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UN QUADRO IN CERCA D’AUTORE…nella Sagrestia della Chiesa Madre di San Giovanni Battista di Leonforte (EN)

UN QUADRO IN CERCA D’AUTORE… nella Sagrestia della Chiesa Madre di San Giovanni Battista di Leonforte (EN). E un felice, quanto inatteso, incontro culturale.

di Filippo Musumeci e Claudio Benintende

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Il filosofo cinese Confucio riportava nei suoi “Dialoghi” (fine V sec. a.C.) che:
“Se incontri un uomo di valore, cerca di rassomigliargli. Se incontri un uomo mediocre, cerca i suoi difetti in te stesso”.
Sovente gli incontri più interessanti, quelli di un certo spessore, avvengono con modalità impreviste e imprevedibili. E sovente da tali incontri nascono e si svilupperanno sintonie e visioni comuni su quei punti fermi che costellano la nostra ordinaria linea di pensiero.
Ed è ciò accadutomi pochi giorni or sono in quel di Leonforte, in provincia di Enna, ove, approfittando di un altro soggiorno insulare a cui sferrare sentitamente un colpo basso a quel velo di monotonia natalizia che sistematico assale, mi decisi a marciare per 80 km l’autostrada Catania – Palermo per il fine ultimo di ammirare (e finalmente) dal vivo l’ “Elezione di San Mattia all’apostolato”, ovvero quel capolavoro di Pietro Novelli, il Monrealese, realizzato nel 1640-42 per la Chiesa dei PP. Cappuccini su commissione di Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia e principe delle terre di Leonforte, già indagato nel maggio 2016 in un nostro articolo. Ricordate? No?? Siete ancora in tempo!
Non è mai abbastanza ringraziare l’amica e collega Prof. Sara Savarino e il dott. Paolo Favazza per essersi attivati tempestivamente e disinteressatamente al fine di soddisfare la decantata richiesta da me avanzata. Senza la loro preziosa e indispensabile intercessione (è giusto sottolinearlo) il mio viaggio non avrebbe avuto luogo e sarei stato privato ancora una volta della “celeste” (mi si consenta la retorica) visione novelliana.
Fu qui, presso il prospetto della Chiesa dei PP. Cappuccini di Leonforte, che ebbi occasione di fare la conoscenza del Prof. Claudio Benintende, studioso dell’arte leonfortese (e autore anch’egli  di un studio sull’opera del Monrealese), nonché docente di Storia dell’Arte in provincia di Milano, il quale, oggi, mi onora generosamente della sua amicizia e stima, sinceramente ricambiate!
Posso affermare con un pizzico di sana leggerezza (che non guasta mai) che fu all’ombra del Novelli e dirimpetto al suo genio che questo felice e inatteso incontro culturale si compì. Quando si dice “la magia dell’Arte!”. Una verità sacrosanta, cari amici!!
Disquisire all’unisono al cospetto di un dipinto amato, studiato e caparbiamente presentato ai lettori per una sua legittima riabilitazione; condividerne le novità stilistiche e, allo stesso tempo , il loro retaggio storico-artistico di matrice caravaggesca e vandychiana,  assume un valore etico profondo alla base di quello scambio cordiale e civile di vedute, il quale nella sua definizione più compiuta si traduce in un “dare e ricevere” senza reticenza alcuna.
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Ed è lo stesso amico Claudio Benintende che a poca distanza dal nostro incontro ha voluto onorarmi di una sua breve riflessione su una tela a olio, al momento di autore non identificato (nonostante la firma), custodito nella Sagrestia della Chiesa Madre di San Giovanni Battista a Leonforte. Abbiamo avuto modo di visionare le immagini, gentilmente realizzate e concesse dal fotografo Giuseppe Guagliardo, ed entrambi siamo giunti alla cauta conclusione, in attesa di dovute ed esaustive ricerche, possa trattarsi di un’opera di autore meridionale degli inizi del Seicento, vicino alla maniera del pittore siracusano Mario Minniti, passato alle cronache per la sua amicizia con Michelangelo Merisi da Caravaggio, ma particolarmente attivo nella Sicilia orientale agli inizi del XVII sec., a seguito del soggiorno romano, negli anni Novanta del Cinquecento e inizi del Seicento, che lo vide accanto al Maestro Merisi in qualità di amico e modello, oltre che di seguace.

Ho deciso di riportare qui per intero la riflessione di Claudio Benintende, rinnovando alla sua persona la mia sincera gratitudine per la sensibilità umana e artistica donata al dibattito sul “Bello”.

Filippo Musumeci

Testo di Claudio Benintende

Il quadro raffigurato nell’immagine è stato fotografato grazie all’autorizzazione data dal Parroco Don Carmelo Giunta. Tale quadro risulta citato in pochissime fonti, tra le quali, più in dettaglio, bisogna ricordare il testo di Giovanni Mazzola, che così riporta:

“Nella sagrestia di detta Chiesa Madre. Il grandioso quadro rappresentante Gesù che caccia i mercanti dal tempio. In un piede di una panca capovolta, dipinta nello stesso quadro leggasi: MARCO ANTONIO P. Ma cosa significa? Forse l’autore che dipinse il quadro?” (Giovanni Mazzola, Notizie storiche sulla vetusta Tavaca e sulla moderna Leonforte– Nicosia-Tipografia Editrice  del Lavoro-­ 1924)

In un’altra guida si legge: “Pregevole grande tela ad olio raffigurante  La cacciata dal tempio  di Giulio Romano (Sagrestia)”

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Dalle fonti consultate, non risulta la presenza di un “Marcantonio” pittore nella Sicilia dei primi del 1600. Potrebbe trattarsi di un allievo della bottega di Giulio Romano, un certo Marcantonio Raimondi (1480-1534) ma questa ipotesi è poco sostenibile perché tale  “Marcantonio” era solo un bravo incisore del 1500 e quindi assai lontano dai modi e dallo stile della pittura caravaggesca del nostro quadro.

Siamo quindi, ancora oggi, in cerca di un autore per il quadro e di una possibile soluzione alla scritta che si intravede capovolta nello sgabello, e che voleva forse riferirsi all’autore del quadro o configurare altri significati nascosti.

Il soggetto tratta la rappresentazione visiva del Vangelo secondo Giovanni (Cap. 2, 13-17):

13 Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14 Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. 15 Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, 16 e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. 17 I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora.

In questa ricerca mi è stato d’aiuto il Prof. Filippo Musumeci, che, servendosi di foto realizzata e gentilmente concessa dal fotografo  Giuseppe Guagliardo, ha provato a elaborare  l’immagine agli infrarossi, traducendo l’autografo come: MARCOANTONIO R. [oppure “P.” (?)]. Musumeci, però, sottolinea come l’ultima lettera risulti poco leggibile e l’immagine a disposizione non ha permesso, al momento, di identificare con assoluta certezza la consonante esatta. Apparentemente essa è identificabile con una “R”, come, del resto, riportato nel testo di Giovanni Mazzola. Ma agli infrarossi tale tesi presenta  dubbi, i quali necessitano di analisi più accurate e, soprattutto, compiute dal vivo.

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Secondo il suo parere iniziale (e, soprattutto, in assenza di una ricerca bibliografica più approfondita), il dipinto intitolato “La cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme” presenta un impianto di matrice caravaggesca e ciò si evince più semplicemente nelle figure dei mercanti a sinistra e degli astanti a destra. La figura di Cristo, pur traendo spunto da modelli seicenteschi romani e lombardi, risente del Classicismo idealizzante dei Carracci.

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A me piace pensare invece che sia un’opera di Mario Minniti, pittore di Siracusa attivo in Sicilia dal 1606 sino al 1640, amico e modello di Caravaggio, o della sua bottega.

Nella biografia di Mario Minniti sulla Treccani per il quadro intitolato “Il miracolo della vedova di Nim” raffigurato nell’immagine qui sotto (e da me riportato a fianco del quadro di Leonforte  per un confronto stilistico) si legge quanto segue:

Una genuina matrice caravaggesca, più vicina al Caravaggio romano che a quello meridionale, è stata invece riconosciuta nella concitazione del gruppo degli astanti nella parte sinistra del dipinto e nell’impostazione chiaroscurale di molti brani”.

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la cura nella resa dei costumi, dalle tipiche sciarpe con le frange, ha richiamato la eleganza dei personaggi creati da Orazio Gentileschi…”…una medesima impostazione luministica e dei particolari stilistici sovrapponibili: molti sono direttamente ispirati da opere o personaggi di Caravaggio, ma sono caratterizzati anche da ambientazioni e da una temperatura emotiva vicino al tardo manierismo toscano ( riformato), ossia corretto alla luce delle nuove istanze naturalistiche e dei dettami della riforma tridentina delle immagini.” (D.Spagnolo – Treccani- Minniti Mario)

Dal confronto dei due quadri e dei particolari a me sembra di intravedere l’utilizzo della stessa tavolozza cromatica, la cura e l’attenzione nella raffigurazione del panneggio di alcuni personaggi e la somiglianza formale della rappresentazione di alcuni visi, che farebbero pensare alla mano dello stesso pittore.

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Sarebbe interessante poter raccogliere ulteriori considerazioni o pareri da parte di esperti di semplici curiosi dell’arte sull’attribuzione del quadro e sull’interpretazione della scritta sullo sgabello.

Claudio Benintende

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IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. SICILIA: UN PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITA’ A RISCHIO

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. SICILIA:

UN PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITA’ A RISCHIO

di Filippo Musumeci

UNESCO

Conoscete la barzelletta sui siciliani che vede come protagonisti Gesù e San Pietro?? Nooo??? Allora la racconto velocemente!!!
– Gesù: Pietro, recati sulla terra e cercami il nuovo Eden.
– Pietro: obbedisco, o mio Signore.
Pietro va e trova il nuovo Eden nella Sicilia. La più grande isola del Mediterraneo bagnata da tre mari e baciata dal sole; scrigno di tesori artistici di inestimabile bellezza, di folkore, fede popolare e meraviglie culinarie.
– Pietro: Mio Dio, non esiste al mondo un paradiso terrestre simile a questo. Devo subito comunicarlo al mio Signore.
Pietro torna in Paradiso e riferisce il tutto a Gesù.
– Gesù: Grazie Pietro! Hai fatto un ottimo lavoro! Puoi andare, adesso.
– Pietro: Perdonami,o mio Signore, solo una curiosità e poi ti lascerò ai tuoi gravosi impegni. Ma se informi l’umanità dell’esistenza di questo nuovo Eden, tutti cercaranno di andarvi a vivere e, ricercando l’elisir di eterna vita, nessuno più vorrà giungere a te.
– Gesù: ahhhhh,mio caro Pietro, puoi star tranquillo. Questo non accadrà! E sai perché?
– Pietro: No, Signore! Perché?
– Gesù: Bé, semplice: in Sicilia c’ho messo i siciliani!!!

