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“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Beata Beatrix”
    – Anno: 1863-70 ca.
    – Tecnica e dimensioni: olio su tela, 88,4 x 66 cm.
    – Luogo di ubicazione: Londra, Tate Britain Gallery
    – Donato nel 1889 dalla baronessa Georgiana Mount Temple in memoria del marito, il barone Francis Mount Temple.

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Oltre la spera che più larga gira,
passa ‘l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur sù lo tira.
Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore,
e luce sì che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ‘l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ‘ntendo ben, donne mie care.
Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui «qui est per omnia secula benedictus».
(Dante Alighieri, Vita Nova, XLIII canto)

I versi con i quali il “Sommo Poeta” chiude il celeberrimo manoscritto dedicato all’amata Beatrice Portinari sono la diretta e primaria fonte dell’opera pittorica presa in esame, probabilmente, la più carica d’intenso lirismo dal profondo carattere evocativo dell’intero corpus figurativo di Dante Gabriel Rossetti, fondatore della Confraternita dei Preraffaelliti.

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Della mostra torinese “Preraffaelliti, l’utopia della bellezza”, curata da Alison Smith e allestita negli spazi rimodernati di Palazzo Chiablese (18 aprile – 14 luglio 2014. Catalogo della Mostra realizzato da 24 ORE Cultura) e, nello specifico, dell’ “Ophelia” di John Everett Millais, si ebbe occasione di parlarvi QUI.
Visto l’indiscutibile charme esercitato dalle creature nate dal pennello del gruppo inglese, non è mai semplice come mandar giù un bicchier d’acqua compiere una cernita e selezionarne “una” tra le tante. Specie per me, “eterno indeciso” dal cuore d’asino, che a furia dei soliti «Non saprei, temporeggio ancora!!»… la vita mia, ormai, divien vetusta, altro che “nova!”. “Adesso mi metto pure a fare le rime!! Lascia perdere, che è meglio!”.
Tuttavia, a seguito di crogiolarmi nell’andirivieni cerebrale lungo 48 ore, sono felicemente giunto a conclusione certa… O no!!! “Cerchiamo di quagliare, mò!!”.
L’olio su tela dal titolo “Beata Beatrix” assume una duplice valenza simbolica agli occhi del suo autore per via della sovente, e fortemente voluta da questi, identificazione della moglie, Elisabeth Eleanor Siddall (Londra, 25 luglio 1829 – Londra, 11 febbraio 1862) – passata alla storia con il diminutivo Lizzy o Lizzie: modella, poetessa, pittrice e, dal 1860 al 1862, moglie di Dante Gabriel Rossetti – con la Beatrice Portinari di dantesca memoria. Tale parallelismo, meramente intellettuale, fu elaborato da Gabriel Rossetti a partire dagli Cinquanta dell’Ottocento in seno alla produzione ad acquerello su carta di temi neo-medievali danteschi e cavallereschi, oltre che shakesperiani, ove i toni liricamente melodrammatici ne costituiscono l’eloquente cifra stilistica.
Le atmosfere immaginifiche di questi lavori sono dominate da alte, pallide e snelle eroine i cui tratti fisionomici rievocano la figura tormentata e malinconica di Lizzie, indimenticata musa ispiratrice del pittore. È il caso di due squisiti acquerelli della Tate Britain Gallery di Londra: “La visione di Dante: Rachele e Lia” (1855) e “Il sogno di Dante alla morte di Beatrice” (1856), quest’ultimo riprodotto con alcune varianti anche su tela per commessa del pittore e critico William Graham Robertson – il lavoro, ultimato nel 1871, risultò di dimensione triplicate rispetto alle richieste del committente, motivo per il quale finì per essere acquistato dal National Museums di Liverpool – e rappresenta il dipinto di maggior formato mai realizzato da Rossetti nella sua lunga carriera. In una scena lacrimevole, ispirata al sogno del poeta della Vita Nova (tradotta in inglese da Rossetti alla fine degli anni Quaranta), Cupìdo alato, riconoscibile dall’arco e frecce, è presentato sotto forma angeliche nell’atto di baciare sulla fronte la defunta Beatrice, afferrando contemporaneamente la mano di Dante.

