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I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO AL GENIO DI MICHELANGELO MERISI detto il CARAVAGGIO

I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO AL GENIO DI MICHELANGELO MERISI detto il CARAVAGGIO (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, Grosseto, 18 luglio 1610), nell’anniversario della nascita.

“Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nell’apologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello e da Michelangelo, e persino nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto. Ma ciò che gli andava balenando era ormai non tanto il ‘rilievo dei corpi’ quanto la forma delle tenebre che li interrompono. Lì era il grumo drammatico della realtà più complessa ch’egli ora intravedeva dopo le calme specchiature dell’adolescenza. E la storia dei fatti sacri, di cui ora s’impadroniva, gli appariva come un seguito di drammi brevi e risolutivi la cui punta non può indugiarsi sulla durata sentimentale della trasparenza, anzi inevitabilmente s’investe del lampo abrupto della luce rivelante fra gli strappi inconoscibili dell’ombra. Uomini e santi, torturatori e martiri si sarebbero ora impigliati in quale tragico scherzo. Per restar fedele alla natura fisica del mondo, occorreva far sì che il calcolo dell’ombra apparisse come casuale, e non già causato dai corpi; esimendosi così dal riattribuire all’uomo l’antica funzione umanistica dirimente di eterno protagonista e signore del creato. Perciò il Caravaggio seguiva, e fu fatica di anni, a scrutare l’aspetto della luce e dell’ombra incidentali”.
(Roberto Longhi, “Caravaggio”, 1968)

MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO

IL FASCINO DELLA TELA PIU’ GRANDE DEL MONDO: IL GENIO DI GIOVAN ANTONIO FIUMANI NELLA CHIESA DI SAN PANTALON A VENEZIA

IL FASCINO DELLA TELA PIU’ GRANDE DEL MONDO: IL GENIO DI GIOVAN ANTONIO FUMIANI NELLA CHIESA DI SAN PANTALON A VENEZIA

di Sara Biancolin

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Può apparire alquanto bizzarro che un capolavoro dell’arte venga custodito all’interno di un edificio a primo impatto  anonimo e scialbo: è quanto, tuttavia, ci si trova di fronte se si visita la chiesa di San Pantalón a Venezia.

Proprio qui il nome di tale santo ebbe notevole risalto nel corso dei secoli, tanto che Pantaleone, oltre a divenire un nome comune, fu anche l’appellativo con cui divenne nota una maschera della Commedia dell’Arte: quella di Pantalon de’ Bisognosi, un anziano mercante che aspira alla scaltrezza ma che viene, ahimè, puntualmente ingannato dalle altre maschere di turno, fra le quali quella di Arlecchino. La tipica maschera di Pantalon indossa una lunga veste nera, una maschera dal lungo naso aquilino, babbucce alla turca e lunghi calzoni, da cui probabilmente il termine “pantalone”, che pare fosse un elemento di abbigliamento comunemente indossato dai primi popolani veneziani.

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La maschera di Pantaleone dunque, emblema della città di Venezia, divenne assai popolare in quanto portava in scena l’elemento della tradizione, tanto amato dai veneziani (definiti essi stessi “pantaloni”), affiancando il significato tardo e profano del nome ‘Pantaleone’ a quello della sua più antica dimensione sacra.

Tornando al nostro sito d’interesse storico-artistico: le origini della chiesa di San Pantalon vantano un passato millenario, che risalirebbe addirittura al 1009 e l’unica sua immagine antica di cui abbiamo testimonianza risulta essere quella contenuta all’interno della pianta cinquecentesca di Jacopo de’ Barbari, in cui è possibile individuare il carattere ancora gotico a tre navate della costruzione.

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Nascosto fra le case e le decine di calli che si diramano, talvolta tortuosamente, fino a raggiungere le sponde del Canal Grande, il piccolo edificio semi-sconosciuto, ora in stile barocco, fa capolino quasi inaspettatamente all’estremità di una ariosa piazzetta in Sestriere Dorsoduro (una delle sei sezioni in cui è suddivisa la città di Venezia). Si deve forse all’incompiutezza della facciata il suo carattere impersonale e privo di qualsivoglia ornamentazione: ricostruita fra il 1668 e il 1686 sulla base del progetto di Francesco Comin, esternamente si presenta in semplice cotto (ad eccezione delle cornici del portale e delle due porte laterali) con una sola apertura sulla facciata di forma semicircolare e presenta inoltre un piccolo campanile alto 46 metri, a pianta quadrata e con aperture a serliana. La chiesa venne consacrata nel 1745 dal patriarca cattolico Alvise Foscari.

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È l’interno a giocare un forte contrasto con quanto osservato sinora: la ricchezza di decori policromi invade l’unica navata e le sei piccole cappelle laterali, per poi culminare nell’altare maggiore seicentesco di ispirazione palladiana, opera dell’architetto di origine svizzera Giuseppe Sardi. Nulla tuttavia è paragonabile alla magnificenza che si ammira non appena si volge lo sguardo in direzione del soffitto: quello che a prima vista può apparire null’altro che un affresco ben riuscito è in realtà una sbalorditiva opera di sorprendente  abilità, un dipinto mastodontico eseguito ad olio su tela, che, con i suoi 443 metri quadrati, è considerata in assoluto la più grande al mondo. L’impatto è notevole e l’osservatore non può non sentirsi per qualche istante sopraffatto dalla vista e direttamente coinvolto nell’esperienza totalizzante di uno scenario prospettico, fra mille figure che troneggiano posate sulle architetture o che fluttuano in aria allontanandosi via via a perdita d’occhio in uno scenario trompe-l’oeil che sembra proseguire oltre il limite fisico dello spazio reale.

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Si tratta dello stupefacente “Martirio di San Pantalon“, opera del maestro veneziano Gian Antonio Fumiani (pittore specializzato nella realizzazione di scenografie teatrali e negli scorci prospettici dal basso verso l’alto) che fra il 1680 e il 1704 ne ultimò la realizzazione appena in tempo, dal momento che dopo ben 24 anni di duro lavoro, l’artista morì cadendo da un’impalcatura e venne sepolto, in seguito, proprio in questa chiesa. Fonti alternative riportano tuttavia testimonianza di Fumiani, vivo, a distanza di 6 anni dalla conclusione dell’opera.

L’eccezionale dipinto è in realtà composto da 40 tele unite fra loro e montate su un’unica tavola: si tratta del cosiddetto telèro, supporto pittorico tipicamente utilizzato nell’arte veneziana che si degrada in misura molto minore rispetto al più comune affresco e presenta una maggior resistenza al clima umido lagunare. L’opera ripercorre i momenti della morte e dell’assunzione al cielo di San Pantaleone di Nicomedia in Bitinia, medico presso la corte di Massimiano e martire fra il 305 e il 310 a causa di spietate persecuzioni contro i cristiani. San Pantaleone, martirizzato a seguito di accuse di magia e inspiegabili guarigioni da lui compiute, è posto al centro della scena mentre viene accolto da Gesù nel Paradiso ed è circondato da angeli in festa, ghirlande, palmizi e strumenti musicali; nella parte sottostante, ecco profilarsi le figure dei dodici apostoli, distribuiti a due a due al di sopra delle arcate che conducono alle cappelle, mentre agli angoli della controfacciata spiccano le quattro Virtù Cardinali (Fortezza e Temperanza a destra, Giustizia e Prudenza a sinistra) e a quelli del presbiterio le tre Virtù Teologali (la Speranza, addossata a un’ancora; la Fede, reggente un calice; la Carità, abbracciata a un bambino).

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Sul lato destro si apre la scena del giudizio di Pantaleone: qui il martire, ritratto in tutto il suo luminoso splendore nell’atto di chiedere perdono per i suoi stessi carnefici, ascolta la definitiva condanna da parte dell’imperatore Diocleziano (il personaggio seduto in trono avvolto da un mantello di colore rosso), che gli assegna una lunga serie di tormenti: fra questi, la condanna al rogo, l’immersione nel piombo fuso, l’immersione in mare con una pietra legata al collo, l’esposizione alle fiere. Una voce, proprio nell’istante precedente la sua morte, avrebbe risuonato dall’alto con queste parole: «Non sarai chiamato più Pantaleone, ma il tuo nome sarà Panteleimone, il misericordioso, colui che ha pietà di tutti […] sarai rifugio dei tribolati, protettore di chi soffre, medico dei malati…»; Panteleimone è infatti il nome con il quale il santo è venerato in Oriente (Panteleemon in lingua greca indica colui che di tutti ha compassione), mentre in Occidente si continua a fare fede al suo appellativo originario.

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Nella scena a sinistra, invece, i carnefici sono contraddistinti da una serie di oggetti che recano in mano (una corda, un bastone, un uncino), utilizzati per i numerosi martiri a cui fu sottoposto Pantaleone, che qui è sorretto nei suoi ultimi istanti di vita dalla Fede e dalla Speranza, mentre al di sotto troviamo, vinte e deluse, le personificazioni dell’Orgoglio e del Furore; sul lato opposto sono invece ritratte la Giustizia (raffigurata con una bilancia) e la Pace (accompagnata da un ramo di ulivo).

