Archivi categoria: Preraffaelliti

DA VEDERE TRA MARZO E APRILE

Torino e il Liberty

La mostra “Liberty. Torino Capitale”, allestita a Palazzo Madama a Torino, è un evento di grande rilievo. Si concentra sul ruolo fondamentale di Torino nell’affermazione del Liberty, un movimento artistico e filosofico che ha influenzato ogni aspetto della vita e della società. L’esposizione offre un’esperienza coinvolgente e originale, consentendo ai visitatori di comprendere i meccanismi della creazione architettonica ed estetica. La mostra esplora opere di architettura, design d’interni, pittura, scultura, grafica, decorazione, letteratura, poesia e musica, tutte caratterizzate dalla particolare linea strutturale della natura. Il Liberty, con le sue linee dolci e sinuose, trova a Torino la sua capitale e si diffonde in tutto il mondo. 

Casa Fenoglio-Lafleur, Torino

Fino al 10 giugno sarà possibile farsi travolgere dalla sensualità dell’Art Nouveau attraverso le fantasmagorie urbane ma anche dalle suggestive visioni di Boldini, Corcos, Previati e Bistolfi.

G. PREVIATI, Danza delle ore, 1899

La pittura di Previati è il perfetto connubio tra ricerca luministica attraverso la tecnica divisionista e spiritualità simbolista. Nella Danza delle ore in mostra a Torino dodici fanciulle danzano tra cielo e terra inondate da una luce di oro, sorreggendo un cerchio simbolo dell’infinito alternarsi del giorno e della notte. Le pennellate circolari sembrano vibrare come nei cieli paradisiaci descritti da Dante nella Divina commedia.

Amarsi. L’amore nell’arte da Tiziano a Banksy a Terni

Concepita come omaggio a San Valentino, patrono di Terni, la mostra “AMARSI. L’Amore nell’Arte da Tiziano a Banksy” esplora l’evoluzione dell’amore nell’arte dalle rappresentazioni classiche di Venere e Cupido, fino alle interpretazioni moderne. Presenta 40 opere che includono una versione della celebre “Venere e Adone” di Tiziano Vecellio, mostrando come l’amore sia stato espresso e trasformato attraverso i secoli. La mostra evidenzia il cambiamento nella percezione dell’amore partendo dalle classiche storie mitologiche conduce a rappresentazioni contemporanee, riflettendo su come l’arte abbia catturato i vari aspetti del sentimento universale per antonomasia: l’amore. Visitabile fino al 7 aprile presso Palazzo Monatani Leoni a Terni.

Tiziano e bottega, Venere e Adone, 1555-60, Fondazione Carit, Terni

Una delle versioni di Venere e Adone, mito ovidiano che Tiziano rappresentò con grande finezza di dettagli creando un vero poema dipinto. Nel racconto poetico, Adone nacque dalla corteccia di Mirra, una giovane trasformata dagli dei in pianta per sfuggire al padre. Cresciuto dalle Naiadi, Adone divenne straordinariamente bello, tanto che persino Venere, la dea dell’amore, se ne innamorò. La dea lo accompagnava nelle sue battute di caccia, poiché Adone era un abile cacciatore. Qui la dea cerca di trattenere l’amato presagendo la tragedia imminente. Infatti, il giovane Adone, abile cacciatore, incontrerà un cinghiale (Marte rabbioso di gelosia, tramutato in bestia) inferocito che lo ucciderà. Le urla di dolore del giovane giungono fino a Venere, che accorre dal suo amato. Tuttavia, lo trova riverso a terra, ormai morente. Distrutta dal dolore, decide che il suo lutto sarà eterno. Trasforma Adone in un anemone e le lacrime da lei versate si tramutarono in rose profumate.

Forlì e i Preraffaeliti

Al Museo Civico San Domenico di Forlì, un progetto decisamente ambizioso denominato “Preraffaeliti. Rinascimento moderno.” si protrarrà fino al 30 giugno. Questa straordinaria esposizione offre ai visitatori l’opportunità unica di ammirare oltre 300 opere, tra dipinti, disegni, gioielli, stampe e ceramiche, provenienti dalle collezioni più esclusive di tutto il mondo. I visitatori avranno l’occasione di immergersi in un viaggio affascinante attraverso opere di artisti rinomati, quali Dante Gabriel Rossetti, John Everett Millais, William Holman Hunt, Edward Burne-Jones, e molti altri. Inoltre, potranno apprezzare parallelamente i capolavori dei maestri rinascimentali del passato, da Beato Angelico a Veronese, passando per Giovanni Bellini e Michelangelo. In definitiva, si tratta di un evento straordinario che offre un’esperienza culturale senza precedenti, un vero e proprio banchetto per gli appassionati d’arte.

