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IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. SICILIA: UN PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITA’ A RISCHIO

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. SICILIA:

UN PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITA’ A RISCHIO

di Filippo Musumeci

UNESCO

Conoscete la barzelletta sui siciliani che vede come protagonisti Gesù e San Pietro?? Nooo??? Allora la racconto velocemente!!!
– Gesù: Pietro, recati sulla terra e cercami il nuovo Eden.
– Pietro: obbedisco, o mio Signore.
Pietro va e trova il nuovo Eden nella Sicilia. La più grande isola del Mediterraneo bagnata da tre mari e baciata dal sole; scrigno di tesori artistici di inestimabile bellezza, di folkore, fede popolare e meraviglie culinarie.
– Pietro: Mio Dio, non esiste al mondo un paradiso terrestre simile a questo. Devo subito comunicarlo al mio Signore.
Pietro torna in Paradiso e riferisce il tutto a Gesù.
– Gesù: Grazie Pietro! Hai fatto un ottimo lavoro! Puoi andare, adesso.
– Pietro: Perdonami,o mio Signore, solo una curiosità e poi ti lascerò ai tuoi gravosi impegni. Ma se informi l’umanità dell’esistenza di questo nuovo Eden, tutti cercaranno di andarvi a vivere e, ricercando l’elisir di eterna vita, nessuno più vorrà giungere a te.
– Gesù: ahhhhh,mio caro Pietro, puoi star tranquillo. Questo non accadrà! E sai perché?
– Pietro: No, Signore! Perché?
– Gesù: Bé, semplice: in Sicilia c’ho messo i siciliani!!!

Questo racconto ludico può darci l’idea dell’immagine che la mia terra offre di sé al globo intero: un triangolo geografico dall’ineguagliabile esplosione del “bello” per la varietà quantitativa e qualitativa dei suoi tesori culturali. Eppure vergognosamente “stuprata” dai suoi figli. Sì, ripeto, “stuprata”, e senza tanti giri forbiti di parole. Perché questa è la sua “vera” sorte, alla resa dei conti, fin dai tempi dell’età preunitaria.
È un cancro inespugnabile, una piaga dilatante, una peste endemica che ti logora lentamente fino a privarti di ogni flebile barlume di orgoglio, di ambizione, di speranza.
Perché questo mio attacco ferocemente indomabile non è frutto di prese di posizioni a prioristiche, bensì è covato, celato, maturato sidente negli anni fino al tragico epilogo mortificante e irreversibile.
Ma arriviamo al dunque. Il 14 novembre scorso alcuni giornali titolano (e il web non è da meno!) “Il record dei siti Unesco che la Sicilia può perdere. Il presidente del comitato per la promozione dei siti d’interesse storico – artistico annucia:«L’isola non gestisce il suo patrimonio e non investe»”. Pure questa, adesso?? Perdere i riconoscimenti Unesco faticosamente conquistati nell’ultimo ventennio??
Il presidente in questione è il maltese Raymond Bondin, presidente onorario del Comitato delle città e dei villaggi storici UNESCO, il quale ci va giù pesante (e fa pure bene, con tutta la mia sacrosanta solidarietà!).
«Non capisco in tutta sincerità come i politici siciliani non riescano a gestire il patrimonio dell’Isola in maniera corretta. Anzi, non lo gestiscono affatto. Da tempo. La Regione non riesce neanche a spendere i pochi finanziamenti che arrivano. A me sembra che la Sicilia stia facendo di tutto per perdere i riconoscimenti Unesco da noi concessi in questi anni».E non parliamo di briciole, ma di milioni di euro da investire sulla promozione del patrimonio culturale. Ma non è finita, ahimé!! Ancora Bondin dichiara: «Nel mondo intero, non esiste alcun posto con così tanti tesori come la Sicilia. Non esiste un altro luogo con una concentrazione così densa di meraviglie. Eppure, dopo tanti discorsi, continue nomine di assessori regionali, soprintendenti et similia, siamo all’anno zero. L’amara realtà è che la Sicilia non è capace di gestire l’immensa fortuna che ha».
Mi permetto di aggiungere, caro presidente Boldin, più che all’anno zero, in Sicilia si è ancora al Paleolitico Superiore, cioè all’età dei graffiti! E lo confesso con profondo sconforto da siciliano e da storico dell’arte, riconoscendo, pure, per carità, di non essere mica Brandi, Longhi, Argan o Settis per poter emettere sentenza a scapito dell’amata Trinacria.
Ma, diamine, basta davvero ben poco per prender coscienza dell’amara realtà insulare tra incuria, poca professionalità e “dolce far niente” – caratteristica, questa, insita nel DNA degli addetti ai lavori che di appassionata promozione delle bellezze nostrane ne ignorano persino l’odore.
Un esempio fra tutti? Provate a chiedere chi siamo artisti del calibro di Domenico e Antonello Gagini, Filippo Paladini, Pietro Novelli, Giovan Battista Vaccarini, Rosario Gagliardi, Giacomo Serpotta, Olivio Sozzi e Francesco Lojacono, Ernesto Basile. Questi, osannati in passato dalla critica, restano relegati e lasciati così, “come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, di memoria ungarettiana.
Tuttavia, codesta scellerata negligenza non è una vostra colpa. Assolutamente no! Questa sarebbe da additare, piuttosto, a coloro, benpensanti e perbenisti, che occupano con boriosa vanagloria e tutto il peso della propria perversa incoscienza i seggi vellutati color porpora dei palazzi blasonati del potere, tra le altre cose, ereditati gratuitamente dagli antichi avi, senza dubbio più saggi e onorevoli dei loro beneamati figli.
Quella che fu capitale del Regno arabo – normanno, paga il prezzo più alto sul territorio nazionale per i conti sempre in rosso del governo siciliano (chissà, poi, perché!) a causa dei quali si deve l’effetto del devastante e incolmabile tasso di disoccupazione, mai assopito, e il conseguente esodo, come in passato (repetita iuvant) , di coloro che dicono <<basta>> e ci danno un taglio…in ogni senso con la litania dell’amor di patria. Perché, se è vero che non di solo pane vivrà l’uomo, è altrettanto vero che di pane è costretto a vivere l’uomo!
Eppure, i parlamentari dell’ARS sono i più pagati d’Europa e se la spassano sul serio, caspita!! Ma non è minimamente una mera questione di colore politico, poiché l’ultima campagna elettorale promise il decantato cambio di rotta, l’agognato giro di boa, l’avvento di un nuovo glorioso capitolo. Ma a chi volevate darla a bere!!!