Un altro interessante riferimento alla vittoria sul male è presente anche sulla parte destra nella scena centrale della tela, ove un angelo con la spada punisce un gruppo di diavoli, mentre il grande angelo verso il presbiterio che fuoriesce dall’arcata e reggente un ramo di giglio nella mano destra e la palma del martirio nella sinistra è un chiaro invito al sacramento dell’Eucaristia che ha luogo nell’ambiente della chiesa sottostante.

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Il tema della figura del martire si sviluppa inoltre attraverso ulteriori opere collocate all’interno della chiesa: dal “San Pantaleone in prigione“, opera dello stesso Fumiani, al “San Pantaleone risana il fanciullo“, di Paolo Veronese (1587), che assieme alla tela del LazzariniSan Pantaleone guarisce gli infermi” (1702) decorano la seconda cappella laterale, dedicata anch’essa al martire di Bitinia.

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LA “CENA IN EMMAUS” DI CARAVAGGIO: DUE VERSIONI A CONFRONTO

 

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LA “CENA IN EMMAUS” DI CARAVAGGIO: DUE VERSIONI A CONFRONTO

di Martina Palmacci

Vangelo di Luca (24,13-35)

13 Or ecco, due di loro in quello stesso giorno andavano in un castello, il cui nome era Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi. 14 Ed essi ragionavan fra loro di tutte queste cose, ch’erano avvenute. 15 Ed avvenne che mentre ragionavano e discorrevano insieme, Gesù si accostò, e si mise a camminar con loro. 16 Or gli occhi loro erano ritenuti, per non conoscerlo. 17 Ed egli disse loro: Quali son questi ragionamenti, che voi tenete tra voi, camminando? e perché siete mesti?  18 E l’uno, il cui nome era Cleopa, rispondendo, gli disse: Tu solo, dimorando in Gerusalemme, non sai le cose che in essa sono avvenute in questi giorni? 19 Ed egli disse loro: Quali? Ed essi gli dissero: Il fatto di Gesù Nazareno, il quale era un uomo profeta, potente in opere, e in parole, davanti a Dio, e davanti a tutto il popolo. 20 E come i principali sacerdoti, ed i nostri magistrati l’hanno dato ad esser giudicato a morte, e l’hanno crocifisso. 21 Or noi speravamo ch’egli fosse colui che avesse a riscattare Israele; ma ancora, oltre a tutto ciò, benché sieno tre giorni che queste cose sono avvenute, 22 certe donne d’infra noi ci hanno fatti stupire; perciocché, essendo andate la mattina a buon’ora al monumento, 23 e non avendo trovato il corpo d’esso, son venute, dicendo d’aver veduta una visione d’angeli, i quali dicono ch’egli vive. 24 Ed alcuni de’ nostri sono andati al monumento, ed hanno trovato così, come le donne avean detto; ma non han veduto Gesù. 25 Allora egli disse loro: O insensati, e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! 26 Non conveniva egli che il Cristo soffrisse queste cose, e così entrasse nella sua gloria? 27 E cominciando da Mosè, e seguendo per tutti i profeti, dichiarò loro in tutte le scritture le cose ch’erano di lui. 28 Ed essendo giunti al castello, ove andavano, egli fece vista d’andar più lungi. 29 Ma essi gli fecer forza, dicendo: Rimani con noi, perciocché ei si fa sera, e il giorno è già dichinato. Egli adunque entrò nell’albergo, per rimaner con loro. 30 E quando egli si fu messo a tavola con loro, prese il pane, e fece la benedizione; e rottolo, lo distribuì loro. 31 E gli occhi loro furono aperti, e lo riconobbero; ma egli sparì da loro.

Traduzione e insegnamento del racconto evangelico di Luca

Ed ecco che in quello stesso giorno (giorno della Resurrezione) due di loro (discepoli) si incamminavano verso un villaggio, distante da Gerusalemme sette miglia. Ed essi conversavano tra loro di ciò che era accaduto. E mentre parlavano e ragionavano insieme, Gesù si accostò, e si mise a camminare al loro fianco. Ma i loro occhi non erano in grado di riconoscerlo. Ed egli disse loro: quali sono gli avvenimenti di cui state discutendo mentre camminate? e perché siete tristi? E uno di essi, di nome Cleopa, rispose dicendo: sei l’unico che, abitando a Gerusalemme, non sai le cose che sono accadute in questi giorni? Ed egli chiese loro: Quali? Ed essi spiegarono: il fatto di Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e davanti a tutto il popolo. E come i sacerdoti e nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte, e l’hanno crocifisso. Noi pensavamo che sarebbe stato lui a liberare Israele, ora sono passati tre giorni dall’avvenimento di queste cose, certe donne delle nostre ci hanno stupito; essendo andate la mattina al sepolcro e non avendo trovato il corpo di egli, sono venute dicendo d’aver avuto una visione di angeli, i quali dicono che egli vive. Ed alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e l’hanno trovato così come l’avevano descritto le donne, ma non hanno visto Gesù. Allora egli disse loro: O sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non era necessario che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E iniziando da Mosè, e proseguendo attraverso tutti i profeti, spiegò loro ciò che si riferiva a lui in tutte le Scritture. Quando furono al villaggio dov’erano diretti, egli fece per passare oltre ma essi insistettero perché rimanesse con loro: rimani con noi poiché si fa sera e il giorno sta già giungendo al termine. Egli entrò per rimanere con loro. E quando egli si mise a tavola con loro, prese il pane, e fece la benedizione; e spezzato lo diede loro. Allora i loro occhi si aprirono, e lo riconobbero; ma egli sparì sotto i loro sguardi.

Il vangelo vuole insegnare che nonostante la vita possa essere segnata dalla sofferenza (Gesù viene crocefisso lasciando senza speranza i fedeli) non bisogna mai perdere la speranza perché attraverso la redenzione dei peccati e l’amore si può vincere persino la morte.

Contesto storico del Vangelo 

Il vangelo di Luca viene scritto negli anni 80, anni reduci di difficoltà. Nel 64, infatti, Nerone, per scagionarsi dall’accusa di aver appiccato il fuoco alla città di Roma, accusò i cristiani di “odio verso il genere umano”, alimentando definitivamente l’astio della popolazione romana verso questa categoria già in minoranza, dando il via a una grande persecuzione. Il martirio degli apostoli oppressi in quel periodo si concluse con la morte di due di essi: Pietro fu crocifisso, mentre Paolo fu decapitato.  Nel 66 i giudei si ribellano all’Imperatore Caligola che aveva fatto erigere una statua con le proprie fattezze nel tempio di Gerusalemme, ritenendosi un Dio e successivamente, negli anni 70, ebbe luogo un assedio a Gerusalemme da parte dell’esercito romano, guidato dal generale che diventerà l’imperatore Tito, dove risiedevano i ribelli giudei; la città venne conquistata e poi distrutta dai combattenti romani. Dopo la caduta di Gerusalemme i ribelli zeloti (gruppo politico-religioso giudaico) trovarono rifugio a Masada, nella Giudea sud-orientale. La città venne assediata dai romani nel 73 che, dopo aver fatto irruzione nella cittadella, si trovarono davanti solo corpi morti, conseguenza di un suicidio di massa, segno evidente della volontà dei giudei di non piegarsi alla persecuzione romana.

Momento rappresentato dal Merisi

Il momento rappresentato in entrambe le tele di Caravaggio è il culmine dell’episodio sopracitato del Vangelo di Luca (vv. 28-31): il momento della benedizione del pane durante il quale i due discepoli realizzano che il pellegrino che gli aveva accompagnati per tutto il viaggio fino al castello di Emmaus e che avevano esortato a restare con loro quella sera era in realtà Cristo risorto e appaiono stupefatti nei gesti e nelle espressioni nella prima tela, sorpresi con decoro e compostezza nella seconda.

Di seguito le analizzeremo separatamente per comprendere al meglio le differenze stilistiche, cromatiche, di impostazione e, importantissime, della luce.