DANTE GABRIEL ROSSETTI, La vedova romana, 1874, dal Museo de Ponce, Porto Rico

Nel dipinto qui sopra rappresentato che funge anche da copertina del catalogo e immagine chiave dell’esposizione Dante Gabriel Rossetti dipinge una delle sue modelle preferite come una vedova romana, che con aria nostalgica suona una lamentazione sulle corde di due strumenti musicali in segno di rispetto per il marito perduto. A sottolineare la sua costante devozione, la giovane ha posto la sua cintura matrimoniale argentea attorno all’urna di marmo bianco che contiene le ceneri dell’amato. Rossetti ha dipinto l’urna basandosi su un oggetto della sua collezione di antichità. L’iscrizione in latino recita: “Agli dèi dell’Averno, Papira Gemina ha fatto ciò per il suo carissimo marito Lucio Alio Aquino: salve, signore, addio, signore”. Le ghirlande di rose sono probabilmente metafora dell’amore eterno anche dopo la morte, tema che Rossetti ha affrontato più volte nella sua pittura e nella sua poesia.

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

Festeggiamo il Dantedì con la Beata Beatrix di Dante Gabriele Rossetti.

Sul Parnaso

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Beata Beatrix”
    – Anno: 1863-70 ca.
    – Tecnica e dimensioni: olio su tela, 88,4 x 66 cm.
    – Luogo di ubicazione: Londra, Tate Britain Gallery
    – Donato nel 1889 dalla baronessa Georgiana Mount Temple in memoria del marito, il barone Francis Mount Temple.

3

4

Oltre la spera che più larga gira,
passa ‘l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur sù lo tira.
Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore,
e luce sì che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ‘l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ‘ntendo ben, donne mie care.
Appresso questo…

View original post 2.485 altre parole

Omaggio a CHARLES EDWARD PERUGINI (Napoli, 1° settembre 1838 – Londra, 22 dicembre 1918)

Sempre bistrattati gli artisti accademici della seconda metà del XIX secolo, forse perché non rincorrevano il futuro ma si attardavano un po’ narcisisticamente nel passato. Tra questi vi è l’italo-inglese

206px-c-e-perugini
Ritratto di Charles Edward Perugini, Frederic Leighton, 1855

Charles Edward Perugini, formatosi in Italia negli studi di Giuseppe Bonolis e Giuseppe Mancinelli, fu particolarmente apprezzato da Frederic Leighton che lo condusse come suo assistente in Inghilterra dal 1863.

Perugini segue quindi il dettato di un’arte accademica ma anche profondamente romantica, le donne sono protagoniste indiscusse delle sue tele, tema prediletto è quello della fanciulla che legge. Charles Edward realizza un tripudio di leggiadre donzelle o dame più mature intente alla lettura di un libro o perse nella riflessione sul testo appena letto. Le ambientazioni e le atmosfere che raccolgono la galleria di lettrici di Perugini sono varie, c’è per esempio la Fanciulla che legge di bianco vestita, seduta in un aranceto e con un rametto profumato di fior d’arancio tra le dita:

girl-reading-charles-edward-perugini
Fanciulla che legge, C. E., Perugini, 1878, Manchester Gallery

Più sciolta e meno accademica, più vicina alla visione del quotidiano di alcuni impressionisti e la Giovane lettrice distesa nel prato, qui la fanciulla gusta le pagine con un intimo piacere e le pennellate avvolgono la figura con una consistenza morbida e sottilmente voluttuosa.

charles_edward_perugini_ak1
Fanciulla che legge, C. E., Perugini, 1870

Un’impronta maggiormente ritrattistica è presente invece nel delicato ritratto della dolce fanciulla immersa nella lettura sullo sfondo di una pianta con piccoli fiori bianchi. Del resto l’attività di ritrattista è centrale nell’opera di Perugini.

girl-reading-xx-charles-edward-perugini
Giovane donna che legge, C. E., Perugini, 1870

Uno dei ritratti più noti è quello di Sophie Gray, il pennello dell’artista delinea il bel volto della fanciulla con grande maestria, volto riprodotto da altri artisti meno accademici come Millais che aveva sposato in seconde nozze sua sorella maggiore Eufemia Gray. Una fanciulla con un destino decisamente doloroso, in quanto morta di anoressia nervosa a soli 38 anni.

charles_edward_perugini_-_sophie_grey
Ritratto di Sophie Gray, C. E., Perugini, 1865

Interessante il confronto con il ritratto della stessa giovane donna realizzato dal cognato Millais qualche anno prima:

sophie_gray
Ritratto di Sophie Gray, J. E., Millais, 1857

Completiamo questo breve omaggio a un artista meritevole di maggiore attenzione con Greensleeves, il magico motivo folkloristico pare realizzato dallo stesso Enrico VIII per l’amata Anna Bolena.

Greensleeves era tutta la mia gioia

Greensleeves era la mia felicità

Greensleeves era il cuore della mia gioia

Greensleeves era il mio cuore d’oro

E chi altri se non la mia Signora Greensleeves

perugini_greensleeves
Greensleeves, Perugini, 1870

 

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Beata Beatrix”
    – Anno: 1863-70 ca.
    – Tecnica e dimensioni: olio su tela, 88,4 x 66 cm.
    – Luogo di ubicazione: Londra, Tate Britain Gallery
    – Donato nel 1889 dalla baronessa Georgiana Mount Temple in memoria del marito, il barone Francis Mount Temple.