Sono le solite demagogiche da palazzo! Illusioni e utopiche oasi nel deserto, nonostante la Sicilia non sia affatto un’arida e avvelenata distesa di campi sterili ma un paradisiaco Eden in mano a gattopardiani sciacalli. L’altro giorno un gentile lettore mi scrisse proponendo di affidare la Sicilia ai Romagnoli per cambiare finalmente le cose.
Caro lettore, quanta amara verità nelle tue parole!! <<Errare humanum est, perseverare autem diabolicum>> (“Commettere errori è umano, ma perseverare è diabolico”). E dato che non sappiamo gestire la nostra inestimabile eredità non giova a nulla perseverare.
Sì, perché in tal caso – salvo i casi di coloro che, amando le arti visive hanno provveduto da sé ad una decorosa e qualificata formazione – un adiposo interrogativo occuperebbe le parete del vostri emisfero in modo imperituro. E non pensiate che Antonello da Messina, Pirandello, Verga, Capuana, De Roberto e Guttuso se la passino  tanto meglio. Tutt’altro!! Certo, godono di una fama stellare che vive, ormai, di luce propria, ma poca roba rispetto agli onori meritatissimi che la patria dovrebbe riservar loro.
L’unico esente da tale oblio pare essere, al momento, Vincenzo Bellini, quello della “Norma” e della “Sonnambula” (e molte altre) al quale il comune di Catania, città natale del celebre musicista, ha persino intitolato lo scalo aeroportuale etneo. Come se mancassero altri nomi illustri da proporre, magari più congeniali alle funzioni della struttura commerciale! A proposito, sfatiamo un mito! Il cockail “Bellini”, inventato nel 1948 da Giuseppe Cipriani, deve il nome, sì, a un Bellini, ma non certo a Vincenzo, bensì a Giovanni, detto il Giambellino: padre del tonalismo veneto tardo-quattrocentesco, celebre “anche” per il rosso vibrante impiegato nei suoi dipinti.
Tutt’altra fama godono, invece, i gadget di cui andare meno fieri e che dilagano dappertutto (aeroporto incluso), come il “Padrino” con tanto di smorfia facciale alla Marlon Brando, oppure “u’ mafiusu” con coppola e lupara a seguito (tanto per non farci mancare niente!). E se indispettito provi a chiedere ragione di simili offensivi obbrobri ti senti rispondere dal negoziante di turno: «Cosa vuole? È business! Se i turisti li richiedono vuol dire che piacciono e io devo pur campare».
Ritorno annualmente al borgo natio, promettendomi sistematicamente di non “oziare” e, armato di enfatica brama , di riammirare splendori unici dinanzi ai quali in passato restavo in estasi per ore. Ma ogni volta dimentico di dovermi scornare con l’arcigna realtà per la quale mi logoravo da residente negli anni della giovenizza e degli studi. Inutile pianificare una tabella di marcia, poiché irrompe repentino lo stornello lento e nostalgico del disincanto: quello tanto odioso e che credi, ormai, trapassato remoto, anziché, com’è, vivo e vegeto, quando non sinistro…com’è in cuor suo… “li mortacci sua!!”. Ora parlo pure romanesco!!
Visitare i “pochi” musei teoricamente (almeno sulla carta) aperti?? <<Ma vogliamo “babbiare”?>> (ricorda Montalbano). Non ci sono fondi e manca il personale “qualificato”. Quindi “l’apertura dei musei è posticipata a data da destinarsi”, recitano sovente gli avvisi affissi alle porte d’ingresso “serrate”.
Ma scusate, qual è la novità? Questa è la “norma” in Sicilia. E di “norme” i siciliani ne conoscono tante, mica solo quella del povero Bellini. Ciononostante, esiste sempre da queste parti un piano alternativo, altrettanto valido e dal valore saziante: quello culinario… che di questi tempi è diventata la chiave di volta per qualsiasi problema.
“Cari turisti, pappetevi un buon piatto di pasta alla “norma” (con tanto di ricotta salata spolverata sopra) e non pensateci più, insomma! Perché in fin dei conti, la Sicilia è bella “anche” per questo, non soltanto per l’Arte!… L’Arte, poi!!!”.
Ma mi facciate il piacere di tacere con tanto di buon senso (qualora ce ne sia ancora un residuo sparso chissà dove) per lo meno!
Tanto parliamo di aria fritta! E Tomasi di Lampedusa insegna che: <<se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi!>>. Infatti la Sicilia cambia di volta in volta allo stesso modo, rimanendo sempre la stessa. Straordinario fenomeno!!
Ho imparato ad amare questo spicchio di crosta insulare grazie a quel senso di appartenenza che ogni siciliano si porta dietro, specie quando con ricordo verghiano lo sguardo è “da lontano”. Ma anche grazie a coloro che, pur non essendo siciliani d’origine lo furono, comunque, di adozione, insegnando a tutti noi a guardare quest’Eden con occhi inediti. Penso a Goethe e al suo “Viaggio in Italia” del 1817, nel quale scrisse: «L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra…chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita».
E ancora Cesare Brandi, che nel suo saggio “Sicilia mia”, pubblicato nel 1989, sostiene che «non c’è bisogno di ricorrere a miti, a memorie storiche, a raptus religiosi: la realtà è così complessa e diretta che comprende tutto come un composto di cui si ignorino gli ingredienti, ma se ne subisce l’effetto. E l’effetto è uno solo; in segreto ti dici, ma può esserci al mondo un paese più bello della Sicilia?».