Questo racconto ludico può darci l’idea dell’immagine che la mia terra offre di sé al globo intero: un triangolo geografico dall’ineguagliabile esplosione del “bello” per la varietà quantitativa e qualitativa dei suoi tesori culturali. Eppure vergognosamente “stuprata” dai suoi figli. Sì, ripeto, “stuprata”, e senza tanti giri forbiti di parole. Perché questa è la sua “vera” sorte, alla resa dei conti, fin dai tempi dell’età preunitaria.
È un cancro inespugnabile, una piaga dilatante, una peste endemica che ti logora lentamente fino a privarti di ogni flebile barlume di orgoglio, di ambizione, di speranza.
Perché questo mio attacco ferocemente indomabile non è frutto di prese di posizioni a prioristiche, bensì è covato, celato, maturato sidente negli anni fino al tragico epilogo mortificante e irreversibile.
Ma arriviamo al dunque. Il 14 novembre scorso alcuni giornali titolano (e il web non è da meno!) “Il record dei siti Unesco che la Sicilia può perdere. Il presidente del comitato per la promozione dei siti d’interesse storico – artistico annucia:«L’isola non gestisce il suo patrimonio e non investe»”. Pure questa, adesso?? Perdere i riconoscimenti Unesco faticosamente conquistati nell’ultimo ventennio??
Il presidente in questione è il maltese Raymond Bondin, presidente onorario del Comitato delle città e dei villaggi storici UNESCO, il quale ci va giù pesante (e fa pure bene, con tutta la mia sacrosanta solidarietà!).
«Non capisco in tutta sincerità come i politici siciliani non riescano a gestire il patrimonio dell’Isola in maniera corretta. Anzi, non lo gestiscono affatto. Da tempo. La Regione non riesce neanche a spendere i pochi finanziamenti che arrivano. A me sembra che la Sicilia stia facendo di tutto per perdere i riconoscimenti Unesco da noi concessi in questi anni».E non parliamo di briciole, ma di milioni di euro da investire sulla promozione del patrimonio culturale. Ma non è finita, ahimé!! Ancora Bondin dichiara: «Nel mondo intero, non esiste alcun posto con così tanti tesori come la Sicilia. Non esiste un altro luogo con una concentrazione così densa di meraviglie. Eppure, dopo tanti discorsi, continue nomine di assessori regionali, soprintendenti et similia, siamo all’anno zero. L’amara realtà è che la Sicilia non è capace di gestire l’immensa fortuna che ha».
Mi permetto di aggiungere, caro presidente Boldin, più che all’anno zero, in Sicilia si è ancora al Paleolitico Superiore, cioè all’età dei graffiti! E lo confesso con profondo sconforto da siciliano e da storico dell’arte, riconoscendo, pure, per carità, di non essere mica Brandi, Longhi, Argan o Settis per poter emettere sentenza a scapito dell’amata Trinacria.
Ma, diamine, basta davvero ben poco per prender coscienza dell’amara realtà insulare tra incuria, poca professionalità e “dolce far niente” – caratteristica, questa, insita nel DNA degli addetti ai lavori che di appassionata promozione delle bellezze nostrane ne ignorano persino l’odore.
Un esempio fra tutti? Provate a chiedere chi siamo artisti del calibro di Domenico e Antonello Gagini, Filippo Paladini, Pietro Novelli, Giovan Battista Vaccarini, Rosario Gagliardi, Giacomo Serpotta, Olivio Sozzi e Francesco Lojacono, Ernesto Basile. Questi, osannati in passato dalla critica, restano relegati e lasciati così, “come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, di memoria ungarettiana.
Tuttavia, codesta scellerata negligenza non è una vostra colpa. Assolutamente no! Questa sarebbe da additare, piuttosto, a coloro, benpensanti e perbenisti, che occupano con boriosa vanagloria e tutto il peso della propria perversa incoscienza i seggi vellutati color porpora dei palazzi blasonati del potere, tra le altre cose, ereditati gratuitamente dagli antichi avi, senza dubbio più saggi e onorevoli dei loro beneamati figli.
Quella che fu capitale del Regno arabo – normanno, paga il prezzo più alto sul territorio nazionale per i conti sempre in rosso del governo siciliano (chissà, poi, perché!) a causa dei quali si deve l’effetto del devastante e incolmabile tasso di disoccupazione, mai assopito, e il conseguente esodo, come in passato (repetita iuvant) , di coloro che dicono <<basta>> e ci danno un taglio…in ogni senso con la litania dell’amor di patria. Perché, se è vero che non di solo pane vivrà l’uomo, è altrettanto vero che di pane è costretto a vivere l’uomo!
Eppure, i parlamentari dell’ARS sono i più pagati d’Europa e se la spassano sul serio, caspita!! Ma non è minimamente una mera questione di colore politico, poiché l’ultima campagna elettorale promise il decantato cambio di rotta, l’agognato giro di boa, l’avvento di un nuovo glorioso capitolo. Ma a chi volevate darla a bere!!!

Sono le solite demagogiche da palazzo! Illusioni e utopiche oasi nel deserto, nonostante la Sicilia non sia affatto un’arida e avvelenata distesa di campi sterili ma un paradisiaco Eden in mano a gattopardiani sciacalli. L’altro giorno un gentile lettore mi scrisse proponendo di affidare la Sicilia ai Romagnoli per cambiare finalmente le cose.
Caro lettore, quanta amara verità nelle tue parole!! <<Errare humanum est, perseverare autem diabolicum>> (“Commettere errori è umano, ma perseverare è diabolico”). E dato che non sappiamo gestire la nostra inestimabile eredità non giova a nulla perseverare.
Sì, perché in tal caso – salvo i casi di coloro che, amando le arti visive hanno provveduto da sé ad una decorosa e qualificata formazione – un adiposo interrogativo occuperebbe le parete del vostri emisfero in modo imperituro. E non pensiate che Antonello da Messina, Pirandello, Verga, Capuana, De Roberto e Guttuso se la passino  tanto meglio. Tutt’altro!! Certo, godono di una fama stellare che vive, ormai, di luce propria, ma poca roba rispetto agli onori meritatissimi che la patria dovrebbe riservar loro.
L’unico esente da tale oblio pare essere, al momento, Vincenzo Bellini, quello della “Norma” e della “Sonnambula” (e molte altre) al quale il comune di Catania, città natale del celebre musicista, ha persino intitolato lo scalo aeroportuale etneo. Come se mancassero altri nomi illustri da proporre, magari più congeniali alle funzioni della struttura commerciale! A proposito, sfatiamo un mito! Il cockail “Bellini”, inventato nel 1948 da Giuseppe Cipriani, deve il nome, sì, a un Bellini, ma non certo a Vincenzo, bensì a Giovanni, detto il Giambellino: padre del tonalismo veneto tardo-quattrocentesco, celebre “anche” per il rosso vibrante impiegato nei suoi dipinti.
Tutt’altra fama godono, invece, i gadget di cui andare meno fieri e che dilagano dappertutto (aeroporto incluso), come il “Padrino” con tanto di smorfia facciale alla Marlon Brando, oppure “u’ mafiusu” con coppola e lupara a seguito (tanto per non farci mancare niente!). E se indispettito provi a chiedere ragione di simili offensivi obbrobri ti senti rispondere dal negoziante di turno: «Cosa vuole? È business! Se i turisti li richiedono vuol dire che piacciono e io devo pur campare».
Ritorno annualmente al borgo natio, promettendomi sistematicamente di non “oziare” e, armato di enfatica brama , di riammirare splendori unici dinanzi ai quali in passato restavo in estasi per ore. Ma ogni volta dimentico di dovermi scornare con l’arcigna realtà per la quale mi logoravo da residente negli anni della giovenizza e degli studi. Inutile pianificare una tabella di marcia, poiché irrompe repentino lo stornello lento e nostalgico del disincanto: quello tanto odioso e che credi, ormai, trapassato remoto, anziché, com’è, vivo e vegeto, quando non sinistro…com’è in cuor suo… “li mortacci sua!!”. Ora parlo pure romanesco!!
Visitare i “pochi” musei teoricamente (almeno sulla carta) aperti?? <<Ma vogliamo “babbiare”?>> (ricorda Montalbano). Non ci sono fondi e manca il personale “qualificato”. Quindi “l’apertura dei musei è posticipata a data da destinarsi”, recitano sovente gli avvisi affissi alle porte d’ingresso “serrate”.
Ma scusate, qual è la novità? Questa è la “norma” in Sicilia. E di “norme” i siciliani ne conoscono tante, mica solo quella del povero Bellini. Ciononostante, esiste sempre da queste parti un piano alternativo, altrettanto valido e dal valore saziante: quello culinario… che di questi tempi è diventata la chiave di volta per qualsiasi problema.
“Cari turisti, pappetevi un buon piatto di pasta alla “norma” (con tanto di ricotta salata spolverata sopra) e non pensateci più, insomma! Perché in fin dei conti, la Sicilia è bella “anche” per questo, non soltanto per l’Arte!… L’Arte, poi!!!”.
Ma mi facciate il piacere di tacere con tanto di buon senso (qualora ce ne sia ancora un residuo sparso chissà dove) per lo meno!
Tanto parliamo di aria fritta! E Tomasi di Lampedusa insegna che: <<se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi!>>. Infatti la Sicilia cambia di volta in volta allo stesso modo, rimanendo sempre la stessa. Straordinario fenomeno!!
Ho imparato ad amare questo spicchio di crosta insulare grazie a quel senso di appartenenza che ogni siciliano si porta dietro, specie quando con ricordo verghiano lo sguardo è “da lontano”. Ma anche grazie a coloro che, pur non essendo siciliani d’origine lo furono, comunque, di adozione, insegnando a tutti noi a guardare quest’Eden con occhi inediti. Penso a Goethe e al suo “Viaggio in Italia” del 1817, nel quale scrisse: «L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra…chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita».
E ancora Cesare Brandi, che nel suo saggio “Sicilia mia”, pubblicato nel 1989, sostiene che «non c’è bisogno di ricorrere a miti, a memorie storiche, a raptus religiosi: la realtà è così complessa e diretta che comprende tutto come un composto di cui si ignorino gli ingredienti, ma se ne subisce l’effetto. E l’effetto è uno solo; in segreto ti dici, ma può esserci al mondo un paese più bello della Sicilia?».