3

4

Oltre la spera che più larga gira,
passa ‘l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur sù lo tira.
Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore,
e luce sì che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ‘l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ‘ntendo ben, donne mie care.
Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui «qui est per omnia secula benedictus».
(Dante Alighieri, Vita Nova, XLIII canto)

I versi con i quali il “Sommo Poeta” chiude il celeberrimo manoscritto dedicato all’amata Beatrice Portinari sono la diretta e primaria fonte dell’opera pittorica presa in esame, probabilmente, la più carica d’intenso lirismo dal profondo carattere evocativo dell’intero corpus figurativo di Dante Gabriel Rossetti, fondatore della Confraternita dei Preraffaelliti.

5

Della mostra torinese “Preraffaelliti, l’utopia della bellezza”, curata da Alison Smith e allestita negli spazi rimodernati di Palazzo Chiablese (18 aprile – 14 luglio 2014. Catalogo della Mostra realizzato da 24 ORE Cultura) e, nello specifico, dell’ “Ophelia” di John Everett Millais, si ebbe occasione di parlarvi QUI.
Visto l’indiscutibile charme esercitato dalle creature nate dal pennello del gruppo inglese, non è mai semplice come mandar giù un bicchier d’acqua compiere una cernita e selezionarne “una” tra le tante. Specie per me, “eterno indeciso” dal cuore d’asino, che a furia dei soliti «Non saprei, temporeggio ancora!!»… la vita mia, ormai, divien vetusta, altro che “nova!”. “Adesso mi metto pure a fare le rime!! Lascia perdere, che è meglio!”.
Tuttavia, a seguito di crogiolarmi nell’andirivieni cerebrale lungo 48 ore, sono felicemente giunto a conclusione certa… O no!!! “Cerchiamo di quagliare, mò!!”.
L’olio su tela dal titolo “Beata Beatrix” assume una duplice valenza simbolica agli occhi del suo autore per via della sovente, e fortemente voluta da questi, identificazione della moglie, Elisabeth Eleanor Siddall (Londra, 25 luglio 1829 – Londra, 11 febbraio 1862) – passata alla storia con il diminutivo Lizzy o Lizzie: modella, poetessa, pittrice e, dal 1860 al 1862, moglie di Dante Gabriel Rossetti – con la Beatrice Portinari di dantesca memoria. Tale parallelismo, meramente intellettuale, fu elaborato da Gabriel Rossetti a partire dagli Cinquanta dell’Ottocento in seno alla produzione ad acquerello su carta di temi neo-medievali danteschi e cavallereschi, oltre che shakesperiani, ove i toni liricamente melodrammatici ne costituiscono l’eloquente cifra stilistica.
Le atmosfere immaginifiche di questi lavori sono dominate da alte, pallide e snelle eroine i cui tratti fisionomici rievocano la figura tormentata e malinconica di Lizzie, indimenticata musa ispiratrice del pittore. È il caso di due squisiti acquerelli della Tate Britain Gallery di Londra: “La visione di Dante: Rachele e Lia” (1855) e “Il sogno di Dante alla morte di Beatrice” (1856), quest’ultimo riprodotto con alcune varianti anche su tela per commessa del pittore e critico William Graham Robertson – il lavoro, ultimato nel 1871, risultò di dimensione triplicate rispetto alle richieste del committente, motivo per il quale finì per essere acquistato dal National Museums di Liverpool – e rappresenta il dipinto di maggior formato mai realizzato da Rossetti nella sua lunga carriera. In una scena lacrimevole, ispirata al sogno del poeta della Vita Nova (tradotta in inglese da Rossetti alla fine degli anni Quaranta), Cupìdo alato, riconoscibile dall’arco e frecce, è presentato sotto forma angeliche nell’atto di baciare sulla fronte la defunta Beatrice, afferrando contemporaneamente la mano di Dante.