Ma l’ultimo affronto all’inestimabile patrimonio artistico dell’isola proviene direttamente dagli scranni di Palazzo dei Normanni e risale all’aprile scorso. Con una deroga speciale, il governo Crocetta di centro-sinistra ha autorizzato per i prossimi mesi l’inopportuno tour  peninsulare dell’Annunciata di Antonello da Messina (1476-77) per le città di Torino, Roma e Milano nell’ambito della mostra “Mater”. E tutto ciò per far cassa, come sempre! Ma qui parliamo di una manciata di migliaia di euro (circa 10.000), dimenticando (?), evidentemente, la fragilità del celebre olio su tavola, inserito nel giugno 2003, non a caso, in un elenco di 23 opere inamovibili dal territorio insulare al fine di tutelarne lo stato conservativo, comprendente anche il Satiro danzante di Mazara del Vallo (Trapani) e la Venere di Morgantina” di Aidone (Enna). Dunque, non uno scambio culturale tra istituzioni museali consistente in un prestito reciproco di opere: “Io do a te e tu dai a me!”. Ma solo business, ovvero “mercificazione dell’arte”. Ma in fondo, a chi potrà mai importare questa mia impotente nenia?

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Le critiche per l’insana decisione sono state avanzate tempestivamente dall’opposizione nella persona del deputato regionale Nello Musumeci (NON è mio parente! Quindi non sussiste conflitto d’interesse!), ex presidente della provincia etnea:

<<Anziché avviare il sistema dei parchi archeologici, previsto dalla legge Granata e sperimentato con successo ad Agrigento, e dei musei dotati di autonomia gestionale e finanziaria, il governo regionale ‘apre’ nuovamente e incredibilmente ai prestiti delle nostre principali opere d’arte e dei nostri più importanti reperti. È una scelta che giudichiamo priva di senso e rischiosissima per il nostro patrimonio artistico. Il turismo culturale e la nostra immagine – conclude – non si valorizzano facendo viaggiare quadri e reperti, sottoponendoli peraltro a rischi enormi per cifre irrisorie. Il turismo nell’Isola si stimola garantendo l’apertura regolare e prolungata di tutti i musei e i parchi e la valorizzazione con eventi e mostre da organizzare in Sicilia>>.

La risposta potrebbe essere: <<No, non esiste un luogo più bello della Sicilia!>>.

Ma i suoi figli, stanchi e disincantati, fanno la valigia (come il sottoscritto) e tentano altrove altre strada, con quello “sguardo da lontano” di sapore melanconicamente verghiano.

– E quelli che restano?

– Beh, quelli che restano o sono disincantati al pari di quelli già emigrati!

– E chi ne deturpa allora l’immagine di quest’isola baciata dal sole e cullata dal mare?

– Viene deturpata da chi si crede figlio legittimo dell’isola, senza sapere, ahimé, di esserne sono una cancrena…Sì, una cancrena! Di quelle che, Pirandello insegna, sono dure da estirpare e che: <<Non si leva cchiù, manco cu ‘u cuteddu>> (“Non va via neppure con il coltello”).

– E l’effetto, dunque, quale sarà?

– L’effetto sarà inevitabilmente il rovescio della medaglia! E per cui si dirà:

Fortunato al chè siculo generato, 

seppur amaro in oculo il contrito abbaglio.