Ma l’ultimo affronto all’inestimabile patrimonio artistico dell’isola proviene direttamente dagli scranni di Palazzo dei Normanni e risale all’aprile scorso. Con una deroga speciale, il governo Crocetta di centro-sinistra ha autorizzato per i prossimi mesi l’inopportuno tour  peninsulare dell’Annunciata di Antonello da Messina (1476-77) per le città di Torino, Roma e Milano nell’ambito della mostra “Mater”. E tutto ciò per far cassa, come sempre! Ma qui parliamo di una manciata di migliaia di euro (circa 10.000), dimenticando (?), evidentemente, la fragilità del celebre olio su tavola, inserito nel giugno 2003, non a caso, in un elenco di 23 opere inamovibili dal territorio insulare al fine di tutelarne lo stato conservativo, comprendente anche il Satiro danzante di Mazara del Vallo (Trapani) e la Venere di Morgantina” di Aidone (Enna). Dunque, non uno scambio culturale tra istituzioni museali consistente in un prestito reciproco di opere: “Io do a te e tu dai a me!”. Ma solo business, ovvero “mercificazione dell’arte”. Ma in fondo, a chi potrà mai importare questa mia impotente nenia?

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Le critiche per l’insana decisione sono state avanzate tempestivamente dall’opposizione nella persona del deputato regionale Nello Musumeci (NON è mio parente! Quindi non sussiste conflitto d’interesse!), ex presidente della provincia etnea:

<<Anziché avviare il sistema dei parchi archeologici, previsto dalla legge Granata e sperimentato con successo ad Agrigento, e dei musei dotati di autonomia gestionale e finanziaria, il governo regionale ‘apre’ nuovamente e incredibilmente ai prestiti delle nostre principali opere d’arte e dei nostri più importanti reperti. È una scelta che giudichiamo priva di senso e rischiosissima per il nostro patrimonio artistico. Il turismo culturale e la nostra immagine – conclude – non si valorizzano facendo viaggiare quadri e reperti, sottoponendoli peraltro a rischi enormi per cifre irrisorie. Il turismo nell’Isola si stimola garantendo l’apertura regolare e prolungata di tutti i musei e i parchi e la valorizzazione con eventi e mostre da organizzare in Sicilia>>.

La risposta potrebbe essere: <<No, non esiste un luogo più bello della Sicilia!>>.

Ma i suoi figli, stanchi e disincantati, fanno la valigia (come il sottoscritto) e tentano altrove altre strada, con quello “sguardo da lontano” di sapore melanconicamente verghiano.

– E quelli che restano?

– Beh, quelli che restano o sono disincantati al pari di quelli già emigrati!

– E chi ne deturpa allora l’immagine di quest’isola baciata dal sole e cullata dal mare?

– Viene deturpata da chi si crede figlio legittimo dell’isola, senza sapere, ahimé, di esserne sono una cancrena…Sì, una cancrena! Di quelle che, Pirandello insegna, sono dure da estirpare e che: <<Non si leva cchiù, manco cu ‘u cuteddu>> (“Non va via neppure con il coltello”).

– E l’effetto, dunque, quale sarà?

– L’effetto sarà inevitabilmente il rovescio della medaglia! E per cui si dirà:

Fortunato al chè siculo generato, 

seppur amaro in oculo il contrito abbaglio.

In abisso il bello amato in denso pantano,

di cotanto ozio imputato son fiacco e indignato.

(Filippo Musumeci)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

UN CAPOLAVORO DA RISCOPRIRE: “ELEZIONE DI SAN MATTIA ALL’APOSTOLATO” DI PIETRO NOVELLI, IL MONREALESE.

UN CAPOLAVORO DA RISCOPRIRE:

“ELEZIONE DI SAN MATTIA ALL’APOSTOLATO”

DI PIETRO NOVELLI, IL MONREALESE

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 di Filippo Musumeci

– Autore: Giovan Pietro Novelli, il Monrealese

(Monreale, Palermo, 2 marzo 1603 – Palermo, 27 agosto 1647)

– Opera: “Elezione di San Mattia all’apostolato”

– Anno:1640-42 ca.

– Tecnica: olio su tela, 390 x 288 cm.

– Committente: Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia e principe delle terre di Leonforte (Enna).

– Ubicazione originaria e attuale: Leonforte (Enna), Chiesa dei PP. Cappuccini, altare maggiore.

Perché un altro articolo (il quinto) sul Monrealese? A che pro?

Quale la necessità di investigarne ancora la figura? Ma soprattutto, perché continuare a “scornarsi”, insistendo sulle gesta di un uomo – caposcuola della pittura barocca siciliana nonché massimo artista dell’isola dopo l’eternamente attuale Antonello da Messina – le cui opere (custodite nei maggiori poli museali americani ed europei) furono celebrare per estro e qualità dai mecenati a lui contemporanei e dalla critica ottocentesca -novecentesca, ma il cui contributo offerto all’arte risulta oggi (con buona pace dei sensi) palesemente obliato dalla storiografia postmoderna? Insomma, amico mio, perché perseverare in questo gioco diabolicamente perverso, farsi del male e apparire banalmente ridicolo agli occhi dei lettori? Tentare l’impresa titanica della riesumazione forzata di un artista ignoto ai più credi possa giovare alla nobile (questa sì!) causa sposata?

Ma il perché è davvero a portata di mano, credimi! Non vedi? Il fine non risiede qui giammai in un atto di persuasione su di un artista piuttosto che su di un altro, né tantomeno elargire proclami ideologici votati a un discutibile e sterile residuo campanilistico, il cui vincolo, tra l’altro, avrebbe il sapore amaro di un imperdonabilmente limite tematico. Bensì si è mossi, in tutta sincerità, per l’esclusivo e disinteressato piacere di presentare, a coloro che ne sentiranno curiosità, l’opera di un artista “puro”, per destino nefasto, omesso dai manuali di Storia dell’Arte come dalla saggistica.

Bontà sua, il pittore siciliano godette in passato di particolari attenzioni da parte di chi acume possedette così abilmente, scorgendo nei volumi e nei timbri cromatici di questo maestro del Seicento il linguaggio di una sintesi perfetta tra classicismo idealizzante carraccesco di tradizione plastica e realismo caravaggesco, riberesco e vandyckiano di innovazione luministica: Gioacchino Di Marzo, Roberto Longhi, Guido Di Stefano, Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Claudio Strinati, Rossella Vodret, Vincenzo Scuderi, Vincenzo Abbate, Angela Mazzè, Giulia Davì, Maria Pia Demma, Dante Bernini e Maria Grazia Paolini (questi ultimi due vale la pena ricordare anche per aver curato nel 1967, con la preziosa collaborazione di Cesare Brandi, l’unica antologica su Filippo Paladini a Palazzo dei Normanni di Palermo) sono appena i più noti fra gli storici dell’arte impegnati nell’indagine scientifica delle componenti formali e stilistiche del Monrealese, chiarendo, come afferma Calvesi che: «Se dal Rubens stesso e da Annibale Carracci egli accoglie talvolta il suggerimento di una larga plasticità nello squadro dei corpi e di una robusta articolazione compositiva, e se dal Caravaggio e dal Ribera è indotto a un pronunciato realismo, il modello più congeniale alle sue educate e composte cadenze resta Van Dyck, particolarmente la pala palermitana dell’Oratorio del Rosario di San Domenico. Di lì sembra provenire il suo ideale di “maestria”, di sapienza come misura, nell’accorto dosaggio dei movimenti, che debbono animare la scena senza però turbare l’equilibrio, nella miscela delicata delle luci e delle ombre che non debbono creare forti contrasti, ma avvolgere atmosfericamente lo spazio e suggerire il devoto concerto dei sentimenti».

Nel quarto volume del “Dizionario della pittura e dei pittori” edito nel 1994 da Einaudi, a cura di Enrico Castelnuovo, Michel Laclotte, Jean Pierre Cuzin e Bruno Toscano, alla voce Pietro Novelli si legge: «Il suo linguaggio – una delle più alte espressioni di tutto il Seicento meridionale – può dirsi maturo quando Novelli giunge a Napoli, probabilmente tra il 1631 e il 1632 (periodo nel quale risulta assente da Palermo). Qui egli incise profondamente nella pittura locale e influì sullo stesso Ribera, cui pure si accostò in alcune opere di quel periodo».

E proseguendo nella lettura del testo si giunge quasi casualmente a quel passo illuminante, quasi l’incipit per il “capolavoro da riscoprire” che ci si è proposti di porre alla gentile attenzione del lettore: «le numerose tele per le chiese degli ordini religiosi, tra le quali la stupenda “Elezione di San Mattia ad Apostolo” (Leonforte, Cappuccini), sono abilissime esemplificazioni di questa sua non comune capacità di fondere le molteplici suggestioni – da Artemisia Gentileschi a Stanzione, da Vaccaro a Ribera, dai francesi ai fiamminghi – in una forte ed originale espressione pittorica ,il cui più evidente connotato può individuarsi in quell’intonazione nobile ed aulica che fa del Novelli in qualche modo l’equivalente meridionale del Gentileschi».

Esplicitati, dunque, i termini della cifra stilistica del pittore siciliano risulteranno, forse, più chiare le motivazioni alla base di questo scritto: assolvere il Monrealese, e una buona volta per tutte, dall’astorica (dunque infondata) accusa di “provincialismo” attraverso la lettura di un’opera poco noto per via della sua ubicazione geografica alquanto periferica rispetto al centro pulsante della cultura insulare del XVII secolo, Palermo, ma ciononostante pur sempre degna di  attenzioni per essere, qual è, fra le creazioni più alte e mature del pittore siciliano.