12

6

Prima di tornare alla “Beata Beatrix”, conviene, per maggior chiarezza, aprire una breve parentesi sulla produzione ad acquerello dell’artista.
Rossetti fu l’unico della Confraternita a ripudiare (per pochi anni, s’intenda) la pittura a olio in seguito alla prima fase sperimentale degli anni Cinquanta, preferendovi l’acquerello su carta per la più spedita tecnica esecutiva adatta alla minor scala, nonché per la sua attività di scrittore e poeta, poiché il supporto cartaceo favoriva una lettura più attenta ai dettagli di matrice simbolica, quasi fossero una forma poetica trasposta in pittura, con l’impiego di raffinati motivi decorativi e vibranti colori prismatici ispirati ai codici miniati di età medievale, tanto amati dal pittore. La tecnica di questi lavori è arricchita dalle soluzioni di gomme e vernici al fine d’intensificarne i toni e modificarne le proprietà acquose dovute all’acquerello. I restauri hanno dimostrato che Rossetti applicava i colori in modo apparentemente illogico, stendendo sulla carta prima il colore asciutto e successivamente vi costruiva le forme con sottili pennellate, ricreando i neutri bianchi attraverso il ricorso a modalità diverse, quali la raschiatura e il bianco piombo. Quest’ultimo ha subito un processo di sbiadimento per effetto degli agenti atmosferici inquinanti da combustione di carbone, compromettendo, in tal modo, il ruolo originario del bianco di accentuare i cangianti schemi cromatici della composizione. I restauri, ancora, hanno dimostrato come Rossetti, rispetto ai suoi “confratelli” come William Holman Hunt ed Edward Burne-Jones, prestasse minor cura alla stabilità cromatica, prediligendovi, piuttosto, la brillantezza immediata.
Ancora i restauri degli acquerelli avvalorano la tesi che Rossetti non fosse neppure un artigiano meticoloso quanto i colleghi, essendo più incline all’idea ispiratrice del soggetto che alle meccaniche dell’esecuzione. Non di rado, l’artista integrava il supporto cartaceo con strisce supplementari dello stesso materiale lungo i bordi non appena la composizione si fosse spinta oltre i margini consentiti del formato. Quest’ultimo aspetto della prassi metodologia accompagnerà l’artista anche dopo gli anni Cinquanta dell’Ottocento e il trionfale ritorno alla monumentalità delle scene eseguita a olio su tela.
Non stupisce, quindi, che proprio “Beata Beatrix” comprenda ben sei parti supplementari in tela integrate al supporto originario al fine di creare lo spazio necessario intorno alle mani della donna e alla profondità del fondale. A ciò, si sommino le lacune nello strato preparatorio bianco, nonché i residui di materiali di bottega e i peli di pennello intrappolati nella pellicola pittorica.
Gli aspetti succitati divennero oggetto di pesanti critiche da parte di colleghi, e lo stesso Holman Hunt, nonostante le affinità artistiche con Rossetti, non esitò a criticarne l’infelice prassi metodologica, affermando che l’amico «alla fin fine era solo un dilettante» , sminuendo, in definitiva, le qualità tecniche.
Non meno violento fu l’affondo dello stesso William Graham Robertson (il committente del “Il sogno di Dante alla morte di Beatrice” del 1871, oggi al National Museums di Liverpool), il quale nelle sue memorie del 1931 dal titolo Time Was, descrive le qualità tecniche“dilettantesche” di Rossetti, ricordandone l’orrore provato a una mostra al cospetto di un suo dipinto (non specificato) dal «disegno distorto» e dalla «pittura tormentata, come imbrattata». Eppure Robertson prosegue ammettendo come l’immagine, in fondo, lo avesse profondamente ossessinato per la sua intima bellezza, concludendo che l’essenza di un’opera risiede nella sua idea anziché nella resa finale.
A tal proposito, interviene Alison Smith, affermando che Rossetti differisce dai colleghi Preraffaelliti: «perché usava il colore e la consistenza dei suoi dipinti come mezzo per distogliere l’attenzione dall’osservatore da qualsiasi presunto mondo esterno; il colore, la linea e il motivo erano invece usati per evocare la tattilità e il suono in una sorta di sinestesia, quasi l’artista si rivolgesse direttamente alla fantasia uditiva dell’osservatore».
Chiusa questa breve parentesi, torniamo a “Beata Beatrix”.

L’iconografia dell’opera è incentrata sulla figura di Beatrice Portinari a cui Rossetti ha intenzionalmente voluto dare i delicati tratti fisionomici della sua compianta Lizzie, morta suicida l’11 febbraio del 1862 a soli 32 anni per overdose di laudano (un sedativo medico, usato sovente come sostanza stupefacente, estratta dal papavero da oppio (conosciuto come Papaver somniferum, appartenente alla famiglia Papaveraceae), di cui la donna faceva, pare, abuso, minandone la cagionevole salute, seriamente compromessa dopo la bronchite causata a seguito deella sfortunata seduta di posa per l’ “Ophelia” di Millais, di cui si è, già, parlato nel precedente articolo.