In abisso il bello amato in denso pantano,

di cotanto ozio imputato son fiacco e indignato.

(Filippo Musumeci)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

“IL GIOIELLO DELLA CORONA SACRA”: LA BADIA DI S. AGATA DI GIOVAN BATTISTA VACCARINI

“IL GIOIELLO DELLA CORONA SACRA”

LA BADIA DI S. AGATA A CATANIA: PRODIGIOSA COMPENETRAZIONE TRA STRUTTURA E DECORAZIONE, RETTA E CURVA, MECCANICA E POESIA, MATURATA DAL GENIO CREATIVO DI GIOVAN BATTISTA VACCARINI.

di Filippo Musumeci

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«L’architettura tardobarocca più viva e smagliante d’Italia si trova in Sicilia» (Christian Norberg-Schulz)

Era il giugno 2002 quando l’UNESCO iscrisse nella prestigiosa “World Heritage List”, dichiarandole Patrimonio dell’Umanità, otto città siciliane tardobarocche post-terremoto 1693 site nel distretto insulare sud-est, meglio conosciuto come il Val di Noto: Noto, Palazzolo Acreide, Ragusa Ibla, Modica, Scicli, Caltagirone, Militello in Val di Catania e Catania; e nel 2005 si aggiungerà all’elenco anche Siracusa, per un totale di nove comuni.

UNESCO

L’UNESCO motivò la scelta riconoscendo che «Le otto città del sud-est della Sicilia: Caltagirone, Militello in Val di Catania, Catania, Modica, Noto, Palazzolo, Ragusa e Scicli furono ricostruite dopo il 1693, nello stesso luogo o vicino alle città esistenti al tempo del terremoto di quell’anno. Esse rappresentano una considerabile impresa collettiva, portata con successo ad un alto livello di architettura e compimento artistico. Custodite all’interno del tardo Barocco, esse descrivono pure particolari innovazioni nella progettazione urbanistica e nella costruzione di città»

Furono quattro su dieci i criteri adottati dall’UNESCO per l’iscrizione del Val di Noto nel Patrimonio dell’Umanità:

(Criterio I) «Questo gruppo di città del sud-est della Sicilia fornisce una notevole testimonianza del genio esuberante dell’arte e dell’architettura del tardo Barocco».

(Criterio II) «Le città del Val di Noto rappresentano l’apice e la fioritura finale dell’arte Barocca in Europa».

(Criterio IV) «L’eccezionale qualità dell’arte e dell’architettura del tardo Barocco del Val di Noto la posizionano in una omogeneità geografica e cronologica, così come la sua ricchezza è il risultato del terremoto, in questa zona, del 1693».

(Criterio V) «Le otto città del sud-est della Sicilia che hanno presentato questa richiesta sono l’esempio di sistemazione urbanistica in questa zona permanentemente a rischio di terremoti ed eruzioni da parte dell’Etna».

Non a caso, affinché un sito possa essere riconosciuto di “valore universale eccezionale” occorre che esso corrisponda almeno a uno dei dieci criteri approvati e richiesti direttamente dal Comitato Scientifico Internazionale:

  1. Rappresentare un capolavoro del genio creativo dell’uomo;
  2. Mostrare un importante interscambio di valori umani, in un lungo arco temporale o all’interno di un’area culturale del mondo, sugli sviluppi nell’architettura, nella tecnologia, nelle arti monumentali, nella pianificazione urbana e nel disegno del paesaggio;
  3. Essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa;
  4. Costituire un esempio straordinario di una tipologia edilizia, di un insieme architettonico o tecnologico, o di un paesaggio, che illustri uno o più importanti fasi nella storia umana;
  5. Essere un esempio eccezionale di un insediamento umano tradizionale, dell’utilizzo di risorse territoriali o marine, rappresentativo di una cultura (o più culture), o dell’interazione dell’uomo con l’ambiente, soprattutto quando lo stesso è divenuto vulnerabile per effetto di trasformazioni irreversibili;
  6. Essere direttamente o materialmente associati con avvenimenti o tradizioni viventi, idee o credenze, opere artistiche o letterarie, dotate di un significato universale eccezionale. (Il Comitato reputa che questo criterio dovrebbe essere utilizzato in associazione con altri criteri).
  7. Presentare fenomeni naturali eccezionali o aree di eccezionale bellezza naturale o importanza estetica;
  8. Costituire una testimonianza straordinaria dei principali periodi dell’evoluzione della terra, comprese testimonianze di vita, di processi geologici in atto nello sviluppo delle caratteristiche fisiche della superficie terrestre o di caratteristiche geomorfiche o fisiografiche significative;
  9. Costituire esempi rappresentativi di importanti processi ecologici e biologici in atto nell’evoluzione e nello sviluppo di ecosistemi e di ambienti vegetali e animali terrestri, di acqua dolce, costieri e marini;
  10. Presentare gli habitat naturali più importanti e più significativi, adatti per la conservazione in-situ della diversità biologica, compresi quelli in cui sopravvivono specie minacciate di eccezionale valore universale dal punto di vista della scienza o della conservazione.