Fu lo storico Gioacchino Di Marzo a restituire nel 1856 la paternità del dipinto al Novelli, segnalando come presso il «convento dei PP. Minori Cappuccini […] nell’altare maggiore» fosse ospitato «il magnifico quadro rappresentante l’elezione di San Mattia all’apostolato, opera stupenda del Monrealese».

La grande tela fu commissionata tra il 1640-42 dal principe Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia, per l’altare maggiore della Chiesa dei PP. Cappuccini di Leonforte, nell’ennese, edificata per volere dello stesso principe come mausoleo di famiglia.

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Il soggetto religioso richiesto dal committente è la sacra rappresentazione evangelica contenuta nel cap. 1 degli Atti degli apostoli attribuiti a San Luca (autore anche di uno dei quattro Vangeli), relativa all’elezione di San Mattia come “nuovo dodicesimo” apostolo a seguito del suicidio di Giuda Iscariota nel Campo “Akeldamà” (in ebraico), tradotto come “Campo del sangue”:

<<In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato “Akeldamà”, cioè “Campo del sangue”. Sta scritto infatti nel libro dei Salmi:

“La sua dimora diventi deserta

e nessuno vi abiti,

e il suo incarico lo prenda un altro”.

Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione». Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato “Giusto”, e Mattia. Poi pregarono dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava».  Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli>>. (Atti degli Apostoli, 1, 15 – 26)

 Bisogna premettere, a titolo di cronaca, che il campo chiamato in ebraico “Akeldamà”, ovvero il “Campo del sangue”, sarebbe il medesimo citato da San Matteo nel cap. 1 del suo Vangelo e meglio noto come il “Campo del vasaio”:

<<Allora Giuda – colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il “Campo del vasaio” per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: «E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore»>>. (Vangelo secondo Matteo, 1, 3 – 10)

 Per quanto concerne, piuttosto, il significato profondo rivestito dall’episodio neotestamentario riportato negli Atti degli apostoli, l’elezione di San Mattia, quale nuovo apostolo eletto, dev’essere interpretata come la “chiamata” cristiana del credente a testimone del Magistero salvifico del Cristo Salvatore, dunque, simbolo di vita eterna e Redenzione. La stessa origine etimologica del nome “Mattia” esemplifica il concetto stesso di “elezione”, cioè di “scelta”, poiché esso non è altro che l’abbreviazione dell’ebraico Mattithiah”, tradotto come “dono di Jahvè”, vale a dire “dono di Dio”, inteso, più specificatamente, come “dono dell’Uomo-Dio”, o meglio “scelto dal Dio cristiano Uno e Trino” come “martire” (dal latino “martyry̆ris”, “testimone”), la cui festività ricorre secondo il calendario romano il 14 maggio, giorno votivo che ne ricorda il martirio subito. La tradizione vuole che fu condannato dai giudei per la sua fede alla pena della lapidazione prima di essere decapitato per mezzo dell’alabarda, poi divenutone il suo attributo iconografico. Oggi le spoglie mortali del santo sono venerate a Padova e custodite all’interno di un’ara marmorea posta nel braccio destro del transetto della Basilica di Santa Giustina, dirimpetto all’altra ara marmorea contenente quelle dell’evangelista San Luca.

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L’impianto scenografico dell’opera è strutturato su due registri ideali occupati dai volumi fortemente rilevati delle figure: quello superiore ospita la SS. Trinità trionfante, manifestatasi in Dio Padre, Gesù Cristo e Spirito Santo (quest’ultimo materializzatosi nella colomba bianca con ali spiegate); quello inferiore, invece, gli apostoli, la Vergine, due delle tre pie donne (Maria di Magdala, detta Maddalena e Maria di Cleofa, oppure di Salomè) e lo stesso Monrealese (l’unico dei non direttamente partecipe all’azione), autoritrattosi, come in altre occasioni, come testimone oculare della volontà trinitaria. Non insolita nell’opera del pittore, invece, la figura orante di anziano all’estrema destra, il cui modello si presenta come l’alter ego dell’altra figura senile, posta anch’essa all’estrema destra, nel “San Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi” (1634-35), di cui si è discusso QUI. In entrambi i casi è facile identificare i tratti somatici del padre del Monrealese, il pittore manierista Antonio Pietro Novelli.

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Più dettagliatamente, sul registro superiore il Padre e il Figlio “globocratori” (“creatori del mondo”) con la colomba bianca dello Spirito Santo appaiono alla comunità apostolica di Gerusalemme siedono sospesi sulle nubi dell’Empireo tra le schiere di cherubini (esseri angelici a due ali mostranti solo il volto) e putti alati di memoria classica. Dio Padre poggia la mano destra sul globo, mentre con la sinistra manifesta la sua volontà sull’ispirazione divina del Figlio, il quale infonde lo Spirito Santo, sotto forma di colomba bianca con ali spiegate, sull’apostolo Mattia, a sua volta, perfettamente in asse con il braccio e il “gesto parlante” della mano destra di Cristo.

Ma non è tutto! Il Monrealese dimostra proprio nella gestualità armoniosa del gruppo trinitario di possedere un’erudita educazione sull’esegèsi cristologica. Infatti, i gesti calibrati e accordati dell’Eterno e di Cristo sono portatori di un messaggio dogmatico efficacemente più profondo e in linea con la tradizione escatologica della Chiesa paleocristiana. Essi rappresentano lo Spirito Santo che procede dalla volontà del Padre a quella del Figlio e da questi è donato a San Mattia come testimone della nuova fede. Si tratta, in definitiva, di una trasposizione figurativa del passo del «Credo Apostolico» di rito latino-romano: “Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti”.

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Sul registro inferiore, invece, il gruppo di astanti – la comunità apostolica radunata a Gerusalemme per eleggere il nuovo apostolo è presieduta da San Pietro, vicario di Cristo (l’uomo calvo e scalzo posto di spalle e genuflesso all’estrema sinistra) – occupa uno spazio architettonicamente concreto, immaginato come un’area presbiteriale di cui si distinguono le strutture marmoree, come le gradinate su cui siedono sopra uno scanno Mattia (a sinistra) e  Barsabba, “il Giusto” (a destra), la parete sinistra di ordine corinzio munito di plinto e la balaustra sul fronte del cui pilastrino è il rilievo scultoreo monocromo con lo stemma araldico del principe Branciforte e Lanza, committente del dipinto. Vincenzo Scuderi ha avanzato, seppur con qualche reticenza, un’interpretazione alternativa alla struttura architettonica del fondale, vedendo in essa gli esterni del castello della famiglia (ipotesi debole, a nostro modesto dire) sito un tempo nel feudo di Leonforte.

L’abilità compositiva del Novelli è qui evidenziata nell’aver saputo dosare magistralmente la distruzione delle figure nello spazio scenico, conciliando realtà sacra e profana, ossia un episodio neotestamentario apostolico paleocristiano – la sostituzione dell’Iscariota con il nuovo apostolo Mattia – dal tono popolare con uno socio-apologetico seicentesco di carattere gerarchico e aristocratico. Quest’ultimo, in particolar modo, si presenta come esaltazione celebrativa della numerosa famiglia Branciforte, la quale, composta da 4 figli e 5 figlie (di cui 3 suore), fu chiamata a posare dal Novelli per le figure sacre del registro inferiore, dando vita, in tal modo, a una superba galleria di ritratti nella quale il pittore eccelse con risultati verosimilmente di assoluta fedeltà.

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Apparentemente caotica nel suo groviglio di sentimenti variegati, a guardar bene la scena è organizzata per mezzo di un rigidissimo schema compositivo geometrico costituito da linee-forza, magistralmente enfatizzate dal commovente moto fisico dei personaggi, i cui sguardi (fatta eccezione per il pittore) sono catalizzati verso il vertice del triangolo interno, fissato nell’indice della mano sinistra di Cristo, Salvator mundi.

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Secondo gli studi condotti nel 1989 e 1990, è presumibile che la scelta tematica dell’«elezione-successione» nella comunità apostolica di Gerusalemme, secondo quanto riportato dagli Atti degli apostoli di San Luca, sia stata voluta dal committente come allusione all’«elezione socio-politica» della potente famiglia siciliana, significativamente impegnata sull’isola nel corso della prima metà del XVII secolo sul fronte amministrativo-giurisdizionale. Quest’allusione di stampo prettamente politico ne incorpora un’altra, ossia quella relativa alla «successione legittima per diritto ereditario», intesa come continuità perpetua dell’identità sociale della nobile famiglia nella persona di Giuseppe, primogenito del principe Nicolò Placido, a cui il padre passerà per volontà testamentaria un: «anello di zaffiro con l’arme Branciforte».

Come ricorda ancora Angela Mazzè, l’impaginazione iconografica della scena si conclude con due immagini eloquenti: «il piede nudo dell’apostolo (ulteriore evocazione caravaggesca), privilegio riservato ai santi nell’iconografia cristiana. Il libro che campeggia al centro della tessera inferiore, al centro, è aperto: il messaggio è già stato recepito dagli apostoli Cristo».

Nonostante la scarsità di fonti documentaristiche in possesso, l’opera appartiene indubbiamente al periodo post-Monreale, poiché, come suggerito da Guido Di Marzo, essa è ascrivibile alla fase produttiva del Novelli di «compiuta accademia eclettica, carraccesca e caravaggesca al tempo stesso».

Dimensione divina e umana, dunque, spirituale e corporale, eterna e mortale sono armonizzate dal Novelli in un affresco corale di suggestiva partecipazione emotiva e, come afferma Angela Mazzè, «dai moduli diversificati»: libera rielaborazione formale desunta da celebri opere studiate durante il soggiorno romano del 1631-32, come la “Trasfigurazione” di Raffaello (1518-20), l’“Assunta” di Annibale Carracci (1600-01) e la “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio (1599-1600), a cui andrebbero aggiunti, ovviamente, anche i modelli michelangioleschi della Sistina, specie del “Giudizio Universale”, e altre ammirate fra Napoli e Palermo, come la “Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina da Siena e i Santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata, Cristina e Rosalia” di Anthony Van Dyck (1628).