L’iconologia del soggetto fu illustrata dallo stesso artista, il quale ribadì come “Beata Beatrix” non fosse una diretta trasposizione figurativa del poema dantesco, quanto la sua complessa interpretazione: «Il quadro, naturalmente, non deve essere considerato una rappresentazione dell’evento della morte di Beatrice, bensì un’idealizzazione del soggetto, simboleggiata da una stato di trance o di improvvisa trasfigurazione spirituale. Beatrice, palesemente assorta in una visione celeste, scorge gli occhi chiusi (come dice Dante in conclusione della Vita Nuova) ‘colui qui est per ominia soecula benedictus’». (Lettera a William Graham Robertson, 11 marzo 1873).
Rossetti, dunque, trasfigura l’opera in un’allegoria amorosa dei sensi e dello spirito per mezzo della rievocazione del XLIII canto della Vita Nova e traccia, a tal fine, un preciso parallelismo tra sé e Dante, identificando il tormento vissuto per la dipartita dell’amata moglie Lizzie con il sentimento lirico cantato dal poeta per la morte di Beatrice.
Il carattere trascendente della scena si materializza in una visione onirica ove l’atmosfera rarefatta dalla vibrazione cromatica nonché dall’indeterminatezza dei volumi si traducono in una dimensione angelicamente sospesa e melanconica, dolcemente rischiarata dalla calda e carezzole luce dorata, come infinitesime particelle del pulviscolo atmosferico.
La donna, dalla lunga chima rossa lucente, siede di scorcio al centro della scena in una posa intrisa di carica erotica, le cui morbide labbra dischiuse e le palpebre serrate sono gli indicatori dell’abbandono del corpo nell’estasi mistica, amplificata dal sentito ricorso a particolari simbolici.
Il livido incarnato del volto segna l’imminente trapasso di Beatrice, le cui mani, ripiegate a conchiglia, attendono di accogliere entro il proprio grembo un papavero bianco da oppio portatole, in becco, da una colomba aureolata – esplicita allusione simbolica allo Spirito Santo – tuttavia, anziché bianca come tradizionalmente indicato nei sacri testi biblici, è di un rosso splendente, quale simbolo di passione amorosa, non ultimo di morte. Le intenzioni sono confermate dallo stesso Rossetti: «un uccello splendente, messaggero di morte, lascia cadere un papavero bianco sulle sue mani aperte». (Lettera a William Graham Robertson, cit.).
Secondo la critica, la scelta del pittore di adottare sia la colomba che il papavero bianco non sarebbe casuale, bensì voluta e assumerebbe i connotati di una diretta allusione alla morte della moglie Lizzie , soprannominata dal marito “The Dove” (la Colomba), e tragicamente deceduta, come succitato, per abuso di laudano, ricavato dal papavero da oppio, una cui varietà bianca con petali macchiati, simile a quello riprodotto da Rossetti, cresce selvatica proprio in alcuna zone dell’ Inghilterra. Ma gli effetti di apparente sollievo dovuti alla somministrazione dello stupefacente lattiginoso si tingono di puro inganno, di ennesima illusione, di vuoto esistenziale, oltre i quali non può esservi alcuna salvezza se non attraverso la soglia della tormentata contorsione dell’essere fino all’ultimo fremito di vita.
Il critico d’arte inglese e amico di Rossetti, Frederic George Stephens, sostenne come anche i colori grigio e verde dell’abito della donna siano stati impiegati in funzione simbolica, alludendo alla speranza e alla vita, il verde; al dolore sepolcrale, dunque alla morte, il grigio.
Alle spalle di Beatrice si scorge un muretto in blocchi lisci isodomi alla destra del cui piano è posta una meridiana indicante il numero 9, dal potere fortemente evocativo relativamente alla sfera dei ricordi danteschi. Esso, infatti, allude, come spiegò Rossetti, all’età e al decesso della Portinari: «La incontra all’età di nove anni, muore alle nove del 9 giugno 1290» (Lettera a Ellen Heaton, 19 maggio 1863).
Ma le associzioni implicano indirettamente altre sottili sfumature, poiché il numero 9 è multiplo di 3: numero perfetto per antonomasia, poiché simbolo del Dio Uno e Trino associato alla perfezione del Creato e all’Opera Salvifica Cristologica, nonché schema metrico delle terzine dei canti della Divina Commedia. Al di là del muretto l’attenzione si focalizza su due figure vestite di rosso, quella di sinistra, di verde, quella di destra: «Dante in persona […] fissa lo sguardo sulla figura di Amore, sul lato opposto del quadro, nella cui mano la vita della sua donna tremola e si affievolisce come un’esangue fiammella» (Lettera a William Graham Robertson, cit).
Grazie alle numerose versioni del medesimo soggetto eseguite dallo stesso Rossetti (oltre che da seguaci), è possibile comprendere le masse volumetriche che si ergono dietro Amore (Cupìdo) e Dante, poco leggibili nella versione indagata per via dei loro profili indefiniti. Uno scenario campestre di gusto medievale, con la presenza di un pozzo dietro la sagoma del poeta, incornicia la visione delle due figure nelle versione del 1869 di Harvard, del 1871-72 di Chicago, come pure nella copia di Murray del 1900-10 di Wilmington; mentre nella versione del 1877-82 custodita a Birminghan il fondale vegetale dietro Amore lascia spazio a un edificio archtettonico ecclesiastico, identificato dalla croce incisa sul paramento murario esterno.

109811
Lo sfondo è dominato dalla profondità spaziale che si dipana all’orizzonte verso il profilo orizzontale e arcuato di Ponte Vecchio a Firenze, città che lega idealmente il pittore al genio dantesco di cui si sentiva erede, incarnadone instancabilmente la figura.