Ciò significa che l’interscambio di valori culturali che si concretizzò in quello straordinario sforzo corale di rinascita urbanistica fu pianificato con unità di tempi e modelli, presentandosi nel panorama europeo come il più singolare esempio di cantiere collettivo di ingegni: architetti, maestranze e committenze uniti in un’irripetibile azione di omogeneità di riedificazione e rinnovamento strutturale delle aree interessate, quale specchio della magnificenza teatrale barocca.

Tra i monumenti degni di onore – a me particolarmente cari perché legati alla memoria di aneddoti “formativi” vissuti personalmente quando “beltà e giovinezza splendeano”, e che non sto qui a sciorinare – di uno si vuol proporre in codesta sede la genesi: la Badia di Sant’Agata a Catania, concordemente riconosciuta dalla storiografia come il capolavoro per eccellenza del genio creativo di Giovan Battista Vaccarini, architetto palermitano e massimo protagonista della rinascita urbanistica del capoluogo etneo.

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Definito nel 1934 da Francesco Fichera: «il più bel gioiello della corona sacra che il Vaccarini impose alla giovine città, nel cui ambiente si era già immedesimato»[1], le motivazioni alla base di tale scelta possono riassumersi nei seguenti punti:

  1. lo scopo di decodificare il linguaggio compositivo di un artista di riconosciuta fama e importanza per l’arte settecentesca siciliana, seppur non degnamente attenzionato dalla critica contemporanea;
  2. il significato altamente liturgico-simbolico del monumento (la rievocazione e glorificazione delle eroiche sacre virtù della Santa Patrona Sant’ Agata Vergine e Martire catanese) espresso attraverso l’impiego dei materiali adoperati, l’impaginazione nonché l’articolazione dei volumi nello spazio.
  3. l’omogeneità del processo ideativo ed esecutivo del sito.
  4. i ricordi personali d’un quinquennio vissuto quotidianamente entro le mura del tempio cristiano, radente alle statue e decorazioni; ai marmi e bianchi stucchi o in cima alla mole della cupola, da cui ebbi modo disparate volte di godere di un privilegiato punto di vista.

BIOGRAFIA DI GIOVAN BATTISTA VACCARINI

3 febbraio 1702: nasce a Palermo, figlio di Gerlando Vaccarini, abile ebanista vicino ai più rinomati architetti palermitani per le capacità di riprodurre in scala i modelli dei loro progetti.

1a formazione: ambiente familiare, biblioteche dei Gesuiti e Teatini, nobili famiglie del capoluogo siciliano.

2a formazione: maggiori architetti settecenteschi di scuola siciliana (Paolo e Giacomo Amato, Andrea Palma, Angelo Italia, Filippo Juvarra) romana (Francesco Borromini, Carlo Fontana, Pietro da Cortona, Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga, Nicolò Salvi, Francesco De Sanctis); veneta (Andrea Palladio); plasticismo e maestria realizzativa di Giacomo Serpotta.

1720-30: soggiorno romano presso la corte del Card. Pietro Ottoboni (1667-1740).

1730: si trasferisce a Catania, ove ricoprirà, sin dallo stesso anno, le cariche di Canonico Secondario della Cattedrale e Soprintendente nell’Almo Studio (Palazzo Universitario).

1730-50: massimo protagonista della rinascita urbanistica post-terremoto della città etnea (p.zza Duomo, Cattedrale, Badia di S. Agata, piccola Badia di S. Benedetto, Chiese di S. Giuliano e dell’Ogninella, Monastero dei Benedettini, Collegi Cutelli e dei Gesuiti, Palazzi degli Elefanti, Universitario, S. Giuliano, Villarmosa o del Toscano, Valle, Nava).

28 novembre 1735: conferimento della cittadinanza onoraria e nomina ad architetto della città da parte del Senato catanese.

13 maggio 1736: laurea in filosofia e matematica presso l’Università degli Studi di Catania.

1745-49: cattedra di matematica dell’Almo Studio.

1750: si trasferisce a Palermo come architetto della Deputazione del Regno, lavorando al Palazzo di Villafranca a p.zza Bologni e all’interno della Chiesa S. Chiara.

11 marzo 1768: muore a Palermo e viene tumulato il giorno seguente nella Chiesa dei Crociferi in via Maqueda accanto alle tombe di Paolo e Giacomo Amato.