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A proposito della tela del Novelli, nel suo “The italian followers of Caravaggio” (“I seguaci italiani di Caravaggio”) del 1967 lo storico dell’arte statunitense Alfred Moir parlò di capolavoro «simultaneusly realistic, visionary and decorative» (“simultaneamente realistico, visionario e decorativo”), volendo indicare con ciò le qualità pittoriche dipanate dal pittore nella complessa illustrazione figurativa del soggetto.

Unanime il pensiero di Vincenzo Scuderi, il quale scrisse nel 1990: «Intensità o, almeno, volontà di fede e di verità naturali al tempo stesso – ritrattistiche, sociali, luministiche, ecc. – non meno intese si fondono, ad evidentiam, in quel capolavoro che è l’Elezione di San Mattia di Leonforte».

Più complessa la regia dell’impianto luministico sapientemente orchestrato, a cui è affidata l’articolazione plastica dei volumi nella loro traduzione anatomica di volti psicologicamente indagati e corpi ritmicamente animati da panneggi chiaroscurati; di profili architettonici illusoriamente rilevate e una spazialità razionalmente restituita al suo valore metrico. È la luce, in definitiva, nella sua matrice cromatica «bianco-oro», l’elemento unificatore tra i due registri superiore e inferiore della composizione, definita dallo Scuderi: «bipolare». E allora si comprende in modo più approfondito come quanto già affermato dal sottoscritto per l’Assunta la scorsa estate valga anche per il San Mattia: «sono questi lampi cromatici chiaroscurati a distaccare le figure dal tetro fondo nebuloso permettendo di emergere con tutta la forza della loro vigorosa massa».

Si è già fatto cenno ai rapporti esistenti tra la tela di Leonforte e la stupenda “San Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi” (1634-35) circa il modello della figura senile, i cui tratti somatici sono stati identificati con quelli del padre del Monrealese, il pittore manierista Antonio Pietro Novelli.

Ebbene, rapporti più esplicitamente diretti è possibile riconoscere tra la tela di Leonforte stessa e quell’altro capolavoro che è l’Assunta dei Cappuccini di Ragusa Ibla (di cui si è discusso la scorsa estate QUI), realizzato nel 1643, ovvero l’anno seguente del dipinto oggetto di studio di questo scritto. Le due opere sono complementari per:

1) la scelta dello schema compositivo geometrico e strutturale;

2) la disposizione spaziale dei personaggi, il ritmo della loro concitata gestualità e la coralità sacrale dell’insieme;

3) le figure speculari (San Pietro inginocchiato e l’autoritratto del pittore);

4) l’introspezione psicologica abilmente indagata;

5) l’impianto luministico affidato al sapiente contrasto chiaroscurale di scuola seicentesca, il quale definisce i profili plastici modellati dalla sorgente di luce diretta obliquamente da destra (la sinistra di chi guarda) verso sinistra (la destra di chi guarda).

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In entrambe, per concludere, è lucidamente tracciato il percorso della maturità raggiunto dal pittore siciliano e per il quale Guido Di Marzo parlò, come scritto in precedenza, di «solipsismo malinconico», il quale è frutto di quell’umanità austera e malinconica di cui è pervasa l’anima siciliana fin dalle sue remote origini. «E questa umanità si esprime in forme salde, che la fluida atmosfera umbratile vela e disvela e la sobria veste cromatica individua e ferma».

Quest’artista «Senza veri precedenti e senza veri seguaci è dunque il Novelli […].  Anni or sono cerco di carpirne l’ignoto magnetismo esercitato sulla mia persona, senza, tuttavia, risalire a un’efficace chiave risolutiva: la tendenza realistica, il cromatismo, l’eleganza compositiva? Oppure semplicemente quell’atmosfera profondamente sensibile delle sue creature o meglio, come ricorda Giulio Carlo Argan, «quel galateo appassionato e commosso»? Forse, ma è solo un pensiero labile, un inconfessato “sguardo da lontano”, quindi, malinconico?

O chissà, magari i momenti in cui sento più vicina la sua arte sono quelli di stati d’animo malinconicamente più estesi rispetto ad altri più convenzionalmente estroversi? Ma qualsiasi causa essa sia poco importa, a mio dire! Perché è il felice incontro emotivo scaturito da questa con tutto il suo retaggio di malinconica bellezza a scandire quegli spasmi di acuto piacere capaci di agitare dal profondo pulsioni inconsce.

E lui è sempre lì, in Sicilia, insiste il Di Marzo, perché: «Fedele al suo tempo e a sé stesso, Pietro Novelli può dunque trovar posto tra gli artisti migliori del secolo, anche se la sua azione, per ragioni intrinseche ed estrinseche, per la sua natura ricettiva e per la sua localizzazione geografica, fu limitata nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo che la vita di molte sue creature pittoriche supera nell’universalità ed eternità dell’arte».

Questa sua localizzazione geografica penalizzò il pittore in gran misura e spinse la critica più sprovveduta ad azzardare un facile“provinciasmo”, stroncato, “Deo gratias”, da chi sprovveduto non fu mai e parlò, al più, di isolamento insulare. Lo capì il conte Carlo Gastone Rezzonico durante un viaggio sull’isola nel 1793 quando scrisse: «il Monrealese, pittore che dallo Spagnoletto e da Wandeick [Van Dyck] trasse uno stile misto, e fatto suo proprio per modi sì egregi, che merita distintissimo luogo fra gli artefici italiani, e fuori si Sicilia non è conosciuto».

Si potrebbe disquisire sui modi ed esiti della sua formazione con un raffronto delle fonti storiografiche. E credo che questo potrebbe essere il materiale per un altro, chissà, ennesimo omaggio al pittore. Ma la speranza è che quanto lasciatoci dal pittore venga approfondito da una mente sottile di mia conoscenza,diligentemente attenta agli sviluppi dell’arte barocca nell’Italia meridionale. Al momento, però, il Monrealese attende ancora una volta di essere riassaporato con lo sguardo da “vicino”, seppur effimero, per poi, com’è giusto che sia, tornare a essere “lontano” e solo di tanto in tanto malinconico…mai troppo in fondo, ma solo quanto basta affinché sia ancora una volta “poesia”.

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Bibliografia

  • Guido Di Stefano, “Pietro Novelli, il Monrealese”, a cura di Angela Mazzè e prefazione di Giulio Carlo Argan, 1989, Palermo, Flaccovio Editore.
  • Vincenzo Scuderi, “Novelli”, in Kalòs, maestri siciliani, 1990, Palermo.
  • A.V.V., “Pietro Novelli e il suo ambiente”, catalogo della mostra con prefazione di Maurizio Calvesi (Palermo, Albergo dei poveri, 10 giugno – 30 ottobre 1990), Palermo, Flaccovio Editore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

San Girolamo nello studio: tre interpretazioni

di Emanuela Capodiferro

Ci sono opere che segnano il nostro immaginario fin da bambini o da adolescenti. Quelle di cui parlerò e che porterò alla tua attenzione, l’ultima in particolare, caro lettore di Sul Parnaso, mi ha affascinato da sempre. Forse perché è estremamente narrativa pur nella sua apparente staticità, forse perché il tema che fa da sfondo è la “biblioteca”, luogo simbolo che ha avuto sempre una grande pregnanza per quanto mi riguarda, in quanto paradiso dei saggi come il mio amato Umberto Eco avrebbe confermato.

Certamente le motivazioni sono molteplici e vi è anche un’altra motivazione sottesa a questo breve post, oltre al piacere di intrattenerci con figurazioni affascinanti c’è anche la volontà di richiamare, anche se solo sommariamente, quella rete di contatti e di scambi culturali tra il Nord Europa, ed in particolare l’area fiamminga e l’Italia del Sud, durante i decenni centrali del XV secolo. In realtà si trattò di scambi di natura assai ampia, anche dal punto di vista commerciale e politico, scambi che possono sembrare improbabili per l’epoca e che pure sono il segno evidente di un fenomeno di globalizzazione in età tardo medievale, che a mio modesto parere sono una delle chiavi per comprendere la nascita del mondo moderno.

Il soggetto che andiamo ad osservare è quello di San Gerolamo nello studio; l’iconografia del Santo comprende anche immagini di asceti nel deserto –celebre è lo studio di San Gerolamo di Leonardo o la rappresentazione di Cima da Conegliano- o quella di anziani in meditazione o nell’atto di scrivere – e in questo caso molto intense risultano le visioni di Caravaggio. Tuttavia qui ci soffermiamo sulla figurazione del Santo intento nell’impegnativo compito di tradurre la Bibbia greca in latino, nella realizzazione della ben nota Vulgata. Si tratta di un protagonista eminente della storia della Chiesa, uno dei primi quattro Dottori, proclamati tali nel 1298.

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Jan van Eyck e studio, San Girolamo nello studio, 1442, olio su carta applicato su tavola, 20×13, Detroit

La prima opera che osserviamo è quella conservata all’Istituto per le Arti di Detroit, si tratta di una piccola tavoletta dipinta iniziata dal grande maestro fiammingo Jan Van Eyck e terminata presumibilmente da suo fratello nel 1442. Il Santo, immerso nella lettura, veste l’abito cardinalizio e siede su uno scranno dall’alto schienale intagliato. Ai piedi del tavolo è presente il leone, a ricordo di quanto tramandato nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, per cui la belva ferita sarebbe entrata nel monastero e, dopo aver terrorizzato tutti i monaci, avrebbe trovato protezione e cure in San Girolamo e in segno di riconoscenza gli sarebbe rimasto accanto come leale custode.

Il tavolo è ricoperto da un panno verde gradevolmente contrastante con l’abito cardinalizio, su di esso è riposto il leggio, una clessidra e gli strumenti per la scrittura. Sul fondo una serie di scaffali, incorniciati da un prezioso tendaggio blu, raccolgono numerosi codici manoscritti e ancora oggetti tipici per uno studioso come l’astrolabio. Come in ogni dipinto di Jan Van Eyck la luce, anzi il lustro, da sostanza reale alla materia: i metalli scintillano, il vetro traspare, il legno ha la sua propria compattezza e i tessuti evocano sensazioni tattili di morbidezza o setosità. Quello del maestro fiammingo è il realismo analitico che caratterizza l’arte fiamminga e trova proprio in Italia meridionale terreno fertile per innestarsi nella tradizione italiana.