7
Come da manuale, anche la cornice è stata progettata dal pittore con iscrizioni allusive al XXIX canto della Vita Nova per mezzo della Lamentazione “Quomodo sedet Sola civitas” (“Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo”), con cui Dante vuole estendere il lutto per la morte di Beatrice a tutta la città toscana. E ai versi immediatamente successivi del medesimo canto si deve l’ideazione e il titolo del soggetto stesso del dipinto, poiché:

Io era nel proponimento ancora di questa canzone,
e compiuta n’avea questa soprascritta stanzia,
quando lo signore de la giustizia chiamòe
questa gentilissima a gloriare sotto la insegna
di quella regina benedetta virgo Maria,
lo cui nome fue in grandissima reverenzia
ne le parole di questa Beatrice beata”. (Vita Nova, XXIX canto).
E, infine, persino i tondi della cornice alludono alla poetica dantesca, stavolta al finale della Commedia:
“l’amor che move il sole e l’altre stelle”. (Paradiso, XXXIII canto).

Come afferma lo storico Giuseppe Nifosì «Beatrice incarna un ideale di donna ben diverso dall’originale dantesco, ritroso e riservato. Creatura terrena e celeste insieme, spirituale e sensuale a un tempo, la Beatrice di Rossetti diventa l’icona della donna irresistibile e fatale, fortunatissimo soggetto dalla poetica simbolista di fine secolo». (Giuseppe Nifosì, Arte in Opera. Dal Naturalismo seicentesco all’Impressionismo, vol 4, Editori Laterza, 2015).

Un ultimo lirico canto d’amore, quello di Dante Gabriel Rossetti, alla sua musa, modella, compagna, emulando quel sentire stilnovista di languida poesia, ove nell’amorosa visione, perché “mirabile”, il canto di lode è per la sola amata “beatitudine”, seppur nell’intimo addio:

“O amore, mio amore…Dovessi io non più vedere
Te o neanche, in terra, l’ombra di te,
né il riflesseo dei tuoi occhi in una fonte,
come suonerebbe – per l’oscuro pendio della vita –
il turbinio delle perse foglie di Speranza,
l’aliare dell’imperitura ala di Morte?

(Dante Gabriel Rossetti, Amorosa visione)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

“Laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche” . Esploriamo l’opera: l’utopia della bellezza nell’ “ophelia” di john everett millais

Se si pensa alla Tate Britain Gallery di Londra è spontaneamente inevitabile pensare ai Preraffaelliti, così com’è inevitabilmente spontaneo pensare alle loro opere e, fra tutte, a “Ophelia” di John Everett Millais – coofondatore a Londra nel 1848, assieme a Dante Gabriel Rossetti e Holman Hunt, della Confraternita romantica inglese – di cui si indagherà la genesi in questo scritto in coda al breve prologo che segue.

Galeotta fu la mostra torinese “Preraffaelliti, l’utopia della bellezza” curata da Alison Smith e allestita negli spazi rimodernati di Palazzo Chiablese (18 aprile – 14 luglio 2014. Catalogo della Mostra realizzato da 24 ORE Cultura), con l’esposizione di 67 opere tra disegni, acquerelli e dipinti a olio provenienti dalle collezione della rinomata galleria londinese.
Come indica il nome stesso adottato, l’ideale estetico del giovane gruppo è forgiato principalmente sull’arte che precede il Rinascimento maturo cinquecentesco (di cui Michelangelo, Leonardo e Raffaello rappresentano il culmine): vale a dire quella del Medioevo e, in misura anche maggiore, del Quattrocento italiano.
Il fine dei Preraffaelliti risiede nella volontà di liberarsi dal dilatante accademismo di maniera di stampo neoclassico, promosso dalla Royal Academy Schools, a favore di un’arte che miri al recupero del rapporto diretto con la natura e dell’estrinsecazione dei sentimenti secondo i dettami romantici.
Furono il senso “etico” dell’operare e quell’arcaica “onestà” del dipingere, tradita (a partire dall’epoca raffaellesca) da un’arte divenuta meramente intellettuale e priva di originalità, a guidare le scelte stilistiche innovative e il pensiero estetico, socio-politico e religioso di tipo riformista del preraffaellismo: per il quale “Naturalismo” e “Primitivismo” divennero i due poli su cui fondare la “nuova” pittura, espressa attraverso temi religiosi, storici e soprattutto letterari, di cui Dante Alighieri e William Shakespeare rappresenteranno le più eloquenti fonti d’ispirazione.
Incoraggiati dal fervido sostegno di John Ruskin (il più illustre critico dell’epoca) e mossi dall’entusiasmo diffuso per la storia naturale, specie per la geologia e la botanica, i Preraffaelliti indagarono la natura con dovizia di particolare e desiderio di svelarne i segreti del passato per comprenderne il presente. Adottarono un disegno compatto, lineare, netto e privo di ombre di chiaro gusto gotico, atto ad accogliere “colori stridenti”, dissonanti e brillanti, come li definì il grande storico e critico d’arte Ernst Gombrich.
Esponendo i propri lavori alle mostre annuali della Royal Academy (al tempo la sede più prestigiosa delle esposizioni temporanee britanniche), Gabriel Rossetti e compagni lanciarono un’ambiziosa sfida pubblica fondata sulle qualità innovative delle loro creazione, al punto tale da influenzare vari accademici affermati della generazione precedente come Dyce, Richard Redgrave e Daniel Maclise, i quali modificarono i programmi di studi della Royal Academy promuovendo, altresì, le novità tecnico-stilistiche introdotte dalla Confraternita.
Quali queste novità tecnico-stilistiche adottate dai giovani artisti succitati?
Come ricorda nel suo saggio Alison Smith, curatore della mostra, “Tecniche e metodi della pittura preraffaellita”, furono respinti soprattutto «sia il metodo tradizionale della preparazione del fondo nelle tonalità di terra per definire le aree più scure di una composizione, sia l’uso del chiaroscuro, impiegato per definire ampie zone di luce e ombra e stabilire aree principali e secondarie all’inteno di un quadro. Abbandonarono anche la tecnica accademica della facture, o pennallata ben visibile per trasmettere consistenza, e la fusione delle tonalità per armonizzare i diversi elementi di un disegno».

