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I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO A CASPAR DAVID FRIEDRICH (Parte Prima)

I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO A CASPAR DAVID FRIEDRICH  (Greifswald, 5 settembre 1774 – Dresda, 7 maggio 1840) nell’anniversario della nascita.

di Filippo Musumeci

“L’unica vera fonte dell’arte è il nostro cuore, un linguaggio puro come la mente di un bambino. Un’opera che non scaturisca da questa origine non può essere che artificiosa.” (Caspar David Friedrich)

CASPAR DAVID FRIEDRICH

Era il 5 settembre 1774, ovvero 244 anni fa, quando a Greifswald (cittadina della costa baltica nello stato federale del Meclemburgo-Pomerania Anteriore, in Germania) veniva alla luce un uomo, un pittore, un genio romantico che non ha certo bisogno di alcuna presentazione e che da oltre due secoli incanta studiosi, storici, cultori ed estimatori dell’Ottocento (e non) con la poesia “sublime” delle sue visioni mistico-naturalistiche. Un “avanguardista” del suo tempo, senza il quale il Romanticismo europeo non avrebbe vissuto i risvolti figurativi conquistati, il concetto stesso di “Sublime” non avrebbe conosciuto il suo massimo rappresentante e la pittura, in toto, sarebbe stata privata di una tessera indispensabile alla veduta d’insieme del suo mosaico. Nel corso di questi due secoli, l’arte di Caspar David Friedrich ha fatto proseliti, ispirando, in modo più o meno esplicito, simbolisti di fine Ottocento come lo svizzero Arnold Böcklin, il quale ha saputo ricreare nei suoi lavori i valori atmosferico-sensoriali offerti dalla Natura, assieme allo spirito simbolico e più dichiaratamente languido, quando non addirittura tetro, delle visioni friedrichiane, sovente legate al tema della “morte”. E Böcklin non si limita a citare Friedrich solo nella scelta di tema e soggetti, ma ne condivide anche il pensiero critico quando afferma che: “la pittura deve riempire di sé l’anima. Finché non lo fa rimane uno stupido artigiano.”  

Ma sui rapporti tra i due pittori dell’Ottocento rimandiamo all’articolo già in cantiere e di prossima pubblicazione.

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Celebre è l’aforisma friedrichiano formulato dal pittore romantico nel quale afferma: “Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi dai alla luce ciò che hai visto durante la notte, affinché la tua visione agisca su altri esseri dall’esterno verso l’interno.” (Caspar David Friedrich)

Questa lucida deduzione sulla fase ideativa dell’opera è una porta aperta verso le Avanguardie storiche del XX secolo e giunge all’occorrenza per delineare come anche i surrealisti operanti a Parigi dagli anni Venti del Novecento come Max Ernst, René Magritte e Salvador Dalì,  fino all’Espressionismo astratto statunitense di Mark Rothko e alle marine contemporanee di Piero Guccione, “padre” del Gruppo di Scicli, (di quest’ultimo e dei rapporti con la pittura di Friedrich abbiamo già parlato QUI) siano deliberatamente debitori del pittore di Greifswald, relativamente al carattere epico e al sentimento lirico rievocato nelle loro composizioni, ove il rapporto Uomo-Natura viene riaggiornato alla luce delle nuove esperienze legate alla sfera dell’inconscio.

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A dire il vero, ciò che accomuna gli artisti citati in una pressione osmotica può essere sintetizzato nell’espressione coniata dallo scrittore tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann per definire la vera essenza del Romanticismo, vale a dire “brama d’infinito”. E al concetto di “Infinito” si lega saldamente per effetto, poiché da esso prende forma, il sentimento “Sublime” di matrice romantica. Fu Edmund Burke, scrittore e uomo politico inglese del Settecento, nelle sua opera “Indagine filosofica sull’origine del Sublime e del Bello” (1756-59) – poi ripreso dal tedesco Immanuel Kant ne “La critica del giudizio” (1790) – a definire i caratteri del sentimento “Sublime”, affermando che: “Ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. […] Le idee di dolore, di malattia, di morte, riempiono la mente di forti emozioni di orrore; ma le idee di vita e di saluta, sebbene ci mettano in grado di provare piacere, non producono, col semplice godimento, altrettanta impressione. Le passioni quindi che riguardano la preservazione dell’individuo si riferiscono, principalmente, al dolore o al pericolo e sono le più forti di tutte le passioni. […] Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire”.  In altre parole, quel misterioso e affascinante insieme di sensazioni che è possibile provare solo di fronte a certi grandiosi spettacoli naturali (un tramonto infuocato, una tempesta impetuosa, una notte di vento, una tormenta di neve, un mare in tempesta o mosso, un paesaggio visto dall’alto come infinito), quando le sensazioni che ne derivano tendono a colmare l’animo di un “orrore dilettevole”.  In definitiva, il “Sublime” è, al contempo, piacere e dolore, più opportunamente definito dagli artisti romantici “Il pinnacolo della beatitudine”, poiché confinante con l’orrore, la deformità, la follia: un culmine che fa smarrire la mente di chi non sa guardar oltre. Ma quella sul “Sublime” è “l’altra storia” su cui si desidera rinviare al prossimo articolo, come già detto, in cantiere. Tuttavia, un ultimo pensiero mi conviene e, concludendo, pongo le dovute riflessioni. Quale artista non ha mai guardato alla propria “opera d’arte” come una prova protesa verso l’infinito? È, in fondo, un bisogno dell’animo umano quello di varcare i confini spazio-temporali alla ricerca di ciò che vive e non muore. Friedrich ha tentato, riuscendoci, di varcare quel confine e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi, più di ieri, la sua “mistica visionaria” è più viva che mai e continua a ispirare generazioni di talentuosi artisti e ad appassionare giovani studiosi.