CRONOLOGIA E SCHEDA TECNICA DEL MONUMENTO

  • Località: Catania
  • Ubicazione: via Vittorio Emanuele (prospetto principale), angolo via Raddusa (prospetto laterale).
  • Progetto e data del disegno: 1735
  • Data di costruzione: 30 gennaio 1748 – 10 ottobre 1767.
  • Architetti: Giovan Battista Vaccarini (PA, 1702 – ivi, 11 marzo 1768); Giuseppe Domenico Palazzotto (ME, 1683 – 1770).
  • Incarico di progettazione: madre Abadessa, Maria Concezione Scammacca, e Moniali del Monastero S. Agata, Catania.
  • Materiali: pietra calcarea (esterni); intonaco bianco, decorazioni in stucco della medesima tinta, marmo giallo di Castronuovo (interni).
  • Superficie totale dei lotti: 24,20 (largh.); m. 39,50 (lungh.), ml. 16,00 (diametro cupola).
  • Distribuzione dei percorsi principali: impianto basilicale a pianta centrale, con asse longitudinale di maggiore lunghezza rispetto a quello trasversale, inscritta in un cerchio e coronata da cupola ad unica calotta costolonata, con tamburo di base cilindrica all’interno e ottagonale all’esterno.
  • Gestione: dal 1935 è affidata alle cure della “Pia Società San Paolo” fondata, dal Beato Don Giacomo Alberione (1884-71) nel 1914.
  • Modelli: Sant’Agnese in Agone (1652-72) e San Carlino alle Quattro Fontane (1634-80) di Francesco Borromini.

ANALISI ARCHITETTONICA E STILISTICA DEL MONUMENTO

Progettata ed edificata su commissione della Rev.da madre Abadessa, Maria Concezione Scammacca, e Moniali dell’omonimo Monastero, la Badia di S. Agata a Catania (1735-67) racchiude in sé la summa delle componenti stilistiche del suo autore, Giovan Battista Vaccarini: memore delle rivoluzionarie soluzioni architettoniche messe in atto da Francesco Borromini nella Capitale quasi un secolo prima, in special modo nella realizzazione delle Chiese di San Carlino alle Quattro Fontana (1634-80) e di S. Agnese in Agone (1652-72), tanto da identificare nelle stesse i due modelli diretti più insigni.

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Di rado è possibile rintracciare nel panorama architettonico barocco siciliano altri esempi di opere che seguano durante l’intera fase del proprio processo ideativo e realizzativo la direzione di un’unica mente coordinatrice, pur non tralasciando il notevole intervento sin dal 1750 (anno del ritorno dell’artista in patria, Palermo) del fedele discepolo Giuseppe Domenico Palazzotto, al quale, come già avvenuto in altre circostanze, Vaccarini diede l’arduo compito di continuare, come regia esecutiva, le sue ultime opere. Come ricorda ancora Fichera, si è davvero in presenza d’una «prodigiosa compenetrazione tra struttura e decorazione, retta e curva, meccanica e poesia»[2].

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L’impianto planimetrico del monumento a croce greca centrale presenta con un cerchio di ml 16,00 di diametro come figura base, a cui si aggregano secondo le bisettrici degli assi longitudinale e trasversale altri quattro cerchi formanti delle concavità, in ognuna delle quali è contenuto un altare. Nonostante l’impianto sia palesemente debitore di Sant’Agnese in Agone, Vaccarini altera l’estensione dell’asse longitudinale rispetto a quello trasversale, accentuando, in tal modo, il significato del percorso del fedele dall’ingresso all’altare principale e soddisfacendo, altresì, le esigenze di uno spazio sacrale destinato alla comunità claustrale, seppur, tuttavia, aperto al popolo praticante.

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«In questo modo essa si distaccava dal modello romano rainaldesco-cortoniano di S. Agnese, fondato sulla dilazione spaziale trasversale, in consonanza con gli intenti celebrativi richiesti dalla famiglia committente, la Pamphily, e con la maniera grande propria del barocco romano»[3]. L’abside semicircolare, posta a conclusione alle spalle dell’altare maggiore, sottolinea la predilezione per la spazialità semicilindrica adottata da Vaccarini e appresa dalle lezione veneta palladiana, ritenuta consona per allogare gli altari e per contenere le statue dei santi. «Una spazialità complessiva, contrassegnata da un sistema binario formato da una cellula spaziale primaria circolare, che costituisce l’ambiente destinato ai fedeli, alla quale si saldano otto cellule sempre spaziali, ma secondarie»[4], di cui le quattro rettilinee, disposte lungo gli assi longitudinale e traversale, sono destinate per sorreggere i matronei e contenere gli ingressi, l’altare principale ed il presbiterio; mentre le quattro cilindriche di diametro minore si aggregano lungo le bisettrici degli assi precedenti per contenere gli altari secondari.

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L’ordine architettonico deve la sua materializzazione alle colonne e paraste composite lisce aggettanti, disposte a definire il muro circolare del vaso chiesastico e la zona presbiteriale, quest’ultimo, punto focale della composizione come luogo della mensa di Cristo. Non manca la presenza di un ordine architettonico secondario costituito da colonne e pareste doriche, anch’esse lisce, di minore altezza a contrassegnare le zone di aggregazione delle cellule spaziali dipendenti, il cui collegamento visivo-dimensionale è affidato agli archi a tutto sesto e a tre centri, sorreggenti rispettivamente la cupola e le cantorie. Entrambi gli ordini sono realizzati quasi totalmente in muratura: i fusti completati ad intonaco bianco, i capitelli di decorazione in stucco della medesima tinta, la zoccolatura di rivestimento, le basi in lastre di marmo grigio di Billiemi.