Trassero, invece, ispirazione dalle pratiche emergenti del loro tempo, come la dagherrotipia, attraverso la quale era possibile ricavare nitide immagini fotografiche dalla luminosità vitrea; oppure l’acquerello e l’applicazione dei colori dati a piccoli tocchi su fondo preparato con imprimitura in bianco di zinco anziché quello in piombo (che ingialliva col tempo), in modo che il supporto assumesse quella che Hunt definì “durezza della pietra”, fresco e privo di imperfezioni.
Il bianco di zinco iniziò a circolare diffusamente grazie all’industria dalla fine delgi Quaranta dell’Ottocento, offrendo ai preraffaelliti di sfruttare la luminosità del fondo, mantenendo la trasparenza nell’applicazione delgi strati cromatici successivi.
Sempre lo Smith continua: «l’obiettivo era evitare a ogni costo l’effetto di morbidezza causato dall’applicazione del colore su un fondo preparato con mezzi toni. […] applicavano poi macchie di colore a mosaico con un singolo strato sottile di colore puro, per lo più non mescolato, senza velatura e con poche pennellate leggere». Questo metodo accentuava la luminosità, lasciando che il fondo trasparisse per mezzo di strati di colore spessi ma traslucidi, stesi con i pennelli di zibellino tipici dell’acquerello, anziché con quelli di scoiattolo e maiale, utilizzati per la pittura a olio.
E ancora, guardando alle tecniche pre-rinascimentali, recuperarono per l’incarnato l’uso del tratteggio a pennellate sottile secondo le antiche tecniche della miniatura impiegate nei manoscritti medievali; i colori levigate delle tempere e degli oli quattrocenteschi italiani e fiamminghi e la lucida brillantezza delle vetrate gotiche istoriate.
I pigmenti prediletti restavano quelli trasparenti come il verde smeraldo, il blu cobalto e oltremare, il rosso carminio e la gommagutta (un giallo trasparente), tutti impiegati al fine di ottenere un’intensità cromatica uniforme in tutta la composizione. E questi erano miscelati non colil tradizionale olio, bensì con il coppale (resina naturale utilizzata per ricavare una vernice durevole e di alta qualità) per sua natura più lucido e capace di donare alla pellicola pittorica una maggiore lucentezza colorata in un solo strato, simile, non a caso, alle vetrate istoriate.
La mostra torinese, suddivisa in sette sezioni (la storia, la religione, il paesaggio, la vita moderna, la poesia, la bellezza e il simbolismo), si apriva con la celebre “Ophelia” di Millais.