Ponte di questo processo è sicuramente il maestro napoletano Colantonio che ebbe modo di vedere, alla corte napoletana, opere fiamminghe, inoltre, secondo quanto registrato dal Summonte sui fatti artistici napoletani (in una lettera tuttavia di molto posteriore), ebbe modo di conoscere le nuove tecniche di Jan van Eyck dall’ultimo re angioino Renato d’Angiò che aveva avuto modo di conoscerle direttamente e aveva stimolato la crescita di una scuola d’arti praticando lui stesso in modo non professionale la pittura. Ma la matrice di Colantonio è soprattutto quella provenzale ed in particolare quella di Robert Campin, noto anche come maestro di Flemalle, che all’analisi già sperimentata da van Eyck coniuga la ricerca di plasticità degli oggetti nello spazio.

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Colantonio, San Girolamo nello studio, 1444 ca., tavola 125×50, Napoli, Capodimonte

Una caratteristica ben presente nel San Girolamo nello studio di Colantonio (1444 ca.) insieme a molti elementi presenti nella tavoletta eyckiana. Qui il Santo è intento a togliere una spina dalla zampa del leone, mentre gli arredi circondano completamente le figure e raccolgono molteplici brani di natura morta “bibliofila” e scientifica.

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Colantonio, San Girolamo nello studio, particolare

Infatti vi sono alcune decine di codici rilegati e numerosi strumenti per la scrittura. La tavola fa parte di una più ampia ancona presente in origine nella chiesa di San Lorenzo Maggiore di Napoli e a cui forse collaborò il più famoso allievo di Colantonio: Antonello da Messina.

Ed eccoci ad uno dei più grandi capolavori del Maestro Siciliano: il San Girolamo nello studio della National Gallery (1474).

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Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1474, olio su tavola, 46×36,5, Londra, National Gallery

 

Si tratta di un’opera matura ed estremamente curata, l’espediente di creare una cornice architettonica nel quadro è scelta che potenzia il realismo della scena, come accade per esempio nella Trinità di Masaccio o nella Flagellazione di Piero.  Lo studio in penombra si anima di luci soffuse provenienti da più fonti, il cielo si affaccia dalle bifore in alto ma molto più interessanti sono le finestre in basso dichiaratamente fiamminghe, con i loro scorci di paesaggio attentamente realizzati. L’aspetto più sorprendente è certamente rappresentato dall’eccellente prospettiva che dilata quello che è in realtà l’esiguo spazio della tavola. L’ampiezza creata da Antonello con le fughe prospettiche laterali introduce un’atmosfera di attesa e di mistero, quale possiamo trovare in opere di Dalì o di Magritte, la silhouette del leone è molto meno rassicurante dalla belva quasi di peluche della tavoletta di Detroit o dal maestoso ma mansueto leone di Colantonio. Ma altri animali popolano la scena; sull’uscio una pernice simbolo di lussuria e stupidità, accostata a Satana che tenta i figli di Dio con lusinghe per dannarli in analogia con il comportamento dell’animale che ruba e cova uova non sue e che alla fine perderà.

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Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, particolare

Accostato sulla destra, ma in direzione opposta, vi è un pavone, simbolo di rinascita spirituale e per cui della Risurrezione.  Per finire, dipinto quasi con il fumo come lo Stregatto di Alice nel paese delle Meraviglie vi è un gatto accovacciato sul primo gradino ligneo del complesso studio del Santo. La stola abbandonata è sicuramente richiamo alla religione ebraica per cui il piccolo felino richiama quella musulmana, ad entrambe è negato di arrivare a Dio che attraverso la Croce posta in alto all’incrocio degli scaffali illumina Girolamo privo di aureola ma composto e ispirato come un insigne letterato. Passeggiando ancora per questa complessa struttura architettonica possiamo osservare altri simboli ma il mio intento è di richiamare l’attenzione sulla presenza fiamminga nella cultura artistica italiana del Rinascimento attraverso un’opera così intensamente nordica da essere attribuita in origine a Memling o Van Eyck. Un’opera che presume contatti diretti tra Antonello e (altri) artisti fiamminghi, Federico Zeri sottolinea in particolare il contatto con Petrus Christus.

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Petrus Christus, Annuciazione, 1452, Berlino

Tuttavia se Antonello in questo capolavoro apre mirabilmente una parete, anche a me modestamente oggi sembra di aprire una porta: al Professor Filippo Musumeci che nei prossimi appuntamenti ci parlerà ancora, e con più sicura dottrina, del grande Antonello QUI [e che oggi apprenderà qualche notizia in più sulla sua capacità di leggere nel pensiero della sua fedele amica e collega] e della sua importanza nel panorama artistico europeo.

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GUCCIONE – IUDICE, TRA DESIDERIUM ET DILIGENTIA GIOVANNI IUDICE. “DENTRO IL MARE” (PARTE SECONDA)

GUCCIONE – IUDICE, TRA DESIDERIUM ET DILIGENTIA

 GIOVANNI IUDICE. “DENTRO IL MARE”

(PARTE SECONDA)

di Filippo Musumeci

Antico, sono ubriacato dalla voce

ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono

come verdi campane e si ributtano

indietro e si disciolgono.

La casa delle mie estati lontane,

t’era accanto, lo sai,

là nel paese dove il sole cuoce

e annuvolano l’aria le zanzare.

Come allora oggi la tua presenza impietro,

mare, ma non più degno

mi credo del solenne ammonimento

del tuo respiro. Tu m’hai detto primo

che il piccino fermento

del mio cuore non era che un momento

del tuo; che mi era in fondo

la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso

e svuotarsi così d’ogni lordura

come tu fai che sbatti sulle sponde

tra sugheri alghe asterie

le inutili macerie del tuo abisso.

(Eugenio Montale – Mediterraneo, in Ossi di seppia, 1924)

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Nella prima parte di questo viaggio nelle marine dei due maestri siciliani, si è evidenziato quanto anche Iudice, al pari di Guccione, sia pioniere di una nuova visibilità; l’uomo che mi fregia di esserne sinceramente amico, l’artista che non fa “gruppo” perché la solitudine gli è necessaria come urgenza di verità, il maestro divenuto presto adulto e “dentro il mare”. Distanza e vicinanza, esterno e interno, impalpabile e tattile si equivalgono e completano come cielo e mare, giustapposti appena da quella sottile linea orizzontale che non ne segna affatto la fine, bensì solo il punto di partenza.

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Nulla di più cerebralmente lontano dalle marine Guccione quelle del più giovane maestro Iudice, perché alle prime queste sono opposte, giammai contrarie: la chiara traduzione e restituzione più autentica di un mare non solo respirato e indagato, come quello di Guccione, bensì ‘vissuto’, spiato, assaporato avidamente come necessità suprema dell’io, con impetuosa e vorace brama.

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Inebriarsi del venerabile suono aperto delle onde rotte sulla battigia, in quel lembo di costa ove finisce il borgo natio e ove nasce quell’infinito azzurro, inviolabile sepolcro di umili vite di cui essere un vibrante frammento, un versatile riflesso, come carne tremula perché mossa da un pulsante nucleo.

1 (11)In una delle nostre piacevoli conversazioni, il pittore confessava: «Il mio lavoro non parla di marine, ma dell’uomo in tutti quegli aspetti che interferiscono». Non sono riduttivamente vedute marine, s’intenda, bensì tranche de vie, scene di genere in calda stagione, abitate, animate, modellate da plastici corpi vestiti di sole, la cui concreta e vociante presenza riscrive la spazialità ove sono ubicati in coordinate metriche credibili: evasione dall’infinito (più felice, seppur alieno), per il finito (più crudo, seppur più schietto).

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Iudice non fugge il contemporaneo; vi s’immerge pienamente per viverlo e dar soffio alla forma, che del suo contenuto possiede pari dignità; non rifugge l’effimero in quanto contingente, bensì ne fissa i contorni e, per sempre, ne definisce i limiti. Quella presenza, negata e privata dal maestro di Scicli, diviene la cifra figurativa dell’indagine lenticolare del maestro gelese. Perché Gela, a guardarla bene, non è Sampieri, né, tanto meno, Donnalucata: troppo diversi per conformazione urbanistica, troppo lontani per retaggio sociale. Non è la medesima striscia insulare in cui sono adagiati, giù, sull’estremo dorso sud-est dirimpetto al continente nero, a uniformare i tre nuclei urbani in una fonte sola: Sampieri e Donnalucata dormono ancora romantici, in una sospensione spazio-temporale, il loro idillio bucolico teso tra cielo e terra, nonostante il tentativo destabilizzante della mano dell’uomo, là, oltre quei muri a secco, discreti testimoni di un racconto ancestrale.

Gela, piuttosto, è stretta dalla morsa febbrile della sua attività produttiva, ove, tra navi cargo e ciminiere fumanti, le tracce di quella gloriosa eredità ellenica stentano a imporsi, nonostante tutto, sulla collettività. Ed è qui, allora, che quell’affaccio sul Mediterraneo, su quell’immensa mobile distesa azzurra che ivi trova sponda, non è che il rovescio della medaglia, ciò che fu e che è, quella più autentica perché al mare ritorna come da questi nacque. Non una fuga, si è detto, bensì una pausa, breve, perché transitoria: un lasciarsi alle spalle l’ordinario divenire senza illusione alcuna, consapevoli, al più, di un riposo sabatico, per virtù concesse o dovute, purché sia!

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Se Guccione sta a Friedrich, come a Cézanne, Monet, Munch, Hopper e Bacon, Iudice, piuttosto, sta a Velazquez, Goya, Courbet, come a Loperz Garcìa, Gianfranco Ferroni e Guttuso – vi ho sempre visto un richiamo indiretto, quasi inconscio, anche a Gericault, Monet, Seurat e Schiele – con una non trascurabile predilezione per il cinema neorealista felliniano e pasoliniano. La cornice, non è un caso, scompare e perde cesura, il formato si espande oltre i limiti stessi consentiti, invade lo spazio sensibile ed è qui! Si è nel quadro e questi s’innesta nello sguardo: non più sterile osservatore, non più esterno all’azione.