“Cena in Emmaus” (prima versione)

  • Anno: 1601–1602 (periodo romano)
  • Tecnica: olio su tela
  • Dimensioni: 139×195 cm
  • Committente: Ciriaco Mattei
  • Collocazione attuale: National Gallery, Londra

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Il momento della benedizione del pane e del riconoscimento di Cristo è qui rappresentato al culmine dell’azione che è reso in modo incredibile, in particolar modo dai gesti delle figure che affiancano il Messia; notiamo come il discepolo Cleofa, a sinistra, è in procinto di alzarsi dalla sedia Savonarola per lo stupore della vista di Cristo e la realizzazione della sua Resurrezione, a differenza della figura dell’oste che assiste alla scena inconsapevole di quel che sta accadendo pur capendo che si tratta di un momento importante. Il gomito di Cleofa è in primo piano e tenta di allargarsi al di fuori della composizione, creando uno sfondamento prospettico; l’altro discepolo, a destra, (spesso identificato come Pietro), porta al collo la conchiglia del pellegrinaggio e allarga le braccia a simboleggiare la croce, creando un collegamento tra luce e oscurità, con la mano sinistra troppo grande anatomicamente ma espediente necessario per guidare l’occhio dello spettatore verso Cristo, centro della rappresentazione. Il Messia, soggetto principale dell’opera, non mostra i segni della Passione ma è rappresentato sbarbato, giovane, e il suo volto, le sue fattezze, comunicano armonia, rinascita e speranza di una vita eterna dopo la morte. Gli oggetti presenti sulla tavola sono quelli caratteristici dell’Eucarestia: acqua, vino, pane, dipinti con una minuziosa indagine dal vero, punto fondamentale dello stile del pittore, mentre la precisione di rappresentazione della natura morta rimanda a influenze lombarde che Caravaggio deve aver appreso vedendo soprattutto i dipinti di Lorenzo Lotto e del suo maestro Simone Peterzano, nella cui bottega era solito esercitarsi quasi esclusivamente su nature morte, commissionategli dal maestro. Tutti questi elementi tradizionali sono inseriti in un contesto di meraviglioso realismo che coinvolge lo spettatore e lo invita a vivere la scena accanto a personaggi estremamente umanizzati in un clima quotidiano.

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I colori, tipici del periodo romano di Caravaggio (o “periodo chiaro”), che ha inizio con il suo trasferimento a Roma nel 1592, appena ventunenne, sono colori pieni, vividi, così realistici che non risultano finti ma rendono alla perfezione qualunque tipo di superficie il pittore dipinga; si notino, per esempio, l’incarnato liscio, formoso del Messia e lo sgargiante rosso a contrasto con il candido bianco della sua veste. La luce, fondamentale nella carriera dell’artista, ha un’incidenza diversa per ogni oggetto che colpisce, in modo da renderne sorprendentemente aderenti al vero le differenti superfici: ed ecco che la brocca di cristallo poggiata sul lato sinistro del tavolo risulta sottilissima e più cristallina dell’acqua che contiene, illuminata da un bagliore di luce proveniente dal lato destro della scena e la pelle di Gesù appare incredibilmente liscia, soda, florida grazie al getto di luce che sprigiona il suo viso e che rappresenta metaforicamente la rivelazione della sua Resurrezione e alle ombre moderate che la modellano. In questa tela, come negli altri lavori, Caravaggio non utilizza il disegno preparatorio ma, dopo aver steso sulla tela un fondo rosso-bruno (per le tele romane, nero per le tele successive) incide rapidamente con uno stilo, prima che il fondo si asciughi, l’ingombro delle figure, poi successivamente perfeziona le figure fino a raggiungere l’effetto finale di naturalismo ricercato. Questa tecnica stilistica accompagnerà Caravaggio per tutta la durata della sua travagliata carriera di pittore.

 

“Cena in Emmaus” (seconda versione)

  • Anno: 1606 (feudi Colonna)
  • Tecnica: olio su tela
  • Dimensioni: 141×175 cm
  • Committente: marchese Patrizi
  • Collocazione attuale: Pinacoteca di Brera, Milano

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La scena della benedizione del pane, pur essendo rappresentata in modo molto simile alla tela di Londra nella struttura, ha in questa versione diverse differenze coloristiche, luministiche e stilistiche legate soprattutto al momento in cui quest’opera viene dipinta e alla situazione che vive il pittore durante quegli anni. Il dipinto fu commissionato dal marchese Patrizi e viene realizzato a Zagarolo mentre Caravaggio si trova sotto la protezione dei Colonna in seguito all’omicidio di Ranuccio Tommasoni, del quale è accusato. Il soggetto dell’opera è lo stesso della prima versione romana ma la scena è posteriore alla tela di Londra, perché il pane appare sulla tavola già spezzato, e la rappresentazione si sviluppa in un’atmosfera completamente mutata, più intima nei gesti e nelle espressioni che seguono la realizzazione da parte dei discepoli della Resurrezione di Cristo; i discepoli del Messia sono disposti analogamente alla tela di Londra ma il loro atteggiamento, come già accennato prima, non è più di completo sbalordimento ma di devozione e velata tristezza mista a comprensione; l’oste, che nel dipinto di Londra non comprende il momento che gli si presenta davanti agli occhi, è qui ritirato rispettosamente in meditazione e la vecchia signora, non volendo interrompere l’importante avvenimento, si blocca nell’atto di servire l’agnello. I gesti sono molto contenuti e intimi e gli oggetti sulla tavola risultano impoveriti e messi in evidenza nello stesso tempo rispetto alla prima versione del 1601: sulla tavola sono presenti il pane già spezzato, una brocca dell’acqua e due piatti di cui uno vuoto, simboli eucaristici rappresentati in modo scabro che contrastano con l’abbondanza di cibo e colore della tela londinese. I modelli che usa Caravaggio per i suoi quadri sono persone comuni e in questo caso la scelta è particolarmente azzeccata perché essi fungono da testimoni della salvezza di cui è portavoce Cristo risorto, salvezza che tocca tutti, ricchi e poveri, senza distinzioni. I colori sono terrosi, cupi, la luce e le ombre sono caratteristici del “periodo scuro” del pittore che avrà inizio proprio negli anni in cui questa tela è stata composta e nel quale il pittore ingagliardirà gli scuri e utilizzerà le ombre come strumento per costruire la figura. La luce è fioca e la scena principale è immersa nel buio; la rappresentazione è resa realistica dal fatto che il pittore dipingeva i suoi modelli in stanze buie in cui venivano illuminati da una luce dall’alto in modo che quest’ultima non si disperdesse per tutto il locale e per dare più forza al chiaroscuro delle ombre (Bellori: “[…] che non faceva mai uscire all’aperto del sole alcune delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’area bruna d’una camera rinchiusa; pigliando un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombre al fine di recar forza con veemenza di chiaro e di oscuro”). La tecnica è ridotta all’essenziale, i colori a olio abbondantemente diluiti sono stesi sulla tela con rapide pennellate e in velature sottili, tanto che il fondo scuro di preparazione traspare.

Entrambe le versioni della Cena sono state molto criticate dal Bellori, che comunque non condivideva lo stile apertamente anti-manierista del pittore, e che nel suo “Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni” accusa entrambe le versioni di mancanza di decoro:

“[…] Un’altra di queste invenzioni dipinse per lo cardinale Scipione Borghese, alquanto differenze; la prima più tinta, e l’una e l’altra alla lode dell’imitazione del colore naturale; se bene mancano nella parte del decoro, degenerando spesso Michele nelle forme umili e vulgari. […]”

“[…] Nella Cena in Emmaus, oltre le forme rustiche delli due apostoli e del Signore figurato giovine senza barba, vi assiste l’oste con la cuffia in capo, e nella mensa vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane fuori di stagione. Sì come dunque alcune erbe producono medicamenti salutiferi e veleni perniciosissimi, così il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura. […]” 

In particolare individua aspetti di mancanza di decoro sia nelle immagini che nei testi della prima versione: le forme degli apostoli sono rustiche, il Cristo sbarbato non è coerente al racconto dei vangeli perché non riporta i segni della Passione, la figura dell’oste che assiste alla scena (dice il Bellori) sembra quasi una caricatura, il cesto di frutta è fuori stagione, tutti elementi già precedentemente approfonditi nelle due descrizioni delle tele.

In contrapposizione, come già citato, Roberto Longhi trova nel quadro del 1602 un’iconografia coerente con la tradizione della pittura veneta, che deve aver influenzato il Merisi nell’età giovanile, soprattutto nell’idea di rappresentare la tavola coperta da un tappeto a sua volta coperta da una tovaglia bianca e nella scelta di valorizzare la natura morta.

©Riproduzione riservata

BIBLIOGRAFIA

  • Francesco Frangi, “Caravaggio a Roma e il primo caravaggismo”, in Lezioni di Storia dell’Arte. Dall’Umanesimo all’Età barocca, II, Milano, Skira 2003.
  • Dawson Carr, “Caravaggio e l’ultimo tempo 1606-1610”. Catalogo della mostra di Napoli Museo Capodimonte 23 ottobre 2004 – 23 gennaio 2005.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN CAPOLAVORO DA RISCOPRIRE: “ELEZIONE DI SAN MATTIA ALL’APOSTOLATO” DI PIETRO NOVELLI, IL MONREALESE.

UN CAPOLAVORO DA RISCOPRIRE:

“ELEZIONE DI SAN MATTIA ALL’APOSTOLATO”

DI PIETRO NOVELLI, IL MONREALESE

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 di Filippo Musumeci

– Autore: Giovan Pietro Novelli, il Monrealese

(Monreale, Palermo, 2 marzo 1603 – Palermo, 27 agosto 1647)

– Opera: “Elezione di San Mattia all’apostolato”

– Anno:1640-42 ca.