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Prima di tornare alla “Beata Beatrix”, conviene, per maggior chiarezza, aprire una breve parentesi sulla produzione ad acquerello dell’artista.
Rossetti fu l’unico della Confraternita a ripudiare (per pochi anni, s’intenda) la pittura a olio in seguito alla prima fase sperimentale degli anni Cinquanta, preferendovi l’acquerello su carta per la più spedita tecnica esecutiva adatta alla minor scala, nonché per la sua attività di scrittore e poeta, poiché il supporto cartaceo favoriva una lettura più attenta ai dettagli di matrice simbolica, quasi fossero una forma poetica trasposta in pittura, con l’impiego di raffinati motivi decorativi e vibranti colori prismatici ispirati ai codici miniati di età medievale, tanto amati dal pittore. La tecnica di questi lavori è arricchita dalle soluzioni di gomme e vernici al fine d’intensificarne i toni e modificarne le proprietà acquose dovute all’acquerello. I restauri hanno dimostrato che Rossetti applicava i colori in modo apparentemente illogico, stendendo sulla carta prima il colore asciutto e successivamente vi costruiva le forme con sottili pennellate, ricreando i neutri bianchi attraverso il ricorso a modalità diverse, quali la raschiatura e il bianco piombo. Quest’ultimo ha subito un processo di sbiadimento per effetto degli agenti atmosferici inquinanti da combustione di carbone, compromettendo, in tal modo, il ruolo originario del bianco di accentuare i cangianti schemi cromatici della composizione. I restauri, ancora, hanno dimostrato come Rossetti, rispetto ai suoi “confratelli” come William Holman Hunt ed Edward Burne-Jones, prestasse minor cura alla stabilità cromatica, prediligendovi, piuttosto, la brillantezza immediata.
Ancora i restauri degli acquerelli avvalorano la tesi che Rossetti non fosse neppure un artigiano meticoloso quanto i colleghi, essendo più incline all’idea ispiratrice del soggetto che alle meccaniche dell’esecuzione. Non di rado, l’artista integrava il supporto cartaceo con strisce supplementari dello stesso materiale lungo i bordi non appena la composizione si fosse spinta oltre i margini consentiti del formato. Quest’ultimo aspetto della prassi metodologia accompagnerà l’artista anche dopo gli anni Cinquanta dell’Ottocento e il trionfale ritorno alla monumentalità delle scene eseguita a olio su tela.
Non stupisce, quindi, che proprio “Beata Beatrix” comprenda ben sei parti supplementari in tela integrate al supporto originario al fine di creare lo spazio necessario intorno alle mani della donna e alla profondità del fondale. A ciò, si sommino le lacune nello strato preparatorio bianco, nonché i residui di materiali di bottega e i peli di pennello intrappolati nella pellicola pittorica.
Gli aspetti succitati divennero oggetto di pesanti critiche da parte di colleghi, e lo stesso Holman Hunt, nonostante le affinità artistiche con Rossetti, non esitò a criticarne l’infelice prassi metodologica, affermando che l’amico «alla fin fine era solo un dilettante» , sminuendo, in definitiva, le qualità tecniche.
Non meno violento fu l’affondo dello stesso William Graham Robertson (il committente del “Il sogno di Dante alla morte di Beatrice” del 1871, oggi al National Museums di Liverpool), il quale nelle sue memorie del 1931 dal titolo Time Was, descrive le qualità tecniche“dilettantesche” di Rossetti, ricordandone l’orrore provato a una mostra al cospetto di un suo dipinto (non specificato) dal «disegno distorto» e dalla «pittura tormentata, come imbrattata». Eppure Robertson prosegue ammettendo come l’immagine, in fondo, lo avesse profondamente ossessinato per la sua intima bellezza, concludendo che l’essenza di un’opera risiede nella sua idea anziché nella resa finale.
A tal proposito, interviene Alison Smith, affermando che Rossetti differisce dai colleghi Preraffaelliti: «perché usava il colore e la consistenza dei suoi dipinti come mezzo per distogliere l’attenzione dall’osservatore da qualsiasi presunto mondo esterno; il colore, la linea e il motivo erano invece usati per evocare la tattilità e il suono in una sorta di sinestesia, quasi l’artista si rivolgesse direttamente alla fantasia uditiva dell’osservatore».
Chiusa questa breve parentesi, torniamo a “Beata Beatrix”.