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Il pavimento segue, nelle due tonalità bianco e grigio, un elaborato disegno, il quale, sviluppandosi a raggiera da un cerchio posto al centro dell’edificio, riproponendo la proiezione della lanterna, raggiunge le pareti. Il bianco, di matrice palladiana, è l’unica nota cromatica riservata alle strutture murarie ed architettoniche, il quale, con i suoi valori luministici, si presta adeguatamente a simboleggiare l’eterna presenza del divino nella propria dimora e l’atmosfera profondamente contemplativa del monastero. «Il bianco era quindi una scelta fondamentale per il Vaccarini, che dava la preferenza alla finitura più povera sulla scia del manierismo veneto passato poi, tramite Borromini, al classicismo barocco europeo; esso evidentemente contrastava con quella che affidava ai rivestimenti marmorei o agli affreschi o anche agli stucchi tinteggiati ad imitazione del marmo la intenzionalità di ricchezza e di teatralità da esibire ai fedeli»[5].

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Tuttavia, l’artista introduce elementi cromatici nelle decorazioni a scultura e nell’arredo in legno e metallo, in stretta dialettica con i temi geometrico-spaziali. Ne sono nobili testimoni gli altari, le statue e la parete della Crocifissione, sul lato destro del transetto, realizzati in marmo giallo di Castronuovo (PA), preferito, su consiglio del Vaccarini, persino da Luigi Vanvitelli per le colonne della Reggia di Caserta (1752-74). Tutta l’impostazione decorativa è fortemente allusiva e simbolica: la lavorazione della plastica a stucco nella rappresentazione di puttini, foglie e palme trova la sua peculiarità nell’impronta di un severo classicismo barocco, più sobrio rispetto alle forme dell’esuberanza più propriamente seicentesche; i temi sviluppati sulle targhe dedicatorie richiamano chiaramente, tramite la parola, la liturgia, analogamente a quelle poste sui piedistalli dell’ingresso principale alludenti allo Spirito Santo, all’Eucarestia, alla glorificazione di Dio Padre e della Patrona catanese, per la quale l’artista nutriva sincera devozione: «per la fervorosa devozione, che ha avuto, ha, e spera avere verso la Gloriosa Vergine e Martire S. Agata»[6]. La sommità della trabeazione continua, retta-spezzata-dentellata con mensole e cornici, è sormontata da una serie continua di candelabri in ferro battuto dorato collegati a gruppi tramite volute e festoni, collocati sull’imposta del tamburo, il cui antecedente è la corona in stucco e stilizzati motivi floreali posta dal Borromini sulla trabeazione interna della chiesa di San Carlino.

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L’intero spazio è concluso dalla prima cupola realizzata nella Catania post-terremoto 1693: ad unica calotta rivestita da piastrelle quadrate in terracotta smaltate (rimosse dagli ultimi interventi di restauro del 2007-08), con doppi costoloni semiellittici saldati all’elegante lanterna e tamburo di base cilindrica all’interno e ottagonale all’esterno. Questi è traforato da otto finestre ad arco ribassato e decorato da paraste d’angolo sormontate da trabeazione continua, a sua volta, questa, sormontata da balaustra di coronamento, con vasi decorativi. Il raccordo del cerchio d’imposta ai piani murati portanti l’ordine architettonico è riservato all’interno ai pennacchi sferici. La lanterna presenta un cupolino di coronamento collocato su trabeazione circolare e sorretto da colonne con capitello ionico; e il tutto completato da una sfera metallica sormontata da una croce latina in ferro battuto.

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La facciata, con l’accavallarsi di immagini, elementi architettonici e decorativi, è concepita con la funzione di quinta teatrale rispetto alla piazza del Duomo e alla strada che lambisce, è caratterizzata da un ordine gigante di pilastri poco aggettanti in pietra calcarea su una zoccolatura continua in pietra lavica, avente uno squisito capitello con palme e simboli dedicatori.

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L’andamento planimetrico del muro del prospetto presenta il gioco alternato di superfici convessa-concava-convessa, al primo ordine e tre volte concava al piano attico, memore della lezione borrominiana di San Carlino, imprimendo un ritmo movimento all’architettura.

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Il portale d’ingresso è compreso da due gruppi di colonne binate di marmo con piedistallo e trabeazione retta-spezzata, fungente da sostegno ad angeli e targhe decorative; al di sopra un’elegante finestra dal coronamento a frontone, anch’esso spezzato, e decorazione allusiva al martirio della Santa: M.S.S.H.D.E.P.L. (Mentem Santa Spontaneam Honorem Deo Et Patriae Liberationem).

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Originalissimi, poi, i timpani delle finestre laterali del prospetto principale con decorazioni in altorilievo raffiguranti le mammelle della Vergine Martire catanese e presentate al fedele entro un vassoio quale simbolo del martirio vissuto in nome della fede nel febbraio del 251 d.C.29

Tra capitello e capitello, lungo tutta la trabeazione conclusiva della facciata, corre una gelosia panciuta, poggiante su una frangia arabescata in pietra, evidente richiamo alla decorazione del Baldacchino di S. Pietro in Vaticano (1624-33). Le gelosie metalliche, realizzate in lamiera traforata secondo un originale disegno, nascondono ai lati della chiesa due vani quali le monache si concedevano di partecipare alle processioni svoltesi nelle immediate vicinanze, senza timore d’esser viste.

