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San Girolamo nello studio: tre interpretazioni

di Emanuela Capodiferro

Ci sono opere che segnano il nostro immaginario fin da bambini o da adolescenti. Quelle di cui parlerò e che porterò alla tua attenzione, l’ultima in particolare, caro lettore di Sul Parnaso, mi ha affascinato da sempre. Forse perché è estremamente narrativa pur nella sua apparente staticità, forse perché il tema che fa da sfondo è la “biblioteca”, luogo simbolo che ha avuto sempre una grande pregnanza per quanto mi riguarda, in quanto paradiso dei saggi come il mio amato Umberto Eco avrebbe confermato.

Certamente le motivazioni sono molteplici e vi è anche un’altra motivazione sottesa a questo breve post, oltre al piacere di intrattenerci con figurazioni affascinanti c’è anche la volontà di richiamare, anche se solo sommariamente, quella rete di contatti e di scambi culturali tra il Nord Europa, ed in particolare l’area fiamminga e l’Italia del Sud, durante i decenni centrali del XV secolo. In realtà si trattò di scambi di natura assai ampia, anche dal punto di vista commerciale e politico, scambi che possono sembrare improbabili per l’epoca e che pure sono il segno evidente di un fenomeno di globalizzazione in età tardo medievale, che a mio modesto parere sono una delle chiavi per comprendere la nascita del mondo moderno.

Il soggetto che andiamo ad osservare è quello di San Gerolamo nello studio; l’iconografia del Santo comprende anche immagini di asceti nel deserto –celebre è lo studio di San Gerolamo di Leonardo o la rappresentazione di Cima da Conegliano- o quella di anziani in meditazione o nell’atto di scrivere – e in questo caso molto intense risultano le visioni di Caravaggio. Tuttavia qui ci soffermiamo sulla figurazione del Santo intento nell’impegnativo compito di tradurre la Bibbia greca in latino, nella realizzazione della ben nota Vulgata. Si tratta di un protagonista eminente della storia della Chiesa, uno dei primi quattro Dottori, proclamati tali nel 1298.

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Jan van Eyck e studio, San Girolamo nello studio, 1442, olio su carta applicato su tavola, 20×13, Detroit

La prima opera che osserviamo è quella conservata all’Istituto per le Arti di Detroit, si tratta di una piccola tavoletta dipinta iniziata dal grande maestro fiammingo Jan Van Eyck e terminata presumibilmente da suo fratello nel 1442. Il Santo, immerso nella lettura, veste l’abito cardinalizio e siede su uno scranno dall’alto schienale intagliato. Ai piedi del tavolo è presente il leone, a ricordo di quanto tramandato nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, per cui la belva ferita sarebbe entrata nel monastero e, dopo aver terrorizzato tutti i monaci, avrebbe trovato protezione e cure in San Girolamo e in segno di riconoscenza gli sarebbe rimasto accanto come leale custode.

Il tavolo è ricoperto da un panno verde gradevolmente contrastante con l’abito cardinalizio, su di esso è riposto il leggio, una clessidra e gli strumenti per la scrittura. Sul fondo una serie di scaffali, incorniciati da un prezioso tendaggio blu, raccolgono numerosi codici manoscritti e ancora oggetti tipici per uno studioso come l’astrolabio. Come in ogni dipinto di Jan Van Eyck la luce, anzi il lustro, da sostanza reale alla materia: i metalli scintillano, il vetro traspare, il legno ha la sua propria compattezza e i tessuti evocano sensazioni tattili di morbidezza o setosità. Quello del maestro fiammingo è il realismo analitico che caratterizza l’arte fiamminga e trova proprio in Italia meridionale terreno fertile per innestarsi nella tradizione italiana.

Ponte di questo processo è sicuramente il maestro napoletano Colantonio che ebbe modo di vedere, alla corte napoletana, opere fiamminghe, inoltre, secondo quanto registrato dal Summonte sui fatti artistici napoletani (in una lettera tuttavia di molto posteriore), ebbe modo di conoscere le nuove tecniche di Jan van Eyck dall’ultimo re angioino Renato d’Angiò che aveva avuto modo di conoscerle direttamente e aveva stimolato la crescita di una scuola d’arti praticando lui stesso in modo non professionale la pittura. Ma la matrice di Colantonio è soprattutto quella provenzale ed in particolare quella di Robert Campin, noto anche come maestro di Flemalle, che all’analisi già sperimentata da van Eyck coniuga la ricerca di plasticità degli oggetti nello spazio.