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Iperrealismo, si direbbe, ma solo per comodità terminologica, quando questi in Iudice è, per sua stessa ammissione, sintesi del veduto, essenza del vissuto, ricomposizione dell’accaduto. Gli occhi registrano il dato oggettivo, la mente lo ridefinisce nella posa e nei gesti più consoni a crederlo ‘vero’, dunque, “vivo”. Iperrealismo, si direbbe, ma di superficie, quando, in sostanza, c’è di più! C’è l’anima, anche qui!

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Dalla terrazza di Iudice non si vede il mare e i muri a secco sono un pallido ricordo; non lo si ode neppure il mare, a dire il vero! I figli del “kaos” l’hanno soffocato per trenta denari, sabotando abilmente i decibel in nome di un’omologata era digitale. Lo si avverte, però, il mare! Lì, in prospettica distanza, e in dinamica danza lo si comprende per quel che è, come atto di fede, per il sale che porta in grembo; e al suo cospetto si è ogni qualvolta esseri rigenerati, nuovi.

1 (26)Come dichiara Elena Pontiggia: «Iudice racconta una realtà dimessa e, tutto sommato, dolorosa. Una realtà senza maschere e senza illusioni» (“Giovanni Iudice. Il senso del disegno”).

Il suo resta un decantato impegno sociale attraverso i mezzi figurativi che gli sono più consoni: osservare per comprendere, trasporre per registrare, fissare per ricordare. Operazioni, queste, che necessitano di una profonda introspezione psicologica, senza la quale l’opera risulterebbe sterile, svuotata della sua insita fertilità e contagiosa freschezza. Imitazione è un termine “freddo” e la freddezza è un carattere sensoriale del tutto assente in Iudice, per il quale, al più, si dovrebbe parlare di reinterpretazione storica del transitorio, poiché reinterpretare presuppone l’afflato soggettivo, dunque, il “caldo”, ovvero il calore dell’azione. In Guccione la veduta si è plasmata in visione e da questo in ricordo del “già vissuto”; in Iudice, invece, la visione possiede i connotati della veduta che si sta compiendo sotto lo sguardo dell’osservatore: i contorni definiti, i volumi plastici rilevati, il dettaglio analitico e le trasparenza leggibili, devono ancora essere assorbiti dalla memoria e divenire ricordo, come un presente ancora troppo vivo per esser già passato.

Intervistato da Andrea Guastella, il pittore rispose: «Non è solo un istinto, quello del mistero. È un carico che mi sobbarco spesso con grande sofferenza. La mia aspirazione è racchiudere in ogni immagine la massima densità possibile di senso, e questa aspirazione può essere soddisfatta solo da una visione anonima, non caratterizzata. Osservando tutto, ma proprio tutto quello che mi circonda, giungo a trovare la vita in cose che la gente, comunemente, non osserva. Diciamo allora che quello che tu chiami coraggio dell’indifferenza è soprattutto un modo di fissare le cose, di lasciarsi soggiogare da esse. Una tipologia di sguardo che oggi sembra, per lo più, dimenticata».

Mi sovvengono alcuni versi di Maurizio Sciaccalunga, per il quale «nelle immagini del pittore ci sono quell’orgoglio e quella riservatezza, del tutto siciliani, tipici di un mondo dove l’essere non è stato ancora sopraffatto dall’apparire: come a dire, mi mostro ma non mi arrendo, sopporto ma non accetto» (“Il mondo in un angolo”).

È, a mio modesto dire, una sintesi chiara e priva di ampollose deviazioni per descrivere il pensiero del pittore, poiché la sua ricerca esistenziale prosegue nell’amara consapevolezza che “Nemo profeta in patria”, perché l’uomo assetato di verità, che non teme di apparire banale nella disarmante restituzione della visione, resta, il più delle volte, scomodo da gestire, e schivarne la presenza risulta essere la mossa illusoria più vincente, seppur più codarda. Iudice non ha bisogno affatto di Gela, semmai il contrario, per rinascere dalle sue ceneri e riappropriarsi di cui è stata brutalmente derubata: la “bellezza”. La “bellezza”, oggi più che mai, è un’ambizione quasi utopica, ma verso la quale l’artista deve tendere come fine supremo della propria esistenza. È qui, allora, che l’ambizione massima del pittore è: «racchiudere in ogni immagine la massima densità possibile di senso. E questa aspirazione può essere soddisfatta solo da una visione anonima, non caratterizzata».

Rimembro lietamente quel martedì mattina di agosto, quando le vacanze estive divennero lo scenario ideale per incontrare il maestro nel suo atelier di provincia. Contro il vento di scirocco, si compì la marcia sull’asfalto rovente e martoriato della statale 417, masticandone voracemente i Km tra le rapide distese verso la piana di Catania e lasciandosi alle spalle la magia tardo-barocca di Caltagirone, supina come una perla incastonata tra le alture degli Erei e Iblei.

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Una sospirata attesa pienamente ripagata dall’umile animo e dallo sguardo sottile di questo “lupo solitario”, che declina vincoli e, lungi da scopi meramente propagandistici, opera sul campo per la formazione di giovani artisti talentuosi, finalmente stanchi di un sistema corrosivo quanto clientelistico, e senza sconto alcuno innalza la pittura come orgoglioso stendardo della propria dignità socio-intellettiva. Quella dignità che si offre per mezzo del disegno nella sua più limpida nudità.

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È ancora Elena Pontiggia ad aver compreso come: «Nel caso di Giovanni Iudice, effettivamente, il disegno sembra testimoniare una vocazione espressiva autentica e senza trucchi. Le sue opere si reggono soprattutto sui valori del disegno. Sembrano istantanee scattate con la matita». E le matite di Iudice compiono l’inganno dell’occhio, il miracolo della tecnica, l’illusione della verità, ove non occorrono più neppure le larghe campiture piatte e i passaggi tonali per definire i contrasti chiaroscurali sulle masse strutturali, poiché gli acromatici bianco e nero, fusi in un perfetto accordo sinfonico, indicano la totalità della tavolozza.  Eccoli, dunque, su quei corpi olivastri adagiati sulla calda spiaggia affacciata sul Mediterraneo, gli incarnati rosei e lattiginosi stagliati sulla mobile distesa azzurra all’orizzonte; eccoli prender vita dai ritmi variegati delle loro membra assolate contro la leggera brezza del mattino; eccoli, sono vivi, come vive sono le pulsioni lungo le umide epidermidi baciate dalla salsedine. Iudice, all’occorrenza, licenzia ogni accorgimento ulteriore, poiché a lui basta il solo estro, e quando impiega i colori non è per una maggiore aderenza al reale, bensì per concessione data, ovvero per agevolare e mettere a proprio agio l’osservatore dinanzi al soggetto creato.

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Il miracolo si compie lì, entro una mansarda di periferia, trasformata in uno scrigno di creatività: ivi ho respirato l’odore dei solventi, scrutato le filamentose stesure a olio della tela sui tratti preparatori, già minuziosamente compiuti, e avvertito i fasci di luce che avrebbero, di lì a poco, definito la spazialità e i volumi plastici in essa contenuti.

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L’eco delle parole dell’artista accompagnavano quell’impetuosa esplorazione cardiaca in cui lo sguardo stesso si plasmava in materia per divenire parte integrante della visione, testimone oculare della gestazione, mediatore improvvisato tra reale e figurativo: «Credo in una pittura come impegno sociale. Dipingo per il pubblico, non per assecondarne i gusti. Che una mia opera piaccia o meno, importa poco. Ho però, in quanto artista, la responsabilità di mostrare a chi frequenta il mio lavoro il mondo per come lo vedo io».

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Ma come vede Iudice il suo mare? Come un aggetto in alto rilievo, un’invasione dello spazio concreto, reale, umano: un’osmosi tra realtà e finzione, tra visibile e immaginifico, tra “il dentro e fuori dal quadro”.

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In Guccione (come è stato ribadito nella prima parte di questo saggio) l’impianto prospettico è affidato sovente a uno sviluppo longitudinale, avente la funzione di dilatare massimamente la spazialità oltre la sottile orizzontalità dello sfondo, geometricamente scisso in due sezioni speculari, e solo di rado ci si apre alla veduta a volo d’uccello, ove il punto di vista, particolarmente alto, riduce la porzione inconsistente del cielo e accentua, per effetto, quella della distesa acquatica. In Iudice, invece, nonostante si faccia ricorso al tradizionale punto di fuga verso la linea d’orizzonte, la prospettiva a volo di uccello è sovente conditio sine qua non per innescare quel processo ottico-sensoriale legato all’osservazione diretta, eppure distaccata e in sordina allo stesso tempo, della superficie marina nella sua trasparente profondità, resa maggiormente immobile ed enfatizzata dal moto fisico instabile dei bagnanti, ivi immersi. Sarò banale (e chi se ne frega!!!), ma questo mare è imperituramente “estivo” e magnetico: più si osserva, più la tentazione di tuffarvisi e lasciarvisi trasportare.

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Rispetto a Guccione, dunque, le vedute marine del maestro gelese, nella loro apparente e insignificante ordinarietà, si caricano di una forza misteriosa tale da saturare l’animo di un inquietante presagio: la consapevole impotenza dinanzi l’immensità che ci precede e sovrasta, c’investe e trascina al pari di quei “vinti” verghiani «che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù». (Giovanni Verga, Prefazione a “I Malavoglia”, Milano, 19 gennaio 1881).

I versi del padre del Verismo risuonano ancor oggi nella loro più schietta attualità se associate al “Ciclo dei clandestini”, concepito dal pittore negli anni 2005-12 come disinteressato documento storico e dinanzi al quale, eludendo il facile costume della denuncia, è arduo restare inerti: «Ho scelto di dipingerli per intima necessità, perché mi sono sentito in dovere di farlo. Credo che la figura del clandestino sia una delle icone più rappresentative del contemporaneo. Il clandestino spera, immagina la terra promessa con la morte nel cuore per la patria che ha lasciato. Ma davanti ai suoi occhi, oltre l’oblò, c’è solo il vuoto. In un’accezione molto ampia, che travalica la denuncia sociale – la quale non è difatti il mio principale obiettivo – siamo tutti clandestini».