Featured image

Il pittore iniziò l’opera a Ewell, nel Surrey, nel giugno del 1851 e vi lavorò per circa sei mesi allo sfondo, dipingendolo centimetro per centimetro al cospetto di prati e ruscelli, indagando scientificamente le specie vegetali. Ritemprato dal soggiorno in campagna e dalla conseguente libertà da obblighi artistici e sociali, Millais ritornò al Londra in dicembre, con la tela completata, salvo che nella parte centrale, rimasta in bianco nell’attesa dell’inseriemento del soggetto shakespeariano.
La modella prescelta fu l’inglese Elisabeth Siddall (passata alla storia con il diminutivo Lizzy o Lizzie), modella, poetessa, pittrice e futura moglie di Dante Gabriel Rossetti (di cui si parla anche QUI) La giovane ragazza (figlia di un negoziante di ferramenta e ammirata per i suoi lunghi capelli rossi, oltre che per la sua singolare bellezza), fu scoperta da Walter Deverell, associato americano dei Preraffaelliti.
Millais la fece posare per circa quattro mesi in una vasca da bagno riscaldata da una lampada nel suo appartamento in Gower Street, con l’intento di realizzare un’immagine autentica della sventurata amante di Amleto, annegata nel celebre dramma teatrale. Ma prima di procedere con la puntigliosa precisione che glie ra consueta, l’artista elaborò diversi studi preparatori, anche di singole parti del corpo e solo successivamente diede vita alla figura dipinta dal vero.
Tuttavia, per ironia della sorte, in una sola delle tante sedute di posa, la lampada che riscaldava la vasca da bagno si spense e l’acqua gelida fu la causa di una grave bronchite che colpì Lizzie, minandone la cagionevole salute, già segnata dall’abuso di laudano (una sostanza stupefacente di uso medico che veniva usata anche come droga e di cui ne fu vittima lo scrittore Edgar Allan Poe).
L’accaduto fu il pretesto che spinse il padre della ragazza a ritenere responsabile Millais, minacciandolo di agire legalmente se non avesse pagato personalmente le spese mediche necessarie alla guarigione della figlia.
Tornando al dipinto, esso con la sua patetica eroina e il lussereggiante fogliame ritratto nel momento di massimo rigoglio, è un emblema dell’approccio dei Preraffaelliti alla natura, alla psicologia e alla narrazione di soggetti storico-letterari. Il momento scelto dal pittore è tratto dalla settima scena del IV atto della tragedia shakespeariana citata, in cui la regina Gertrude ricorda la morte della giovane Ofelia, impazzita a seguito dell’omicidio del padre, avvenuto per mano dell’amato Amleto, e successivamente annegata nel fiume mentre era impegnata a intrecciare ghirlande di fiori:

C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute
nella vitrea corrente; laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli,
di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno
un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto.

Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine,
un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa
nel piangente ruscello.

Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero,
mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo
stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento.

Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi,
trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.

(Regina Gertrude in William Shakesperare, “Amleto”– Atto IV, Scena settima, 1600-02)
L’infelice fanciulla giace supina, rigida come un’effigie sopra una tomba di ricordo gotico, sostenuta e al tempo stesso avviluppata dall’acqua che diventerà il suo sepolcro, impigliata in una rigorosa vegetazione e cosparsa di fiori variopinti, simboli eloquenti della vita da lei, ormai, rifiutata.
Il corpo di Ofelia è collocato in uno spazio efficacemente autentico con la presenza anche di esemplari di fauna, come un pettirosso e un topo d’acqua.
Ciò rispecchia gli interessi microscopici e domestici di naturalisti, proprietari di acquari e di terreri, collezionisti di felci e botanici dilettanti appartenti alle associazioni locali che costituivano un tratto distintivo della scienza accessibile in età vittoriana.
La vegetazione è ripresa dal vero poiché ogni dettaglio è reso con impressionante rigore e precisione, a testimonianza di un rapporto profondo ed emozionale con il dato naturale. Tuttavia, questo è fabbricato appositamente per la scena dipinta, poiché le specie inserite dall’artista non fioriscono nello stesso periodo dell’anno, ma hanno, piuttosto, una funzione fortemente simbolica, fornendo maggior risalto al soggetto. Questa precisione botanica nonché la visione ravvicinata della scena, riprodotta con dovizia di particolari, trasfigurano l’opera in un simbolo della storia naturale d’interesse artistico.
Alla bellezza della modella dai lunghi capelli rossi che emergono dallo specchio l’acqua in tutta la loro brillantezza, sono associate le rose rappresentate vicino alle sue guance, caricandosi di una forte valenza simbolica, cui non sono da meno il salice piangente e le margherite, associate all’abbandono in amore, al dolore e all’innocenza; e il papavero, infine, che spicca vicino alla mano destra di Lizzie, simbolo di morte e fragilità.
Immagine2
Il dipinto esemplifica e afferma le innovative caratteristiche della pittura storica della Confraternità, attingendo a un soggetto popolare, reinterpretato per l’occasione come episodio di un dramma molto amato dal pubblico e trattandolo come fosse avvenuto realmente.
Il dipinto soddisfa ogni precetto del primo preraffaellismo con la sua poetica visualizzazione del tragico destino dell’infelice fanciulla, come quest’ultima rappresenta l’attuazione dei principi tematici del gruppo relativi alla pittur adi paesaggio al servizio di soggetti letterari e moralistici. La critica non ebbe molto da ridire sulla scelta del soggetto, in linea con la tradizione teatrale presente nell’arte inglese del tempo, bensì tutti rimasero affascinati dalla concezione naturalistica, considerandola l’elemento stilistico determinante del movimento.
L’innovativo metodo di lavoro messo a punto da Millais lo costrinse ad allontanarsi dalla caotica Londra al fine di ritrarre la natura dal vero in una località identificata in un tratto delfiume Hogsmill presso Malden, rimasto tutt’oggi pressoché inalterato.
Esposta a Londra nel 1852, “Fraser’s Magazine” elogiò l’opera, citando il pathos del volto di Ofelia e la realtà poetica dell’ambiente naturale, unita alla determinazione dell’artista di “prendere la Natura così com’è, invece di comporla in un quadro”, adottadando una tecnica descrittiva inedita e priva di artificio.

(Filippo Musumeci)