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Colantonio, San Girolamo nello studio, 1444 ca., tavola 125×50, Napoli, Capodimonte

Una caratteristica ben presente nel San Girolamo nello studio di Colantonio (1444 ca.) insieme a molti elementi presenti nella tavoletta eyckiana. Qui il Santo è intento a togliere una spina dalla zampa del leone, mentre gli arredi circondano completamente le figure e raccolgono molteplici brani di natura morta “bibliofila” e scientifica.

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Colantonio, San Girolamo nello studio, particolare

Infatti vi sono alcune decine di codici rilegati e numerosi strumenti per la scrittura. La tavola fa parte di una più ampia ancona presente in origine nella chiesa di San Lorenzo Maggiore di Napoli e a cui forse collaborò il più famoso allievo di Colantonio: Antonello da Messina.

Ed eccoci ad uno dei più grandi capolavori del Maestro Siciliano: il San Girolamo nello studio della National Gallery (1474).

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Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1474, olio su tavola, 46×36,5, Londra, National Gallery

 

Si tratta di un’opera matura ed estremamente curata, l’espediente di creare una cornice architettonica nel quadro è scelta che potenzia il realismo della scena, come accade per esempio nella Trinità di Masaccio o nella Flagellazione di Piero.  Lo studio in penombra si anima di luci soffuse provenienti da più fonti, il cielo si affaccia dalle bifore in alto ma molto più interessanti sono le finestre in basso dichiaratamente fiamminghe, con i loro scorci di paesaggio attentamente realizzati. L’aspetto più sorprendente è certamente rappresentato dall’eccellente prospettiva che dilata quello che è in realtà l’esiguo spazio della tavola. L’ampiezza creata da Antonello con le fughe prospettiche laterali introduce un’atmosfera di attesa e di mistero, quale possiamo trovare in opere di Dalì o di Magritte, la silhouette del leone è molto meno rassicurante dalla belva quasi di peluche della tavoletta di Detroit o dal maestoso ma mansueto leone di Colantonio. Ma altri animali popolano la scena; sull’uscio una pernice simbolo di lussuria e stupidità, accostata a Satana che tenta i figli di Dio con lusinghe per dannarli in analogia con il comportamento dell’animale che ruba e cova uova non sue e che alla fine perderà.

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Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, particolare

Accostato sulla destra, ma in direzione opposta, vi è un pavone, simbolo di rinascita spirituale e per cui della Risurrezione.  Per finire, dipinto quasi con il fumo come lo Stregatto di Alice nel paese delle Meraviglie vi è un gatto accovacciato sul primo gradino ligneo del complesso studio del Santo. La stola abbandonata è sicuramente richiamo alla religione ebraica per cui il piccolo felino richiama quella musulmana, ad entrambe è negato di arrivare a Dio che attraverso la Croce posta in alto all’incrocio degli scaffali illumina Girolamo privo di aureola ma composto e ispirato come un insigne letterato. Passeggiando ancora per questa complessa struttura architettonica possiamo osservare altri simboli ma il mio intento è di richiamare l’attenzione sulla presenza fiamminga nella cultura artistica italiana del Rinascimento attraverso un’opera così intensamente nordica da essere attribuita in origine a Memling o Van Eyck. Un’opera che presume contatti diretti tra Antonello e (altri) artisti fiamminghi, Federico Zeri sottolinea in particolare il contatto con Petrus Christus.

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Petrus Christus, Annuciazione, 1452, Berlino

Tuttavia se Antonello in questo capolavoro apre mirabilmente una parete, anche a me modestamente oggi sembra di aprire una porta: al Professor Filippo Musumeci che nei prossimi appuntamenti ci parlerà ancora, e con più sicura dottrina, del grande Antonello QUI [e che oggi apprenderà qualche notizia in più sulla sua capacità di leggere nel pensiero della sua fedele amica e collega] e della sua importanza nel panorama artistico europeo.

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