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Il coronamento del prospetto principale è costituito da una balaustra continua in pietra con andamento tre volte concavo, traforata a maglie intrecciate e sormontata da statue di Virtù, putti e vasi ornamentali.

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Il prospetto laterale, invece, dall’ampia spaziatura delle finestre, è composto al centro da un portale d’ingresso con soprastante finestra, ambedue delimitati da eleganti modanature e decorazioni anch’esse in pietra calcarea.

Il risultato di tutte le soluzioni apportate possedeva la finalità di costituire uno spazio architettonico, in cui i temi della glorificazione sacra e delle celebrazioni liturgiche trovassero in accordo con il budget economico messo a disposizione dell’artista, un’esaustiva risposta unitaria adatta alla sensibilità barocca del tempo. I lavori furono compiuti in un arco cronologico di 32 anni, come ricorda il documento redatto dalla madre Abadessa e datato 14 ottobre 1767:

“Avendosi dal Rev.mo Sac. D. D. Gio: Batta Vaccarini, Abbate al p.nte del SS.mo Salvatore della Placa di Francavilla e di San Filippo della Piana della città di Milazzo in qualità di Architetto del ven.le Mon.ro de Moniali di S. Agata Vergine e Martire di questa ch.ma e fid.ma città di Catania, piantati in quest’anno, sopra la nuova chiesa con suo prospetto di esso ven.le Mon.ro, la gran cubbola, e cubbolino fabbricati di pietra giurgiulena, e voltati senza aiuto, ed appoggio alcuno, seu voltati senza veruna forma, collocata di già (grazie all’alt.mo) sotto lì 10: del corrente Ott.bre giorno di sabbato dedicato alla Beat.ma Vergine Maria Madre di Dio, sovra la fine di esso cubbolino, al croce, che osservasi; avendo parimenti sud. Rev.mo Abbate di Vaccarini come Architetto dato la sua direzione al cennato ven.le Mon.ro  […]  E volendo la rev. Da Abbadessa e Moniali di sud. Ven.le Mon.ro, adempiere la sua obbligazione in rimunerare al divisato Rev.mo Abbate Vaccarini le sue fatiche, continua assistenza ed ogni altro dal medesimo Rev.mo Abbate adoperati, e prestati in tutto il tempo della costruzione, e collocazione di suddetti cubbola e cubbolino, perciò da d.a. Abbadessa, e Moniali suddette serioso congresso, e discorso col succennato Rev.mo Abbate Vaccarini, della rimunerazione dovutali;  […]  e siccome per il passato non solo si è tenuto contento, e soddisfatto (riguardo alla devozione, che sempre ha avuto, ha e spera avere come fedel cristiano verso la gloriosa Vergine, e Martire S. Agata, e pella benevolenza che ha sempre conservato, e conserva al Mon.ro sud.to) di quel tanto, che sud.to Mon.ro ha pagato al d.o Rev.mo Abbate Vaccarini per la costruzione, ed ogni altro di sudetta nuova chiesa edificata per il corso d’anni 32: circa;  […]  Intanto oggi il sudetto, pr.te innanzi a Noi il sud. Rev.mo Abbate D. D. Gio: Batta Vaccarini del SS.mo Salvatore della Placa di Francavilla, e di san Filippo della Piana di Milazzo, a me Not.o infr.tto conosciuto, spontaneamente (dichiarando prima, ed affermando con giur.to tutto l’anzidetto esser vero, anzi verissimo) in forza della pr.te disse, e confessa siccome dichiarò e dichiara di essere stato pienamente pagato, e soddisfatto dal sud.o ven.le Mon.ro dei Moniali di S. Agata Vergine e Martire di questa sud.a Città, e per esso dalla Re.da S.la Maria Concezione Scammacca come a presente Abb.a di esso ven.le Mon.ro  […]”[7].

A seguito dei recenti restauri, “il gioiello della Corona Sacra” è tornato a brillare, sfoggiando il sinuoso dinamismo delle sue nobili grazie: felice retaggio donato da un palermitano alla città adottiva, che sinceramente amò, impreziosendola di nuova fulgida veste da mostrare alle postume generazioni o a chi, per la prima volta o foss’anche l’ennesima, si trovi a volgere lo sguardo alla scenografica piazza su cui svetta il profilo del caro Elefante, che i catanesi chiamano affettuosamente “Liotru”, illustre emblema del popolo etneo.

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BIBLIOGRAFIA 

[1] Francesco Fichera, G. B. Vaccarini, vol. I,  Roma, Reale Accademia d’Italia, 1934, p. 123.

[2] Ibidem.

[3] Salvatore Boscarino, Vaccarini architetto, Palermo, BAE, 1992, p. 43.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 46-47.

[6] Apoca dell’Arch. Don G. B. Vaccarini in favore del Monastero di S. Agata del 14 ottobre 1767, in  Francesco Fichera, Vaccarini architetto, ed. cit., p. 256.

[7] Apoca dell’Arch. Don G. B. Vaccarini in favore del Monastero di S. Agata del 14 ottobre 1767, in  Ivi, pp. 255-256.