il bello non è una qualità oggettiva (propria) delle cose, poiché non esistono oggetti belli di per sé, ma è il singolo individuo ad attribuire tale caratteristica all’opera d’arte. Ora, quante volte siamo stati portati a subire l’influenza di un giudizio estetico espresso da un individuo socialmente autorevole, al punto tale da vivere un divario interiore, un acerrimo scontro di vedute tra il nostro, di giudizio (maturato e limato lentamente), e quello austeramente impostoci da altra fonte? Non so voi, a me qualche volta è successo! Ma arriviamo al dunque senza troppi giri inutili di parole, con le quale, poi, non vado certo a nozze. Sarà stato nel febbraio 2003 quando, giunto felicemente al termine del terzultimo esame universitario, ricevetti dalla prof. del corso il severo giudizio “estetico” sull’arte di Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 2 marzo 1603 – Palermo, 27 agosto 1647), definito nell’occasione come un “provinciale” di cui in passato si era detto e scritto più del dovuto e dei reali meriti. Ricordo la disapprovazione e la collera, trattenute a fatica, in quell’affiorante divario interiore, prima succitato, a causa del quale, poi, lasciando la sede a capo chino e  “coda tra le gambe” (avevo alternative?), non godetti neppure del sollievo post-esame e del meritato riposo durante la notte insonne che amaramente ne seguì. Sì, perché a me era stato, piuttosto, insegnato dalla storiografia e dalle spasmodiche visite palermitane al cospetto delle sue tele (disseminate ovunque in città), che la pittura del Monrealese tutto fu tranne che “provinciale”; che fu il massimo interprete nell’isola del Seicento barocco, erede della novità espressive caravaggesche e vandyckiane; che fu osannato dai mecenati insulari (e non solo) a lui contemporanei, i quali facevano a gare per averne un’opera autografa.

LAA006537Pietro Novelli, S. Benedetto distribuisce i pani o S. Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi; 1635; olio su tela; 380 x 520 cm. Abbazia Benedettina di Monreale (PA) – parete destra dello Scalone.

2hg64hlPietro Novelli, San Pietro in carcere liberato dall’Angelo. Olio su tela, sec. XVII. Palermo, Galleria Regionale della Sicilia, Palazzo Abatellis.

Diamine! Possibile sia vera (in barba al furor di popolo), questa storia sul “provinciale”? Possibile che le opere del Monrealese, custodite anche fuori dei confini isolani (Roma, New York, Prado, San Pietroburgo), siano, in fondo, da considerarsi più per il loro valore storico anziché artistico? Possibile, in definitiva, debba accantonare la mia idea a tal proposito e abbracciarne un’altra, ahimè, più amara, ma, forse, veritiera? Ma la notte, seppur insonne, porta consiglio…E che consiglio!! Ricordavo di aver masticato qualcosa circa l’errato giudizio formulato nell’arco del Novecento dalla critica isolana e della superficialità attraverso la quale erano state indagate le componenti stilistiche del Novelli. Il giorno seguente mi recai trafelato alla Biblioteca Universitaria di Catania di p.zza Università. Chiesi in prestito alla allora gentilissima direttrice, di cui serbo superbo ricordo, i due voluminosi cataloghi relativi alle monografiche palermitane: • Guido Di Stefano, Pietro Novelli, il Monrealese, prefazione di Giulio Carlo Argan. Catalogo delle opere e repertori a cura di Angela Mazzè, Flaccovio, Palermo, 1989. • AA. VV., Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra, Palermo, Albergo dei Poveri, 10 giugno – 30 ottobre 1990, Regione Siciliana, assessorato Regionale dei Beni Culturali ambientali e della Pubblica Istruzione, Flaccovio, Palermo, 1990.

094Pietro Novelli, S. Benedetto distribuisce la «Regola» agli ordini monastici e cavallereschi; 1635;olio su tela; 520×340;  Monastero di S. Martino delle Scale (Monreale  – PA), Chiesa dell’Abbazia.

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Pietro Novelli, L’elezione di S. Mattia all’apostolato; 1640 ca; olio su tela; 390×278; Chiesa dei Cappuccini; Leonforte (EN).