L’iconografia dell’opera è incentrata sulla figura di Beatrice Portinari a cui Rossetti ha intenzionalmente voluto dare i delicati tratti fisionomici della sua compianta Lizzie, morta suicida l’11 febbraio del 1862 a soli 32 anni per overdose di laudano (un sedativo medico, usato sovente come sostanza stupefacente, estratta dal papavero da oppio (conosciuto come Papaver somniferum, appartenente alla famiglia Papaveraceae), di cui la donna faceva, pare, abuso, minandone la cagionevole salute, seriamente compromessa dopo la bronchite causata a seguito deella sfortunata seduta di posa per l’ “Ophelia” di Millais, di cui si è, già, parlato nel precedente articolo.

L’iconologia del soggetto fu illustrata dallo stesso artista, il quale ribadì come “Beata Beatrix” non fosse una diretta trasposizione figurativa del poema dantesco, quanto la sua complessa interpretazione: «Il quadro, naturalmente, non deve essere considerato una rappresentazione dell’evento della morte di Beatrice, bensì un’idealizzazione del soggetto, simboleggiata da una stato di trance o di improvvisa trasfigurazione spirituale. Beatrice, palesemente assorta in una visione celeste, scorge gli occhi chiusi (come dice Dante in conclusione della Vita Nuova) ‘colui qui est per ominia soecula benedictus’». (Lettera a William Graham Robertson, 11 marzo 1873).
Rossetti, dunque, trasfigura l’opera in un’allegoria amorosa dei sensi e dello spirito per mezzo della rievocazione del XLIII canto della Vita Nova e traccia, a tal fine, un preciso parallelismo tra sé e Dante, identificando il tormento vissuto per la dipartita dell’amata moglie Lizzie con il sentimento lirico cantato dal poeta per la morte di Beatrice.
Il carattere trascendente della scena si materializza in una visione onirica ove l’atmosfera rarefatta dalla vibrazione cromatica nonché dall’indeterminatezza dei volumi si traducono in una dimensione angelicamente sospesa e melanconica, dolcemente rischiarata dalla calda e carezzole luce dorata, come infinitesime particelle del pulviscolo atmosferico.
La donna, dalla lunga chima rossa lucente, siede di scorcio al centro della scena in una posa intrisa di carica erotica, le cui morbide labbra dischiuse e le palpebre serrate sono gli indicatori dell’abbandono del corpo nell’estasi mistica, amplificata dal sentito ricorso a particolari simbolici.
Il livido incarnato del volto segna l’imminente trapasso di Beatrice, le cui mani, ripiegate a conchiglia, attendono di accogliere entro il proprio grembo un papavero bianco da oppio portatole, in becco, da una colomba aureolata – esplicita allusione simbolica allo Spirito Santo – tuttavia, anziché bianca come tradizionalmente indicato nei sacri testi biblici, è di un rosso splendente, quale simbolo di passione amorosa, non ultimo di morte. Le intenzioni sono confermate dallo stesso Rossetti: «un uccello splendente, messaggero di morte, lascia cadere un papavero bianco sulle sue mani aperte». (Lettera a William Graham Robertson, cit.).
Secondo la critica, la scelta del pittore di adottare sia la colomba che il papavero bianco non sarebbe casuale, bensì voluta e assumerebbe i connotati di una diretta allusione alla morte della moglie Lizzie , soprannominata dal marito “The Dove” (la Colomba), e tragicamente deceduta, come succitato, per abuso di laudano, ricavato dal papavero da oppio, una cui varietà bianca con petali macchiati, simile a quello riprodotto da Rossetti, cresce selvatica proprio in alcuna zone dell’ Inghilterra. Ma gli effetti di apparente sollievo dovuti alla somministrazione dello stupefacente lattiginoso si tingono di puro inganno, di ennesima illusione, di vuoto esistenziale, oltre i quali non può esservi alcuna salvezza se non attraverso la soglia della tormentata contorsione dell’essere fino all’ultimo fremito di vita.
Il critico d’arte inglese e amico di Rossetti, Frederic George Stephens, sostenne come anche i colori grigio e verde dell’abito della donna siano stati impiegati in funzione simbolica, alludendo alla speranza e alla vita, il verde; al dolore sepolcrale, dunque alla morte, il grigio.
Alle spalle di Beatrice si scorge un muretto in blocchi lisci isodomi alla destra del cui piano è posta una meridiana indicante il numero 9, dal potere fortemente evocativo relativamente alla sfera dei ricordi danteschi. Esso, infatti, allude, come spiegò Rossetti, all’età e al decesso della Portinari: «La incontra all’età di nove anni, muore alle nove del 9 giugno 1290» (Lettera a Ellen Heaton, 19 maggio 1863).
Ma le associzioni implicano indirettamente altre sottili sfumature, poiché il numero 9 è multiplo di 3: numero perfetto per antonomasia, poiché simbolo del Dio Uno e Trino associato alla perfezione del Creato e all’Opera Salvifica Cristologica, nonché schema metrico delle terzine dei canti della Divina Commedia. Al di là del muretto l’attenzione si focalizza su due figure vestite di rosso, quella di sinistra, di verde, quella di destra: «Dante in persona […] fissa lo sguardo sulla figura di Amore, sul lato opposto del quadro, nella cui mano la vita della sua donna tremola e si affievolisce come un’esangue fiammella» (Lettera a William Graham Robertson, cit).
Grazie alle numerose versioni del medesimo soggetto eseguite dallo stesso Rossetti (oltre che da seguaci), è possibile comprendere le masse volumetriche che si ergono dietro Amore (Cupìdo) e Dante, poco leggibili nella versione indagata per via dei loro profili indefiniti. Uno scenario campestre di gusto medievale, con la presenza di un pozzo dietro la sagoma del poeta, incornicia la visione delle due figure nelle versione del 1869 di Harvard, del 1871-72 di Chicago, come pure nella copia di Murray del 1900-10 di Wilmington; mentre nella versione del 1877-82 custodita a Birminghan il fondale vegetale dietro Amore lascia spazio a un edificio archtettonico ecclesiastico, identificato dalla croce incisa sul paramento murario esterno.