E sarà pure una nota ironica la mia, ma a Friedrich guarda anche lo scrivente (un pessimo illustratore, direi), con risultati indiscutibilmente opinabili (che non sembra il caso di approfondire) quando, a tempo debito, mette mano al pennello per stendere l’ennesimo e giammai finito paesaggio marino, poi tempestivamente rimosso dal cavalletto e stipato in cantina assieme agli altri. E non se ne parla più!

Ma per concludere quest’incipit, che intende essere il nostro omaggio all’Arte friedrichiana (da pubblicare in più parti), credo non possa esserci occasione più propizia di oggi, 5 settembre, ovvero giorno che ricorda anche il compleanno della cara amica e collega nonché amministratrice, curatrice e autrice di Sul Parnaso, Emanuela Capodiferro, per riprendere l’attività narrativa sul blog dopo il mio, ahimè, lungo letargo biennale. A lei dedico questo nuovo, seppur concito, scritto, oltre alla ritrovata brama di raccontare per questa nostra creatura social, tanto voluta e tanto cullata in questi quattro anni di attività. Glielo devo, non trovate? Non altro per la pazienza e l’incoraggiamento disinteressatamente elargiti. E poi, ogni promessa è un debito! Dunque…

N.B. Vi diamo appuntamento con la parte seconda di questo nostro omaggio all’Arte di Friedrich, in cui si indagherà più dettagliatamente sulle opere più rappresentative dello stesso e sui rapporti tra queste e la pittura di Böcklin, Rothko  e i maestri surrealisti. Ovviamente con la promessa di non farvi attendere troppo a lungo, stavolta. Promesso!

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Omaggio a LARRY RIVERS ( New York, 17 Agosto 1923 – 14 AGOSTO 2002)

Oggi parliamo di un protagonista del XX secolo che ha operato tra l’Espressionismo Astratto e la Pop Art e che ben rappresenta l’artista della Grande Mela che si esprime con tutti i linguaggi e le tecniche possibili e immaginabili. Larry Rivers oltre a occuparsi di arte visiva è anche un musicista jazz, un regista e occasionalmente un attore.

Nasce nel Bronx da una famiglia di origini ebraiche, il suo nome è Yitzroch Loiza Grossberg, sceglie il più semplice Larry Rivers quando comincia a fare della musica una professione. Dal 1945 studia alla Hans Hoffman School (diretta da uno dei maestri dell’Espressionismo Astratto), il suo maestro è William Baziotes ma ha modo di conoscere Pollock e DeKooning. In ogni caso si avvicina da subito allo spirito della Pop Art, riproducendo oggetti della vita quotidiana.

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Brushed Camel, L. Rivers, litografia, 1978-1990

I suoi contatti, vivendo nei primi anni ’60 all’Hotel Chelsea di New York, sono di grande importanza, in particolare quelli con la cerchia di Andy Warhol e il rapporto con Yves Klein, principale esponente del Nouveau Réalisme. Uno dei tratti più caratteristici dell’opera di Rivers è quella di richiamare l’arte del passato affiancandola in modo “scandaloso” con il presente, anche quando si tratta di elementi banali e privi di valore. Un esempio del modo di procedere dell’artista è Dutch Master and cigars del 1963:

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Dutch Master and cigars, L. Rivers, olio su tela, Rivers fundation, New York, 1963

Accostare il grande capolavoro di Rembrandt e una confezione di sigari è il gesto tipico della Pop Art, quello di portare sullo stesso piano ciò che da sempre è stato separato, di mettere insieme serio e faceto, evidenziando tutte le contraddizioni del mondo contemporaneo.

Negli ultimi anni di attività ha dedicato maggiore attenzione alle sue origini ebraiche e al dramma della Shoah, in questo contesto ha realizzato alcune opere che ritraggono il nostro Primo Levi esposte da alcuni mesi al Castello di Gamba a Châtillon in Valle d’Aosta e fino al 23.09.2018. Le stesse sono normalmente presenti nella collezione della Pinacoteca Agnelli di Torino.

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Survivor, L. Rivers, 1986

Per ulteriori approfondimenti qui.