– Tecnica: olio su tela, 390 x 288 cm.

– Committente: Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia e principe delle terre di Leonforte (Enna).

– Ubicazione originaria e attuale: Leonforte (Enna), Chiesa dei PP. Cappuccini, altare maggiore.

Perché un altro articolo (il quinto) sul Monrealese? A che pro?

Quale la necessità di investigarne ancora la figura? Ma soprattutto, perché continuare a “scornarsi”, insistendo sulle gesta di un uomo – caposcuola della pittura barocca siciliana nonché massimo artista dell’isola dopo l’eternamente attuale Antonello da Messina – le cui opere (custodite nei maggiori poli museali americani ed europei) furono celebrare per estro e qualità dai mecenati a lui contemporanei e dalla critica ottocentesca -novecentesca, ma il cui contributo offerto all’arte risulta oggi (con buona pace dei sensi) palesemente obliato dalla storiografia postmoderna? Insomma, amico mio, perché perseverare in questo gioco diabolicamente perverso, farsi del male e apparire banalmente ridicolo agli occhi dei lettori? Tentare l’impresa titanica della riesumazione forzata di un artista ignoto ai più credi possa giovare alla nobile (questa sì!) causa sposata?

Ma il perché è davvero a portata di mano, credimi! Non vedi? Il fine non risiede qui giammai in un atto di persuasione su di un artista piuttosto che su di un altro, né tantomeno elargire proclami ideologici votati a un discutibile e sterile residuo campanilistico, il cui vincolo, tra l’altro, avrebbe il sapore amaro di un imperdonabilmente limite tematico. Bensì si è mossi, in tutta sincerità, per l’esclusivo e disinteressato piacere di presentare, a coloro che ne sentiranno curiosità, l’opera di un artista “puro”, per destino nefasto, omesso dai manuali di Storia dell’Arte come dalla saggistica.

Bontà sua, il pittore siciliano godette in passato di particolari attenzioni da parte di chi acume possedette così abilmente, scorgendo nei volumi e nei timbri cromatici di questo maestro del Seicento il linguaggio di una sintesi perfetta tra classicismo idealizzante carraccesco di tradizione plastica e realismo caravaggesco, riberesco e vandyckiano di innovazione luministica: Gioacchino Di Marzo, Roberto Longhi, Guido Di Stefano, Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Claudio Strinati, Rossella Vodret, Vincenzo Scuderi, Vincenzo Abbate, Angela Mazzè, Giulia Davì, Maria Pia Demma, Dante Bernini e Maria Grazia Paolini (questi ultimi due vale la pena ricordare anche per aver curato nel 1967, con la preziosa collaborazione di Cesare Brandi, l’unica antologica su Filippo Paladini a Palazzo dei Normanni di Palermo) sono appena i più noti fra gli storici dell’arte impegnati nell’indagine scientifica delle componenti formali e stilistiche del Monrealese, chiarendo, come afferma Calvesi che: «Se dal Rubens stesso e da Annibale Carracci egli accoglie talvolta il suggerimento di una larga plasticità nello squadro dei corpi e di una robusta articolazione compositiva, e se dal Caravaggio e dal Ribera è indotto a un pronunciato realismo, il modello più congeniale alle sue educate e composte cadenze resta Van Dyck, particolarmente la pala palermitana dell’Oratorio del Rosario di San Domenico. Di lì sembra provenire il suo ideale di “maestria”, di sapienza come misura, nell’accorto dosaggio dei movimenti, che debbono animare la scena senza però turbare l’equilibrio, nella miscela delicata delle luci e delle ombre che non debbono creare forti contrasti, ma avvolgere atmosfericamente lo spazio e suggerire il devoto concerto dei sentimenti».

Nel quarto volume del “Dizionario della pittura e dei pittori” edito nel 1994 da Einaudi, a cura di Enrico Castelnuovo, Michel Laclotte, Jean Pierre Cuzin e Bruno Toscano, alla voce Pietro Novelli si legge: «Il suo linguaggio – una delle più alte espressioni di tutto il Seicento meridionale – può dirsi maturo quando Novelli giunge a Napoli, probabilmente tra il 1631 e il 1632 (periodo nel quale risulta assente da Palermo). Qui egli incise profondamente nella pittura locale e influì sullo stesso Ribera, cui pure si accostò in alcune opere di quel periodo».

E proseguendo nella lettura del testo si giunge quasi casualmente a quel passo illuminante, quasi l’incipit per il “capolavoro da riscoprire” che ci si è proposti di porre alla gentile attenzione del lettore: «le numerose tele per le chiese degli ordini religiosi, tra le quali la stupenda “Elezione di San Mattia ad Apostolo” (Leonforte, Cappuccini), sono abilissime esemplificazioni di questa sua non comune capacità di fondere le molteplici suggestioni – da Artemisia Gentileschi a Stanzione, da Vaccaro a Ribera, dai francesi ai fiamminghi – in una forte ed originale espressione pittorica ,il cui più evidente connotato può individuarsi in quell’intonazione nobile ed aulica che fa del Novelli in qualche modo l’equivalente meridionale del Gentileschi».

Esplicitati, dunque, i termini della cifra stilistica del pittore siciliano risulteranno, forse, più chiare le motivazioni alla base di questo scritto: assolvere il Monrealese, e una buona volta per tutte, dall’astorica (dunque infondata) accusa di “provincialismo” attraverso la lettura di un’opera poco noto per via della sua ubicazione geografica alquanto periferica rispetto al centro pulsante della cultura insulare del XVII secolo, Palermo, ma ciononostante pur sempre degna di  attenzioni per essere, qual è, fra le creazioni più alte e mature del pittore siciliano.

Fu lo storico Gioacchino Di Marzo a restituire nel 1856 la paternità del dipinto al Novelli, segnalando come presso il «convento dei PP. Minori Cappuccini […] nell’altare maggiore» fosse ospitato «il magnifico quadro rappresentante l’elezione di San Mattia all’apostolato, opera stupenda del Monrealese».

La grande tela fu commissionata tra il 1640-42 dal principe Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia, per l’altare maggiore della Chiesa dei PP. Cappuccini di Leonforte, nell’ennese, edificata per volere dello stesso principe come mausoleo di famiglia.

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Il soggetto religioso richiesto dal committente è la sacra rappresentazione evangelica contenuta nel cap. 1 degli Atti degli apostoli attribuiti a San Luca (autore anche di uno dei quattro Vangeli), relativa all’elezione di San Mattia come “nuovo dodicesimo” apostolo a seguito del suicidio di Giuda Iscariota nel Campo “Akeldamà” (in ebraico), tradotto come “Campo del sangue”:

<<In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato “Akeldamà”, cioè “Campo del sangue”. Sta scritto infatti nel libro dei Salmi:

“La sua dimora diventi deserta

e nessuno vi abiti,

e il suo incarico lo prenda un altro”.

Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione». Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato “Giusto”, e Mattia. Poi pregarono dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava».  Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli>>. (Atti degli Apostoli, 1, 15 – 26)

 Bisogna premettere, a titolo di cronaca, che il campo chiamato in ebraico “Akeldamà”, ovvero il “Campo del sangue”, sarebbe il medesimo citato da San Matteo nel cap. 1 del suo Vangelo e meglio noto come il “Campo del vasaio”:

<<Allora Giuda – colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il “Campo del vasaio” per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: «E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore»>>. (Vangelo secondo Matteo, 1, 3 – 10)

 Per quanto concerne, piuttosto, il significato profondo rivestito dall’episodio neotestamentario riportato negli Atti degli apostoli, l’elezione di San Mattia, quale nuovo apostolo eletto, dev’essere interpretata come la “chiamata” cristiana del credente a testimone del Magistero salvifico del Cristo Salvatore, dunque, simbolo di vita eterna e Redenzione. La stessa origine etimologica del nome “Mattia” esemplifica il concetto stesso di “elezione”, cioè di “scelta”, poiché esso non è altro che l’abbreviazione dell’ebraico Mattithiah”, tradotto come “dono di Jahvè”, vale a dire “dono di Dio”, inteso, più specificatamente, come “dono dell’Uomo-Dio”, o meglio “scelto dal Dio cristiano Uno e Trino” come “martire” (dal latino “martyry̆ris”, “testimone”), la cui festività ricorre secondo il calendario romano il 14 maggio, giorno votivo che ne ricorda il martirio subito. La tradizione vuole che fu condannato dai giudei per la sua fede alla pena della lapidazione prima di essere decapitato per mezzo dell’alabarda, poi divenutone il suo attributo iconografico. Oggi le spoglie mortali del santo sono venerate a Padova e custodite all’interno di un’ara marmorea posta nel braccio destro del transetto della Basilica di Santa Giustina, dirimpetto all’altra ara marmorea contenente quelle dell’evangelista San Luca.