Ebbi risposta e conferma ai miei “neonati” , quanto insensati, dubbi circa il giudizio estetico emesso da altre fonti. Poiché tali risposta e conferma mi venivano gratuitamente ed esaustivamente fornite da due insigni studiosi del calibro di Giulio Carlo Argan e Guido Di Stefano, di cui si riporto il testo. Scusate se è poco!! E non credo di dover aggiungere altro, se vi pare!! «Di Stefano, che aveva mente e cultura europee, vide chiaramente qual’era il nodo dell’opera pittorica di Novelli: oltrepassare i limiti del manierismo provinciale del padre, risalire a fonti europee, a Van Dyck da un lato, agli spagnoli dall’altro. Di Van Dyck, che fu a Palermo proprio quando il giovane siciliano esordiva in pittura, colse e rivisse la qualità saliente, la “naturalità” artificiale, ma non perciò meno autentica, della ritualità o cerimonialità del costume sociale. E dacché non era come Van Dick, uomo di corte, Novelli praticò quel galateo appassionato e commosso nella pittura di chiesa: devota, sicuramente, ma anche garbatamente, sommessamente mondana. Formò su quella civilissima idea dell’arte anche la concezione ch’ebbe di Palermo e del suo sviluppo: l’arte, nel suo concetto, era anche modello, esortazione, al viver civile» (Giulio Carlo Argan, 1989, pp. VII-VIII). «Pietro Novelli entra a buon diritto nella schiera dei pittori rappresentativi della metà del Seicento. Di questo tempo egli possiede completamente il linguaggio ed attuando con esso gli occasionali compiti illustrativi esprime spontaneamente, nella maggior parte dei casi, il suo senso di un’umanità profonda e chiusa, in cui si realizza un valore universale e regionale al tempo stesso. Che egli possieda completamente il linguaggio espressivo del suo tempo ce lo rivela facilmente l’esame delle opere, sicché se egli è un isolato in quanto non esce da una scuola e non ne inizia propriamente un’altra, non lo è affatto per quanto riguarda la sua formazione culturale artistica. Partecipano infatti ad essa tutte le correnti pittoriche: dalla scuola napoletana giungono a lui l’eclettismo accademico, il neovenezianismo ed il caravaggismo della prima e della seconda maniera; dai contatti col Van Dick e forse col Velazquez vengono a lui i risultati che la nuova pittura europea trae per magica alchimia dagl’insegnamenti veneziani, dall’esperienza italiane e dalle tradizioni locali. Come sempre, anche in lui, l’arte di Sicilia si nutrisce dell’arte del mondo; ma come sempre, essa trova in quest’aspetto prevalentemente ricettivo la radice del a sua sterilità. Così Pietro Novelli elaborò senza innovare, si espresse senza nulla insegnare. Ma se questo limita, com’ho detto in principio, il suo interesse storico, non ne intacca affatto quello estetico, ch’è correlativo solo all’espressività dell’artista. Ma di quale maestro fu egli più aperto seguace? Indubbiamente del Van Dick, a cui l’avvicinava quell’aristocratica inclinazione del temperamento che lo fa, in tono minore, compagno ideale di quei grandi artisti europei che furono gran signori e cortigiani di questo tempo: il Rubens, il Rembrandt, ed il Velazquez, oltre il Van Dyck. E poiché quest’accostamento, che si concreta nella predilezione per le forme nobili e per le calde luci brune, riposa su una fondamentale affinità di spirito e si realizzò storicamente nel periodo formativo dell’artista,m esso è appunto quello che sempre prevale e sempre riaffiora. […] Di tutti questi incontri stilistici e di questi moti interiori è frutto una pittura che è realistica e romantica al tempo stesso, precisa nell’analisi ed armoniosa nella sintesi, fusa in intonazioni calde e basse commiste con l’ombra, animata da un senso aristocratico distacco che invera una fondamentale austera malinconia. […] Fedele al suo tempo e a sé stesso, Pietro Novelli può dunque trovar posto tra gli artisti migliori del secolo, anche se la sua azione, per ragioni intrinseche ed estrinseche, per la sua natura ricettiva e per la sua localizzazione geografica, fu limitata nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo che la vita di molte sue creature pittoriche supera nell’universalità ed eternità dell’arte». (Guido Di Stefano,1989, pp. 47, 53).

P.S. Fra non molto pubblicherò un post su un’opera del monrealese. Spero vogliate leggerlo e condividerlo. E Se andaste a Palermo visitate pure la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis e l’Oratorio del Rosario di San Domenico. Forse, anche il vostro giudizio sarà, come il mio,  “pro-Novelli”.

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