Invece se volete seguire un interessante documentario sul maestro vi consiglio questo video.

I volti dell’anima: omaggio a BARTOLOMEO CESI (Bologna, 16 agosto 1556 – 15 agosto 1629)

Bartolomeo Cesi, l’artista a cui dedichiamo oggi il post, è uno dei principali campioni dell’arte religiosa regolamentata dalla Controriforma, ossia dall’autorevole voce del Cardinale Paleotti che, con il Discorso intorno alle immagini sacre e profane, definisce  un nuovo canone per la pittura da cui siano bandite le tracce di nudo o di lascivia, in quanto le opere d’arte liturgiche sono mediatrici degli stessi contenuti religiosi e non devono distogliere il fedele dal pensiero cristiano.

Gli inizi del Cesi sono stati tuttavia più manieristici, accostabili alla leggerezza delle narrazioni ariostesche, accanto ai fratelli Carracci, con gli affreschi della Galleria di Palazzo Fava, decorata con le storie dell’Eneide.

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Enea trova il ramo d’oro, Bartolomeo Cesi, Palazzo Fava, Bologna, 1584-85 ca.

In seguito il suo stile si fa più sobrio e veristico, si accosta certamente all’Accademia dei Carracci e si fa influenzare dai dettami della Controriforma. Il nuovo stile è chiaramente espresso in uno dei pochi ritratti attribuibili all’artista bolognese, Il ritratto di giovane dama conservato nella Pinacoteca di Bologna, dove i tratti fisionomici non sono generici e i dettagli dell’acconciatura e dell’abito sono trattati con molta cura.

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Ritratto di giovane dama, B. CESI, olio su tela, ca. 1585, Pinacoteca Nazionale, Bologna

Gran parte delle opere di Bartolomeo Cesi sono inserite in contesti religiosi o in ogni caso elaborate in origine per essi. Eliminato ogni elemento decorativo che possa distogliere dalla riflessione devota, nelle sue opere emerge l’essenziale a favore della comprensibilità dell’opera che deve porgere il suo messaggio anche ai fedeli meno istruiti con la massima semplicità.

Il ciclo decorativo della Certosa di San Gerolamo offre un chiaro esempio del punto d’arrivo della pittura del Cesi.

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Crocifissione, pannello centrale, 1612-16, Certosa di San Girolamo, Bologna

Pittura che poggia su studi dettagliati dei particolari, su cromie tenui e un’accurato impiego di forme e linee che gli derivano dallo studio approfondito della pittura toscana dell’ultima parte del XVI secolo.

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Incarnazione di Maria Vergine in sant’Anna come Immacolata Concezione (particolare), olio su tela, 1593-95 ca.,  Pinacoteca Nazionale di Bologna

Per ulteriori approfondimenti è possibile partire da qui.

 

I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO AL GENIO DI MICHELANGELO MERISI detto il CARAVAGGIO

I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO AL GENIO DI MICHELANGELO MERISI detto il CARAVAGGIO (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, Grosseto, 18 luglio 1610), nell’anniversario della nascita.

“Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nell’apologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello e da Michelangelo, e persino nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto. Ma ciò che gli andava balenando era ormai non tanto il ‘rilievo dei corpi’ quanto la forma delle tenebre che li interrompono. Lì era il grumo drammatico della realtà più complessa ch’egli ora intravedeva dopo le calme specchiature dell’adolescenza. E la storia dei fatti sacri, di cui ora s’impadroniva, gli appariva come un seguito di drammi brevi e risolutivi la cui punta non può indugiarsi sulla durata sentimentale della trasparenza, anzi inevitabilmente s’investe del lampo abrupto della luce rivelante fra gli strappi inconoscibili dell’ombra. Uomini e santi, torturatori e martiri si sarebbero ora impigliati in quale tragico scherzo. Per restar fedele alla natura fisica del mondo, occorreva far sì che il calcolo dell’ombra apparisse come casuale, e non già causato dai corpi; esimendosi così dal riattribuire all’uomo l’antica funzione umanistica dirimente di eterno protagonista e signore del creato. Perciò il Caravaggio seguiva, e fu fatica di anni, a scrutare l’aspetto della luce e dell’ombra incidentali”.
(Roberto Longhi, “Caravaggio”, 1968)

MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO

I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO A HENRI-MARIE-RAYMOND DE TOULOUSE-LAUTREC

I VOLTI DELL’ANIMA: OMAGGIO A HENRI-MARIE-RAYMOND DE TOULOUSE-LAUTREC

(Albi, 24 novembre 1864 – Saint-André-du-Bois, 9 settembre 1901) nell’anniversario della morte.

“Ho cercato di esprimere il vero, non l’ideale. Forse è un errore, perché non so risparmiare i difetti, anzi mi diverto a scoprirli in divertenti caricature, a farli risaltare, a metterli in evidenza”.
(Henri de Toulouse-Lautrec)

HENRI TOULOUSE-LAUTREC