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L’impianto scenografico dell’opera è strutturato su due registri ideali occupati dai volumi fortemente rilevati delle figure: quello superiore ospita la SS. Trinità trionfante, manifestatasi in Dio Padre, Gesù Cristo e Spirito Santo (quest’ultimo materializzatosi nella colomba bianca con ali spiegate); quello inferiore, invece, gli apostoli, la Vergine, due delle tre pie donne (Maria di Magdala, detta Maddalena e Maria di Cleofa, oppure di Salomè) e lo stesso Monrealese (l’unico dei non direttamente partecipe all’azione), autoritrattosi, come in altre occasioni, come testimone oculare della volontà trinitaria. Non insolita nell’opera del pittore, invece, la figura orante di anziano all’estrema destra, il cui modello si presenta come l’alter ego dell’altra figura senile, posta anch’essa all’estrema destra, nel “San Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi” (1634-35), di cui si è discusso QUI. In entrambi i casi è facile identificare i tratti somatici del padre del Monrealese, il pittore manierista Antonio Pietro Novelli.

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Più dettagliatamente, sul registro superiore il Padre e il Figlio “globocratori” (“creatori del mondo”) con la colomba bianca dello Spirito Santo appaiono alla comunità apostolica di Gerusalemme siedono sospesi sulle nubi dell’Empireo tra le schiere di cherubini (esseri angelici a due ali mostranti solo il volto) e putti alati di memoria classica. Dio Padre poggia la mano destra sul globo, mentre con la sinistra manifesta la sua volontà sull’ispirazione divina del Figlio, il quale infonde lo Spirito Santo, sotto forma di colomba bianca con ali spiegate, sull’apostolo Mattia, a sua volta, perfettamente in asse con il braccio e il “gesto parlante” della mano destra di Cristo.

Ma non è tutto! Il Monrealese dimostra proprio nella gestualità armoniosa del gruppo trinitario di possedere un’erudita educazione sull’esegèsi cristologica. Infatti, i gesti calibrati e accordati dell’Eterno e di Cristo sono portatori di un messaggio dogmatico efficacemente più profondo e in linea con la tradizione escatologica della Chiesa paleocristiana. Essi rappresentano lo Spirito Santo che procede dalla volontà del Padre a quella del Figlio e da questi è donato a San Mattia come testimone della nuova fede. Si tratta, in definitiva, di una trasposizione figurativa del passo del «Credo Apostolico» di rito latino-romano: “Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti”.

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Sul registro inferiore, invece, il gruppo di astanti – la comunità apostolica radunata a Gerusalemme per eleggere il nuovo apostolo è presieduta da San Pietro, vicario di Cristo (l’uomo calvo e scalzo posto di spalle e genuflesso all’estrema sinistra) – occupa uno spazio architettonicamente concreto, immaginato come un’area presbiteriale di cui si distinguono le strutture marmoree, come le gradinate su cui siedono sopra uno scanno Mattia (a sinistra) e  Barsabba, “il Giusto” (a destra), la parete sinistra di ordine corinzio munito di plinto e la balaustra sul fronte del cui pilastrino è il rilievo scultoreo monocromo con lo stemma araldico del principe Branciforte e Lanza, committente del dipinto. Vincenzo Scuderi ha avanzato, seppur con qualche reticenza, un’interpretazione alternativa alla struttura architettonica del fondale, vedendo in essa gli esterni del castello della famiglia (ipotesi debole, a nostro modesto dire) sito un tempo nel feudo di Leonforte.

L’abilità compositiva del Novelli è qui evidenziata nell’aver saputo dosare magistralmente la distruzione delle figure nello spazio scenico, conciliando realtà sacra e profana, ossia un episodio neotestamentario apostolico paleocristiano – la sostituzione dell’Iscariota con il nuovo apostolo Mattia – dal tono popolare con uno socio-apologetico seicentesco di carattere gerarchico e aristocratico. Quest’ultimo, in particolar modo, si presenta come esaltazione celebrativa della numerosa famiglia Branciforte, la quale, composta da 4 figli e 5 figlie (di cui 3 suore), fu chiamata a posare dal Novelli per le figure sacre del registro inferiore, dando vita, in tal modo, a una superba galleria di ritratti nella quale il pittore eccelse con risultati verosimilmente di assoluta fedeltà.

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Apparentemente caotica nel suo groviglio di sentimenti variegati, a guardar bene la scena è organizzata per mezzo di un rigidissimo schema compositivo geometrico costituito da linee-forza, magistralmente enfatizzate dal commovente moto fisico dei personaggi, i cui sguardi (fatta eccezione per il pittore) sono catalizzati verso il vertice del triangolo interno, fissato nell’indice della mano sinistra di Cristo, Salvator mundi.

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Secondo gli studi condotti nel 1989 e 1990, è presumibile che la scelta tematica dell’«elezione-successione» nella comunità apostolica di Gerusalemme, secondo quanto riportato dagli Atti degli apostoli di San Luca, sia stata voluta dal committente come allusione all’«elezione socio-politica» della potente famiglia siciliana, significativamente impegnata sull’isola nel corso della prima metà del XVII secolo sul fronte amministrativo-giurisdizionale. Quest’allusione di stampo prettamente politico ne incorpora un’altra, ossia quella relativa alla «successione legittima per diritto ereditario», intesa come continuità perpetua dell’identità sociale della nobile famiglia nella persona di Giuseppe, primogenito del principe Nicolò Placido, a cui il padre passerà per volontà testamentaria un: «anello di zaffiro con l’arme Branciforte».

Come ricorda ancora Angela Mazzè, l’impaginazione iconografica della scena si conclude con due immagini eloquenti: «il piede nudo dell’apostolo (ulteriore evocazione caravaggesca), privilegio riservato ai santi nell’iconografia cristiana. Il libro che campeggia al centro della tessera inferiore, al centro, è aperto: il messaggio è già stato recepito dagli apostoli Cristo».

Nonostante la scarsità di fonti documentaristiche in possesso, l’opera appartiene indubbiamente al periodo post-Monreale, poiché, come suggerito da Guido Di Marzo, essa è ascrivibile alla fase produttiva del Novelli di «compiuta accademia eclettica, carraccesca e caravaggesca al tempo stesso».

Dimensione divina e umana, dunque, spirituale e corporale, eterna e mortale sono armonizzate dal Novelli in un affresco corale di suggestiva partecipazione emotiva e, come afferma Angela Mazzè, «dai moduli diversificati»: libera rielaborazione formale desunta da celebri opere studiate durante il soggiorno romano del 1631-32, come la “Trasfigurazione” di Raffaello (1518-20), l’“Assunta” di Annibale Carracci (1600-01) e la “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio (1599-1600), a cui andrebbero aggiunti, ovviamente, anche i modelli michelangioleschi della Sistina, specie del “Giudizio Universale”, e altre ammirate fra Napoli e Palermo, come la “Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina da Siena e i Santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata, Cristina e Rosalia” di Anthony Van Dyck (1628).

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A proposito della tela del Novelli, nel suo “The italian followers of Caravaggio” (“I seguaci italiani di Caravaggio”) del 1967 lo storico dell’arte statunitense Alfred Moir parlò di capolavoro «simultaneusly realistic, visionary and decorative» (“simultaneamente realistico, visionario e decorativo”), volendo indicare con ciò le qualità pittoriche dipanate dal pittore nella complessa illustrazione figurativa del soggetto.

Unanime il pensiero di Vincenzo Scuderi, il quale scrisse nel 1990: «Intensità o, almeno, volontà di fede e di verità naturali al tempo stesso – ritrattistiche, sociali, luministiche, ecc. – non meno intese si fondono, ad evidentiam, in quel capolavoro che è l’Elezione di San Mattia di Leonforte».

Più complessa la regia dell’impianto luministico sapientemente orchestrato, a cui è affidata l’articolazione plastica dei volumi nella loro traduzione anatomica di volti psicologicamente indagati e corpi ritmicamente animati da panneggi chiaroscurati; di profili architettonici illusoriamente rilevate e una spazialità razionalmente restituita al suo valore metrico. È la luce, in definitiva, nella sua matrice cromatica «bianco-oro», l’elemento unificatore tra i due registri superiore e inferiore della composizione, definita dallo Scuderi: «bipolare». E allora si comprende in modo più approfondito come quanto già affermato dal sottoscritto per l’Assunta la scorsa estate valga anche per il San Mattia: «sono questi lampi cromatici chiaroscurati a distaccare le figure dal tetro fondo nebuloso permettendo di emergere con tutta la forza della loro vigorosa massa».

Si è già fatto cenno ai rapporti esistenti tra la tela di Leonforte e la stupenda “San Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi” (1634-35) circa il modello della figura senile, i cui tratti somatici sono stati identificati con quelli del padre del Monrealese, il pittore manierista Antonio Pietro Novelli.