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“Umanità” (olio su tela cm 235 x 290 cm.), presentata nel 2011 al Padiglione Italia della 52^ Biennale di Venezia e definito dalla critica il «Quinto Stato», delucida in modo puntuale la valenza simbolica di cui è portatrice e il pensiero ideologico del suo autore dinanzi al «nuovo esodo» biblico verso la “Terra promessa”. Ma non è un azzardo leggere “Umanità” come il sequel della “Zattera della Medusa”, perché in fondo, come ricordava lo storico Jules Michelet nel 1847, «è la nostra società intera che s’imbarca su quella zattera». Il germe di Gericault riaffiora sui volti dei sopravvissuti, riemersi come fantasmi dalle tenebre di un fondale notturno, ove nessuna prospettiva spazio-temporale è strutturabile, poiché il respiro “sublimato” di memoria romantica è stato gelato da un grido strozzato di miserabile speme.

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E nonostante Iudice non sia «né romantico né troppo necrofilo. Il mio è realismo», e la sua resti ancora una pittura lontana dalla tormentata ossessione fatta di carne e morte del pittore francese, egli getta uno sguardo storico sul dramma esistenziale che scuote il micro come il macrocosmo, in cui «per me c’è anche stupore e meraviglia della natura come forza ed energia, per la quale mi ritrovo più vicino a Courbet».

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E come Courbet, Iudice lavora più per esser uomo che semplice pittore e con il primo condivide il motto di questi: «realista significa amico sincero della verità vera». Perché questa verità del “vissuto” risiede nella natura delle rosee carni nude entro le umili pareti che le racchiudono, quanto nella trasparente nudità di quelle acque azzurrognole che, translucide, s’infrangono sulla riva rendendo umido e fecondo ciò che priva era asciutto e sterile. Quella stessa trasparente verità che vidi dapprima schiudersi nella profondità di quelle iridi di cui divenni prigioniero e che cantai controvento con ardore al petto (QUI).

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«Il bello – aggiunge Courbetè nella natura e si incontra nella realtà sotto le forme più diverse. Quando lo si è trovato, appartiene all’artista o piuttosto all’artista che sa vederlo». Il “bello”, in definitiva, lo stesso definito da Stendhal «la promessa della felicità». Ma questa felicità non fu scorta da subito neppure da un fuoriclasse come Delacroix, il quale la detestò piuttosto quando recensì le “Bagnanti” al Salon parigino del 1853, vedendovi, erroneamente, «La volgarità delle forme non sarebbe niente; è la volgarità del pensiero che sono abominevoli». 

Eppure sarebbe bastato davvero poco all’animo romantico, “che seppe guidare il popolo verso la libertà”, per scorgerla, invece, questa felicità, e senza bisogno di andare, poi, così lontano, ma abbandonandosi sinceramente alla cruda oggettività della cosa veduta. In Iudice è ciò che avviene: il suo pensiero non si dà come volgare crudezza delle apparenze, bensì come ricerca di quel “bello” che nel pittore è possibile ritrovare solo nella fedele restituzione di un reale veduto e “vissuto” come propria urgenza di felicità.

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Vi è tanto di Courbet nella pittura del maestro gelese, specie se si riflette su alcuni versi del Manifesto del Realismo del 1855: «Ho studiato, al di fuori di ogni spirito di sistema e senza partito preso, l’arte degli antichi e l’arte dei moderni. Non ho voluto né imitare gli uni né copiare gli altri: il mio proposito non è stato neppure quello di arrivare allo scopo ozioso dell’arte per l’arte. No! Ho voluto semplicemente attingere all’intera conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della mia individualità. Sapere per potere, questo e il mio pensiero. Essere in grado di tradurre i costumi, le idee, l’aspetto della mia epoca, secondo lamia opinione e il mio giudizio, essere non solo un pittore ma anche un uomo, in una parola fare dell’arte vivente, questo è il mio scopo».

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Iudice mi confidava ancora pochi giorni fa, in tutta franchezza: «Le mie sono marine, ma riflettono l’inferno dantesco. La carne dei bagnanti e dei clandestini è putrida. Ho messo insieme le spiagge delle donne nude con l’arrivo dei migranti, come chiara contaminazione di culture: “Les demoiselles d’Avignon” di Picasso, un secolo dopo. Le mie spiagge sono rappresentazioni drammatiche: indicano una visione della carne sotto al sole cocente di Sicilia. Un inferno all’aperto, in cui vedo quello che vedrebbe Pasolini nei sassi di Matera: una solitudine e moltitudine di forze».

Una corporeità spasmodica e catartica insieme, ove quel sentimento disincantato, eppure temerario, si ritrova cristallino e memore di reverberi iconografici dati, ma in un’oggettività coerentemente figlia del suo tempo e legata al territorio genetico. Ergo, Repetita iuvant: l’urgenza di fissare il “vissuto” come realismo di profondità e non di superficie.

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Perché non è nella superficiale similitudine di pose e modelli che si scorge un possibile e sterile omaggio all’antico, bensì nella profonda assonanza concettuale che si fa canone che si coglie la rivisitazione stilistica dell’umano sentire, riaggiornata e resa contemporanea e prossima all’eternità.

Egon Schiele affermava che «l’arte non è moderna. L’arte è eterna!».

Con lo stesso animo Iudice s’impegna nell’infondere eterno respiro alle sue creazioni, le quali, una volta compiute, si svincolano dall’azione del suo autore, dall’idea, dal gesto, e acquistano vita propria e valore collettivo. Diventano di tutti, insomma! Diventano mie, tue, nostre. In esse possiamo specchiarci e guardarci dentro senza filtri, poiché potremmo mentire ai simili, quello sì, giammai a noi stessi. Una sera, di ritorno da un viaggio d’istruzione a Vienna, ove accompagnai le classi quinte per il secondo anno consecutivo, ebbi piacere di scrivere al maestro per fare il punto della situazione, e con tutta la franchezza che riuscii a raccogliere in quell’istante, aggiunsi: «A proposito di Schiele, i tuoi lavori, non so perché, mi ricordano il suo tratto! Sono lame affilate al pari della linea disegnativa del maestro austriaco e paralizzano lo sguardo». E la risposta concisa e inconfutabile fu: «Hai ragione! Sono molto legato ai nordici».

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Prima di allora, non aveva avuto modo di confessarmi il suo trasporto per la pittura espressionista nord-europea, ma lo si poteva cogliere, in effetti, ponendosi dirimpetto a quella linea sinuosa che racchiude e avvolte la materia tutta. Tra i suoi bagnanti e i profughi vi è una sorta di cordone ombelicale, una netta linea di continuità che li unisce in un inesorabile destino, di cui l’umanità è vittima e carnefice in egual misura, poiché: «anche i bagnanti sulle spiagge sono smarriti in un mondo sconosciuto, se non proprio ostile».

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In questo senso trovo Iudice vicino a Schiele: in quel dolore che si fa latente nel segno che solca i volumi e riflette il demone che li agita e tormenta; in quella condizione incontrovertibile che si accetta come unica alternativa possibile a cui appigliarsi nell’abisso; in quella rassegnata speranza che logora recondita come meditata e sofferta scelta, da cui ne varrà della dignità umana stessa.

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Quella speranza che in Guccione si annida in ciò che fu e che diviene decantato “desiderio” di una natura ritornata al grembo del suo primario splendore, in Iudice assume il volto di una “scelta” aristotelica, intesa come «intelletto che desidera o desiderio che ragiona, e tale principio è l’uomo». (“Etica Nicomachea”, IV sec. a.C.)

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E adesso, caro maestro?

«Adesso sto lavorando sulla corporeità tra l’acqua come elemento immutevole e la carne dei bagnanti. Una fisicità dell’osmosi, fusione è materia univoca. L’uomo ha solo il privilegio di tornare parte dell’acqua. Il dipinto “Il mare di Gela” rappresenta la risacca di un’onda bianca come purificazione e rivoluzione di qualcosa di nuovo, che nasce dalla sabbia turbolenta dell’acqua sporca; la spiaggia è il luogo sociale della libertà».

L’uomo…, sempre lui, in tutte le sue infinite sfaccettature!

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CONCLUSIONI

 Il caso o fato ha voluto incontrassi entrambi i maestri e da questi ereditassi oltre ogni più generosa aspettativa: una finestra aperta sul genio da loro concepito e maturato come spettatore privilegiato di questa piece visivo-sensoriale. Con Iudice, poi, alla decennale intensa ammirazione per la sua arte si è affiancata una disinteressata e viva amicizia per la quale gli sono riconoscente, oggi più di ieri.

La rosa delle affinità elettive potrebbe estendersi ampiamente e ben più in là dei termini fin qui ingenuamente tracciati. Ma non sono tanto i richiami diretti a questo o a quell’altro artista del passato a qualificare l’operato, già discusso e accreditato dalla critica, dei due maestri mediterranei, quanto, piuttosto, l’urgente e inoffensivo confronto tra due realtà figurative post-moderne che hanno saputo imporsi nell’affollata scena contemporanea semplicemente, e non è poco, attraverso la genuina estrinsecazione del proprio carico intimista: “dalla terra salpati e al mare approdati”.

“Padronanza della tecnica ed estro creativo nella trasposizione del pensiero”: un’espressione convenzionale che suole dire tutto e niente, benché se associata a questi due maestri della nostra contemporaneità, votati al naturale, assume tutt’altro sapore! Sapore di salsedine e risacca, sapore di epidermide e bonaccia, di cielo e acqua.

Nessuna delle due realtà discriminata in virtù dell’altra, nessuna delle due anteposta all’altra. Semmai, le metà di un’unica matrice: Arte come desiderium, come nostalgia ciceroniana in Guccione, poiché “At memoria minuitur, nisi eam exerceas” (“Ma la memoria diminuisce se non la tieni in esercizio” – “De senectute”, 44 a.C.), e Arte come diligentia, come impegno etico in Iudice, poiché Mora cogitationis diligentia est.” (È triste essere obbligato a tacere quando desideri parlare!” – Publilio Siro, I secolo a.C.).

Tuttavia, i due maestri giungono all’essenza di quella medesima unica matrice, poiché per Guccione la vita (così come l’Arte): «è un continuo mistero e più si va avanti più il mistero si allarga. Così la realtà, che crediamo di frequentare ogni giorno con disinvolta certezza»; e per Iudice l’Arte (così come la vita) «è vicenda dell’uomo e, in quanto tale, inesplicabile».

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