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Lo sfondo è dominato dalla profondità spaziale che si dipana all’orizzonte verso il profilo orizzontale e arcuato di Ponte Vecchio a Firenze, città che lega idealmente il pittore al genio dantesco di cui si sentiva erede, incarnadone instancabilmente la figura.

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Come da manuale, anche la cornice è stata progettata dal pittore con iscrizioni allusive al XXIX canto della Vita Nova per mezzo della Lamentazione “Quomodo sedet Sola civitas” (“Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo”), con cui Dante vuole estendere il lutto per la morte di Beatrice a tutta la città toscana. E ai versi immediatamente successivi del medesimo canto si deve l’ideazione e il titolo del soggetto stesso del dipinto, poiché:

Io era nel proponimento ancora di questa canzone,
e compiuta n’avea questa soprascritta stanzia,
quando lo signore de la giustizia chiamòe
questa gentilissima a gloriare sotto la insegna
di quella regina benedetta virgo Maria,
lo cui nome fue in grandissima reverenzia
ne le parole di questa Beatrice beata”. (Vita Nova, XXIX canto).
E, infine, persino i tondi della cornice alludono alla poetica dantesca, stavolta al finale della Commedia:
“l’amor che move il sole e l’altre stelle”. (Paradiso, XXXIII canto).

Come afferma lo storico Giuseppe Nifosì «Beatrice incarna un ideale di donna ben diverso dall’originale dantesco, ritroso e riservato. Creatura terrena e celeste insieme, spirituale e sensuale a un tempo, la Beatrice di Rossetti diventa l’icona della donna irresistibile e fatale, fortunatissimo soggetto dalla poetica simbolista di fine secolo». (Giuseppe Nifosì, Arte in Opera. Dal Naturalismo seicentesco all’Impressionismo, vol 4, Editori Laterza, 2015).

Un ultimo lirico canto d’amore, quello di Dante Gabriel Rossetti, alla sua musa, modella, compagna, emulando quel sentire stilnovista di languida poesia, ove nell’amorosa visione, perché “mirabile”, il canto di lode è per la sola amata “beatitudine”, seppur nell’intimo addio:

“O amore, mio amore…Dovessi io non più vedere
Te o neanche, in terra, l’ombra di te,
né il riflesseo dei tuoi occhi in una fonte,
come suonerebbe – per l’oscuro pendio della vita –
il turbinio delle perse foglie di Speranza,
l’aliare dell’imperitura ala di Morte?

(Dante Gabriel Rossetti, Amorosa visione)

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