Ebbene, rapporti più esplicitamente diretti è possibile riconoscere tra la tela di Leonforte stessa e quell’altro capolavoro che è l’Assunta dei Cappuccini di Ragusa Ibla (di cui si è discusso la scorsa estate QUI), realizzato nel 1643, ovvero l’anno seguente del dipinto oggetto di studio di questo scritto. Le due opere sono complementari per:

1) la scelta dello schema compositivo geometrico e strutturale;

2) la disposizione spaziale dei personaggi, il ritmo della loro concitata gestualità e la coralità sacrale dell’insieme;

3) le figure speculari (San Pietro inginocchiato e l’autoritratto del pittore);

4) l’introspezione psicologica abilmente indagata;

5) l’impianto luministico affidato al sapiente contrasto chiaroscurale di scuola seicentesca, il quale definisce i profili plastici modellati dalla sorgente di luce diretta obliquamente da destra (la sinistra di chi guarda) verso sinistra (la destra di chi guarda).

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In entrambe, per concludere, è lucidamente tracciato il percorso della maturità raggiunto dal pittore siciliano e per il quale Guido Di Marzo parlò, come scritto in precedenza, di «solipsismo malinconico», il quale è frutto di quell’umanità austera e malinconica di cui è pervasa l’anima siciliana fin dalle sue remote origini. «E questa umanità si esprime in forme salde, che la fluida atmosfera umbratile vela e disvela e la sobria veste cromatica individua e ferma».

Quest’artista «Senza veri precedenti e senza veri seguaci è dunque il Novelli […].  Anni or sono cerco di carpirne l’ignoto magnetismo esercitato sulla mia persona, senza, tuttavia, risalire a un’efficace chiave risolutiva: la tendenza realistica, il cromatismo, l’eleganza compositiva? Oppure semplicemente quell’atmosfera profondamente sensibile delle sue creature o meglio, come ricorda Giulio Carlo Argan, «quel galateo appassionato e commosso»? Forse, ma è solo un pensiero labile, un inconfessato “sguardo da lontano”, quindi, malinconico?

O chissà, magari i momenti in cui sento più vicina la sua arte sono quelli di stati d’animo malinconicamente più estesi rispetto ad altri più convenzionalmente estroversi? Ma qualsiasi causa essa sia poco importa, a mio dire! Perché è il felice incontro emotivo scaturito da questa con tutto il suo retaggio di malinconica bellezza a scandire quegli spasmi di acuto piacere capaci di agitare dal profondo pulsioni inconsce.

E lui è sempre lì, in Sicilia, insiste il Di Marzo, perché: «Fedele al suo tempo e a sé stesso, Pietro Novelli può dunque trovar posto tra gli artisti migliori del secolo, anche se la sua azione, per ragioni intrinseche ed estrinseche, per la sua natura ricettiva e per la sua localizzazione geografica, fu limitata nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo che la vita di molte sue creature pittoriche supera nell’universalità ed eternità dell’arte».

Questa sua localizzazione geografica penalizzò il pittore in gran misura e spinse la critica più sprovveduta ad azzardare un facile“provinciasmo”, stroncato, “Deo gratias”, da chi sprovveduto non fu mai e parlò, al più, di isolamento insulare. Lo capì il conte Carlo Gastone Rezzonico durante un viaggio sull’isola nel 1793 quando scrisse: «il Monrealese, pittore che dallo Spagnoletto e da Wandeick [Van Dyck] trasse uno stile misto, e fatto suo proprio per modi sì egregi, che merita distintissimo luogo fra gli artefici italiani, e fuori si Sicilia non è conosciuto».

Si potrebbe disquisire sui modi ed esiti della sua formazione con un raffronto delle fonti storiografiche. E credo che questo potrebbe essere il materiale per un altro, chissà, ennesimo omaggio al pittore. Ma la speranza è che quanto lasciatoci dal pittore venga approfondito da una mente sottile di mia conoscenza,diligentemente attenta agli sviluppi dell’arte barocca nell’Italia meridionale. Al momento, però, il Monrealese attende ancora una volta di essere riassaporato con lo sguardo da “vicino”, seppur effimero, per poi, com’è giusto che sia, tornare a essere “lontano” e solo di tanto in tanto malinconico…mai troppo in fondo, ma solo quanto basta affinché sia ancora una volta “poesia”.

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Bibliografia

  • Guido Di Stefano, “Pietro Novelli, il Monrealese”, a cura di Angela Mazzè e prefazione di Giulio Carlo Argan, 1989, Palermo, Flaccovio Editore.
  • Vincenzo Scuderi, “Novelli”, in Kalòs, maestri siciliani, 1990, Palermo.
  • A.V.V., “Pietro Novelli e il suo ambiente”, catalogo della mostra con prefazione di Maurizio Calvesi (Palermo, Albergo dei poveri, 10 giugno – 30 ottobre 1990), Palermo, Flaccovio Editore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA E SAN GOTTARDO DI ASTI

LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA E SAN GOTTARDO DI ASTI

di Filippo Musumeci

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  • L’antico nucleo paleocristiano e le tracce d’età romana

Con uno sviluppo longitudinale di 86,50 m. e una larghezza e altezza pari a 24, la Cattedrale di Santa Maria Assunta e San Gottardo di Asti detiene il primato come edificio ecclesiastico cristiano più esteso della regione, nonché come il più insigne emblema dell’architettura gotica piemontese della prima metà del XIV secolo. Gli scavi archeologici hanno dimostrato come il primo nucleo del sito sia sorto in prossimità di una necropoli romana, ove, secondo alcuni studiosi, pare fosse presente, sul lato nord dell’edificio, un antico tempio pagano consacrato alla sposa di Giove, Giunone, poi soppiantato nell’VIII – IX secolo d. C. dall’edificio medievale con cripta annessa di San Giovanni Battista, la quale svolgeva anche funzione cultuale di battistero. Rimaneggiata nel Seicento, oggi quest’ultima conserva la navata centrale preesistente, aperta da grandi monofore centinate, e la cripta dell’VIII secolo con quattro colonne di porfido rosso egiziano e sienite su cui poggiano capitelli antropomorfi.

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Le ultime campagne di scavi curate dall’archeologo Alberto Crosetto nel 1984-85 hanno riportato alla luce preziose testimonianze di una domus romana, probabilmente impiegata dall’antica comunità cristiana come domus ecclesiae, relativamente alla scoperta di una porzione di pavimento musivo dicromo, bianco e nero, a un livello di cinque metri sotto quello dell’attuale cortile. Il prezioso reperto archeologico risalirebbe alla seconda metà del XII secolo e consta di dodici riquadri distribuiti su tre fasce incorniciate da una cornice geometrica: agli angoli i quattro fiumi del paradiso terrestre raffigurati da quattro uomini che versano acqua da anfore; cinque pannelli col ciclo delle Storie bibliche di Sansone con inscrizioni: le porte di Gaza, piuttosto danneggiato, il leone, il tradimento di Dalila, la cattura di Sansone con un filisteo che lo percuote sotto un’arcata, la distruzione del tempio di Dagon con Sansone avvinghiato ad una colonna. I rimanenti tre riquadri raffigurano: Davide con la scritta “Rex prophe/ta david”, un cantor vestito d’una tunica accanto al leggio, il comes ripr/and/vs a cavallo durante la caccia col falcone.

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Sono visibili, inoltre, i capitelli decorati con motivi vegetali, zoomorfi, antropomorfi e grotteschi, testimonianze del cantiere gotico: di particolare interesse quelli raffiguranti San Giorgio che uccide il drago, il tradimento di Giuda e la favola latina della volpe e della cicogna. Al di sopra del detto livello sono le basi delle colonne di una parte del quadriportico posto tra la Cattedrale e l’antica chiesa di San Giovanni Battista.

Ulteriori testimonianze di età romana del sito sono:

  • all’esterno, le quattro statue dei ss. Girolamo, Pietro, Paolo e Biagio (o un santo vescovo, forse Bruningo) che impreziosiscono il Portale Pelletta, il monumentale ingresso posto lungo la fiancata sud. Queste furono realizzate nella metà del Quattrocento utilizzando i marmi romani di asporto.
  • all’interno, le due vasche lustrali, rispettivamente databili all’ XI secolo e al 1229, accostate ai primi due pilastri dell’ingresso principale del prospetto ovest e poggianti su due capitelli corinzi romani del I-II secolo d.C. capovolti, provenienti plausibilmente dall’area del foro, oggi di Sant’Anastasio: la prima di forma quadrata decorata con figure tratte dai bestiari medievali; la seconda di forma esagonale decorata con leoni e grifoni.

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E il fonte battesimale posto all’inizio della navata nord, in corrispondenza della Cappella di San Teobaldo e San Secondo della famiglia Zoia. Risalente al 1468, questi è detto Fonte De Gentis dal nome del committente, l’arcidiacono Giacomo De Gentis, di cui campeggia lo stemma araldico con il ramo e tre ghiande; presenta una vasca ottagonale in cui si alternano rilievi a motivi antropomorfi e vegetali, sorretto da nove colonnine in marmo orientale e da tre gradini concentrici sovrapposti, di cui uno con frammento d’iscrizione riferibile alla laide romana della tribù Pollia.

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La tradizione vuole che la costruzione della Cattedrale sia maturata dalla necessità di traslare la nuova sede episcopale all’interno del recinto murario della città, ciò sommata a esigenze più concretamente difensive e spaziali al servizio dei fedeli, come valida alternativa alla già esistente Collegiata di San Secondo, edificata, fuori le mura, sulla cripta del santo martire protettore astigiano.

  • Dalla precedente chiesa d’età romanica al nuovo cantiere gotico trecentesco

Fu in seguito all’incendio dell’anno 1070 – commissionato da Adelaide di Susa, suocera di Enrico IV e vedova di Ermanno di Svezia, Enrico Aleramo e Oddone di Savoia (1023 – 1060), quest’ultimo figlio di Umberto I Biancamano, per antichi attriti con i vescovi della città – che nel 1095 la nuova Cattedrale venne consacrata da papa Urbano II, di passaggio ad Asti durante il viaggio di ritorno da Clermont, ove il 27 novembre dello stesso anno avevo indetto e promosso la prima crociata. Le fonti riportano come il campanile fu il primo elemento del complesso a subire gli effetti dell’attentato doloso e, di conseguenza, riedificato in stile romanico-lombardo già dal 1266 ad opera del magister murator Jacopo Ghigo a sette piani con guglia ottagonale, oggi riabbassato di un piano in età napoleonica.

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Successivamente fu inaugurato il cantiere della nuova Cattedrale in stile gotico, memore delle esperienze architettoniche d’oltralpe francesi, in linea con il gusto imperante del tempo nell’Italia nord-ovest, su commissione di Guido di Valperga, vescovo dal 1295 al 1237, proseguito da Arnaldo De Rosette, in carica fino al 1348, e portato a termine nel 1354 per volere del successore Baldracco Malabaila, come dimostrato dagli stemmi araldici riportati in rilievo sui pilastri del tiburio. Il progetto della fabbrica, firmato dai “magisteri muratores” Antonio Neucoto e Macario, previde un impianto a croce latina immissa a tre navate, abside unica e tiburio ottagonale nel punto d’intersezione tra l’asse longitudinale e il transetto, con accentuato predominio del linearismo ascensionale per mezzo dei pilasti polistili, degli archi a sesto acuto e delle volte ogivali.

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Il progetto trecentesco inglobò anche strutture preesistenti, corrispondenti all’area presbiteriale della chiesa romanica, secondo alcuni, o parte di un edificio a sé come parte dell’antico complesso episcopale, secondo altri: tali strutture, comunque, furono riabilitate alla funzione di area absidale del nuovo cantiere gotico. Tuttavia, dalle antiche relazioni e dalle visite pastorali si evince come la struttura presentasse un verticalismo piuttosto “temperato”, tesi avvallata dalla testimonianza del duca Vittorio Amedeo II di Savoia, il quale, visitando il sito nel 1711, lo definì “un corpo superbo con una testa umile”. Non a caso, le superfici interne parietali e voltate, decorate ad affresco nel XIII-XIV secolo, come dimostrano alcune porzioni riemerse dai recenti restauri, furono ridipinte, demolendo, altresì, i costoloni della volte ogivali.
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  • Gli esterni

L’esterno della Cattedrale è realizzato interamente in cotto, coerentemente all’uso del tempo in terra piemontese fino al XVIII secolo, con inserti in pietra calcarea, tra cui: il fondo del fregio con archetti pensili incrociati a sesto acuto e i peducci di questi delle superfici sommitali; i decori a scacchiera delle vetrate longilinee e dei portali strombati; e i profili delle ghimberghe e degli archi inflessi di gusto orientale.

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La facciata a spioventi salienti presenta tre rosoni strombati sormontati da due oculi e da una finestra cruciforme; alle sommità sono posti bassi pinnacoli, anch’essi in cotto, mentre in basso si aprono tre portali: trilobato a sesto acuto, il centrale, con ghimberghe, quelli laterali. Murati i laterali, oggi solo quello centrale è fruibile: le due ante della porta centrale sono separate da una colonnina con capitello decorato con l’Annunciazione a Maria e la Visita ad Elisabetta; ai lati della suddetta porta sono raffigurati, a sinistra, Cristo in Maestà con angeli e scena del Giudizio Universale, seguiti da tre santi intervallati da palmette e da una scena rappresentante un giovane che sostiene un vecchio; e a destra, l’Incoronazione della Vergine, seguita da tre santi, analoghi a quelli sul lato sinistro, e una raffigurazione di Sansone che lotta col leone. I due portali chiusi, invece, presentano decorazioni zoomorfe, antropomorfe e vegetali.

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Ma il fianco sud è decisamente il più mosso, poiché linearismo vetrate e dei contrafforti, l’eleganza ornamentale del Portale dei Pelletta con arco trilobato (il primo a sesto acuto e il secondo carenato) preceduto da protiro dicromo, nonché la convessità delle cappelle laterali interne, scandiscono ritmicamente le superfici, spezzando, in tal modo, la monotonia della massa strutturale continua. Come succitato, il campanile fu riedificato in stile romanico-lombardo già dal 1266 da Jacopo Ghigo a sette piani con guglia ottagonale e riabbassato di un piano in età napoleonica; mentre il punto d’intersezione tra l’asse longitudinale e il transetto è dominato dalla mole del tiburio ottagonale.

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A proposito del suddetto Portale dei Pelletta, esso rappresenta uno straordinario elemento architettonico in stile gotico fiorito di straordinaria fattura: realizzato tra il primo ed il secondo decennio del Trecento nell’ambito della campagna decorativa finanziata dal nobile Gerolamo Pelletta, da cui il nome del manufatto (il cui stemma araldico è in rilievo sull’intradosso della volta), nel 1470 fu abbellito dalla collocazione della statua marmorea di Maria Assunta circondata da sei teste di angeli alati, a vigile protezione della città, e ai lati di questa due medaglioni con le antiche personificazioni del Sole e della Luna, quali simboli del giorno e della notte, della vita e della morte. Sopra la Vergine, e affacciata da un’apertura circolare a mò di finestra, è collocata una testina in arenaria chiamata la Madama Troia. Databili al Quattrocento sono anche le statue marmoree, entro nicchie poste sopra i capitelli, dei ss.  Girolamo, Pietro, Paolo e Biagio (o un santo vescovo, forse Bruningo).

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Elemento di connessione tra la Cattedrale e la primitiva chiesa di San Giovanni Battista è il Chiostro dei Canonici del XIV secolo: costituito da un portico a due archi, sovrastato da un’ampia aula e affiancato da una struttura cava simile per forma a una torretta, in origine con funzione di cappella.

  • Gli interni
  • La nuova veste in età barocca e rococò

La decorazione barocca degli interni, con scene della Bibbia ed allegorie degli Ordini religiosi, fu compiuta nel tardo Seicento su commissione del vescovo milanese Innocenzo Milliavacca, dai pittori Francesco Fabbrica e dal bolognese Bocca, per le volte, e Pietro Antonio Pozzi per i pilastri e le superfici parietali. Per fornire uno spazio unitario al vastissimo ciclo di affreschi, i costoloni ogivali delle volte a crociera furono parzialmente scalpellati, i capitelli trecenteschi privati del loro collarino e alcune finestre murate.

22Lo spazio absidale assunse le attuali vesti solo a seguito degli interventi del 1762 dell’architetto Bernardo Antonio Vittone, allievo di Filippo Juvarra, al tempo del vescovo Paolo Maurizio Caissotti, e che, a sua volta, riprese un progetto iniziato cinquant’anni prima per volere del citato vescovo Innocenzo Milliavacca. Tuttavia, il progetto del Vittone fu, a sua volta, modificato in parte dal Peruzzi, a cui si devono i disegni per le nuove sacrestie, definitivamente sistemate nel XIX secolo. In occasione di tali interventi, venne arretrato e ampliato il coro con l’aggiunta di due absidi laterali e tre nuove arcate di volta; il nuovo presbiterio fu coronato dall’altare centrale del 1732 su disegno di Benedetto Alfieri; mentre l’antico coro ligneo, realizzato nel 1477 dal pavese De Surso (oggi nella Pinacoteca Civica di Palazzo Mazzetti), fu sostituito con il nuovo del maestro artigiano Salario di Moncalvo. Alcuni anni dopo, nel 1768, fu ultimata la decorazione ad affresco del nuovo presbiterio e dell’abside per mano del pittore comasco Carlo Innocenzo Carlone di Scaria, coadiuvato da Rocco Comanedi di Cima, con Storie di Cristo e della Vergine, Storie dei Santi Marziano e Secondo e Allegorie Sacre. Le due cantorie laterali sono opera del moncalvese Bartolomeo Varale e di Giovanni Andrea Alemano, sui quali sono ubicati i due poderosi organi battenti accordati per suonare assieme: quello di Liborio Grisanti del 1765-68, deterioratosi nel 1844, fu sostituito da quello dei fratelli Serassi di Bergamo, trovando posto sulla tribuna sud prima di essere restaurato e inaugurato il 23 maggio 2010.

Nel XVIII secolo la Cattedrale assunse l’attuale planimetria per l’aggiunta di due cappelle barocche: la Cappella del SS. Sacramento, detta anche dei ss. Filippo Neri, Biagio e Gerolamo, lungo la navata laterale destra e di proprietà della famiglia Pelletta, e della SS. Trinità, detta anche di San Francesco di Sales, lungo la navata sinistra. In questa furono già aperte altre tre cappelle cinquecentesche: la Cappella dello Sposalizio della Vergine, detta anche di San Giuseppe, della famiglia Cacherano di Villafranca (nel 1728 la cappella divenne proprietà della famiglia Alfieri Curbis e qui fu sepolta la madre del grande illuminista Vittorio Alfieri), di San Giovanni Battista della famiglia Laiolo e di San Teobaldo e San Secondo della famiglia Zoia. Tra queste ultime due fu aperto, sempre in età cinquecentesca, la nicchia ospitante il gruppo scultoreo in terracotta policroma del “Compianto sul Cristo morto”, già nella Cappella della Madonnina, detta anche dell’Ascensione, in fondo alla navate laterale destra, un tempo della famiglia Malabaila. Nel 1641, incaricato un sacerdote del Capitolo alla cura delle anime, sorse la necessità di proferirgli un reddito perpetuo per il suo sostentamento. Si dispose allora di ricavare da beni immobili della stessa Cattedrale un reddito per la Vicaria perpetua legata alla Cappella di San Gottardo, santo che da quel momento fu unito al titolo di Santa Maria Assunta della Cattedrale e il cui culto fu introdotto da San Bruno (o Brunone) d’Asti, abate benedettino, teologo e vescovo di Segni, il quale visse cinquant’anni dopo Gottardo (960-1038).

  • Gli ambienti, le cappelle nobiliari e le opere esposte
  • Navata laterale sinistra
  • La prima cappella posta all’inizio della navata laterale sinistra è quella dei Tebaldo e Secondo della famiglia Zoia e risalente alla metà de Settecento, ove al suo interno è ubicato un pregevole altare ligneo barocco.
  • Il nicchione fu ricavato in età cinquecentesca per ospitare il gruppo scultoreo in terracotta policroma del “Compianto sul Cristo morto”, già nella Cappella della Madonnina, detta anche dell’Ascensione, in fondo alla navate laterale destra, un tempo della famiglia Malabaila. L’opera, costituita dalle otto figure evangeliche della deposizione (Cristo morto, la Vergine sorretta da San Giovanni evangelista, San Nicodemo, San Giuseppe di Arimatea e le tre Marie: Maria di Cleofa, Maria di Salòme e Maria Maddalena di Magdala) s’ispira alla tradizione pietistica di area lombarda con ampio ricorso a parti calcate dal vero, come una mano e le gambe del Cristo.

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  • Cappella di San Giovanni Battista, già sepolcro della famiglia Laiolo dopo la metà del Trecento e intitolata a S. Stefano, la cappella fu riedificata nel 1620-1624 per il patrocinio dei conti Asinari di Casasco e rimaneggiata nei secoli successivi, benché conservi ancora la decorazione a stucco del sottarco. Gli affreschi sono del tardo Settecento, mentre l’altare marmoreo, proveniente dalla cappella del Crocifisso della soppressa chiesa conventuale di San Giuseppe, sostituì quello originale nel 1809, anno in cui su questi fu posta la tavola della Madonna col bambino in trono tra santi e il committente Govone Oberto Solaro del 1516, già depositata presso la succitata chiesa di San Giovanni, operazione che comportò la riduzione della cornice e la perdita dell’iscrizione indicante la data dell’opera e il nome del committente. Quest’ultimo, erroneamente indicato in passato come banchiere anziché avvocato, è ritratto inginocchiato ai piedi della Vergine e, in onore al rango della famiglia, nella pala sono raffigurati manufatti tessili di lusso, quali il damasco dell’abito dell’angelo musicante, il baldacchino di seta (ispirato ai modelli della pittura veneta rinascimentale) e il tappeto del trono intessuto d’oro di fattura ispanico-moresca.

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  • Cappella dello Sposalizio della Vergine detta anche di San Giuseppe è la terza cappella della navata settentrionale del duomo, edificata nel 1516 dai conti Cacherano di Villafranca e i cui discendenti ne promossero la ricostruzione a metà Seicento. Nel 1728 la cappella divenne proprietà della famiglia Alfieri Curbis e qui fu sepolta la madre del grande illuminista Vittorio Alfieri; mentre sono ottocentesche le pitture con angeli e simboli della Passione e le decorazioni del sottarco e del prospetto. Sull’altare marmoreo con coppie di colonne tortili, proveniente dalla chiesa conventuale di San Giuseppe, soppressa in età napoleonica, è collocato lo Sposalizio della Vergine, tavola di Gandolfino da Roreto eseguita nel 1510-12 su committenza della famiglia Cacherano. Tra le opere più antiche dell’artista, la scena è ambientata in uno spazio architettonico di memoria bramantesca e ove, pur non rinunciando alla pastiglia dorata, si presta particolare attenzione ai raffinati apparati decorativi, come i tessuti preziosi e la bella lumiera che pende dal soffitto.

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  • Cappella della SS. Trinità, detta anche di San Francesco di Sales.
  • Cappella della Madonna Grande, detta anche dell’Epifania, decorata dai pittori Carlo Innocenzo Carloni, Gaetano Perego e Pietro Antonio Pozzo nel 1767-68. Sull’altare è ubicata la statua in rame argentato e dorato della Madonna Assunta dello scultore astigiano Giovanni Tommaso Groppa su commissione del vescovo Innocenzo Milliavacca.
  • Navata laterale destra
  • Cappella della Madonnina, detta anche dell’Ascensione, voluta dalla famiglia Malabaila, presenta sull’altare barocco uno splendido affresco della metà del XV secolo proveniente dalla Certosa di Valmanera e raffigurante la Madonna del latte, sacra icona oggetto di particolare venerazione del popolo astigiano.

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  • Cappella del SS. Sacramento, detta anche dei Biagio, Gerolamo e Filippo Neri, fondata nel XV secolo dalla nobile famiglia Pelletta, fu ceduta al Capitolo che nel 1694 le diede una nuova veste barocca grazie agli affreschi di Salvatore Bianchi con l’Apoteosi di San Filippo Neri e Storie della vita; mentre il baldacchino che sormonta l’altare è dono del conte Amico di Castell’Alfero. Nell’urna dell’altare si conserva il corpo del Beato Enrico di Comentina, traslato nel 1801 dalla chiesa conventuale di San Francesco d’Assisi. Durante gli interventi del 1694 fu smembrato e ricollocato sull’altare, altresì, il Polittico della Genealogia della Vergine del 1501 di Gandolfino da Roreto. L’opera, inserita oggi sull’altare barocco della cappella, è composta dalla tavola centrale con la Genealogia della Vergine e della Santa Parentela, secondo un testo apocrifo trascritto sul dipinto stesso; le tavole laterali rappresentano i ss. Biagio, Gerolamo, Secondo e Dalmazzo nella parte sommitale sormontata dalla lunetta con la Pietà tra la Vergine e San Giovanni evangelista. Il tema della Sacra Parentela, piuttosto popolare tra il XV e il XVI secolo, e particolarmente legato alla tradizione tedesca, è presente in altre opere di Gandolfino da Roreto (chiesa di Sant’Antonio di Casale Monferrato; chiesa di Santa Maria Assunta di Grignasco; e Sacrestia del Duomo di Torino), con richiami diretti all’ambiente lombardo manierista di Ambrogio da Fossano, detto il Borgognone.

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Sulla zona presbiteriale, dietro l’altare maggiore, è ubicato lo splendido coro ligneo con stalli settecenteschi dello scultore Giuseppe Giacinto Salario di Moncalvo, il quale sostituisce l’antico coro del 1477 del pavese De Surso, oggi al museo diocesano della Cattedrale.

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Alla luce di quanto brevemente indagato, il consiglio più efficace che possiamo fornirvi è quello di recarvi personalmente nel capoluogo astigiano ove, oltre alla Cattedrale di Santa Maria Assunta e San Gottardo, nonché all’ottima cucina, avrete modo di scoprire gli altri gioielli medievali e barocchi, come la Collegiata di San Secondo, il Battistero di San Pietro, la Cripta di Sant’Anastasio, l’Arazzeria Scassa e la Pinacoteca di Palazzo Mazzetti, incastonati come gemme all’interno dell’accogliente reticolo urbano.