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Arlecchino all’Inferno

Arlecchino è probabilmente la maschera più rappresentativa del Carnevale, un simbolo ricco di sensi e anche di non sensi. Personaggio capace di incarnare numerosi vizi e qualche virtù, amato e rappresentato da molti artisti, in particolare da Picasso che lo ha dipinto in diverse occasioni e modalità. Oggi è associato all’idea di gioco, di allegria e spensieratezza, tuttavia le sue origini più remote richiamano scenari infernali da incubo. Un primo richiamo alle radici di questa figura è presente nell’Historia ecclesiastica di Orderico Vitale, autore di un imponente cronaca medievale in cui riporta la testimonianza di in monaco di Bonneval che afferma di aver incontrato la “gente di Hellequin”, una turba innumerevole di demoni e dannati, appartenenti ad ogni classe sociale e condotti da un gigante infernale di nome Hellequin. Il monaco riconosce diversi personaggi passati a miglior vita di recente e sottoposti ad un anticipo cruento delle pene infernali. La descrizione ricorda sicuramente le terrificanti visioni infernali che nel Medioevo si diffondono per dissuadere i credenti dalle cattive azioni e che sono state sicuramente utilizzate da Dante quale fonte per descrivere il suo Inferno. Infatti anche nella Divina Commedia compare il demone Alichino,

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DORE’, Il volo di Alichino – incisione

nel canto XXI della Cantica infernale, chiamato da Malacoda insieme ad altri a far da scorta a Dante e alla sua guida Virgilio, alla ricerca di un passaggio verso una nuova zona dell’Inferno. Se l’Alichino dantesco fa parte di un esercito di demoni buffoni, quello della cronaca di Orderico è a capo di un esercito di creature infernali che ricorda da vicino  sia il motivo della danza macabra che quello della caccia selvaggia (mito nordico legato all’attività di psicopompo del dio Odino).

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P. N. ARBO, Caccia selvaggia di Odino, 1872, Oslo

Possiamo tradurre entrambi i temi come la versione antica delle turbe di zombie, tanto presenti nell’immaginario cinematografico contemporaneo. Col tempo la turba infernale si è trasformata in scherzosa brigata, tuttavia il nostro Arlecchino conserva ancora una natura mossa dagli istinti bestiali (brama di cibo, di sesso) e la stessa maschera in origine riporta una sorta di bernoccolo che richiama forse le corna di un demone. Inoltre la veste decorata da rombi multicolore ricorda quella carica di lusinghe del re dell’Inferno.

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P. BRUEGEL, Lotta tra il Carnevale e la Quaresima, 1559, Vienna

Il Carnevale è una festa di origine pagane all’interno del quale la figura di Arlecchino si è andata delineando, forse anche con l’inconscia intenzione di esorcizzare il terrore della morte e delle immagini più macabre ad essa associate. Bruegel è uno dei più visionari artisti dell’arte del passato e in questa grottesca sfida tra Carnevale e Quaresima è impossibile non vedere un parallelo stringente con le immaginifiche e apocalittiche visioni infernali dello stesso artista.

Ritroviamo Arlecchino nell’arte francese, e se il diavolo è l’invincibile seduttore, la figura della Commedia dell’Arte non sembra essere da meno: lo sguardo smarrito di Colombina, nella pur idillica raffigurazione di Watteau, lo dimostra chiaramente.

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J.A., WATTEAU, Arlecchino e Colombina, 1716 ca. – Londra

Gli Arlecchini delle epoche più recenti sono invece maschere malinconiche o enigmatiche; ecco Cézanne che dipinge suo figlio nei panni di un Arlecchino austero, passaggio verso una sempre più cristallina figurazione astratta giocata su toni rossi e blu, cupi e densi, secondo schemi geometrici attentamente elaborati.

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P. CEZANNE, Harlequin, 1888 ca., Pola

Indubbiamente Picasso dedica ad Arlecchino maggiore attenzione rispetto a qualsiasi altro artista, facendone un soggetto speciale e privilegiato. Nel periodo rosa dipinge un piccolo Arlecchino con acrobata: gli sguardi divergenti dei due personaggi guardano lontano e in opposte direzioni, l’artista sceglie tonalità più tiepide e varie, lasciando il monocromatismo del periodo precedente. Sono gli anni in cui il grande pittore andaluso si “accontenta di vedere le cose come le vedono gli altri”, disse Gertrude Stein, descrivendo le opere che preludono alla svolta cubista.

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P. PICASSO, Acrobata e giovane Arlecchino, 1905, Barnes Foundation, Lower Merion, PA, US

Nel 1924 usa il soggetto in una composizione cubista, piena di ritmo e di colore e indubbiamente molto musicale…infatti oltre alle losanghe del costume di Arlecchino, riconosciamo anche la chitarra, altro ospite amatissimo della pittura di Picasso.

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P. PICASSO, Arlecchino musicista, 1924, Washington, National Gallery of Art

Il soggetto della Commedia dell’Arte è ripreso in numerose altre opere, in esso Picasso rispecchia la contraddizione esistenziale dell’uomo che appare in un modo ma è intimamente qualcos’altro; per questo la scelta di Arlecchino, personaggio da commedia, maschera polivalente, indossata da fanciulli e giovani uomini tristi ma mai stanchi di pensare.

L’ultima visione di questo post è quella di un altro grande artista spagnolo, Juan Mirò: il Carnevale di Arlecchino. Opera surrealista, che esplora la dimensione del sogno, realizzata attraverso automatismi psichici, ossia con un trasferimento diretto e non ragionato nelle forme simboliche visive così come l’inconscio suggerisce. Tra l’opera di Mirò e quella di Bruegel c’è indubbia affinità: uso libero della fantasia, giocosa disposizione di simboli e figure enigmatiche, scelta di evadere verso la dimensione del sogno…o dell’incubo.

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J. MIRO’, Il Carnevale di Arlecchino, 1925, Albright-Knox Art Gallery di Buffalo 

 

In una selva oscura

Dante non è solo un grandissimo autore della letteratura di tutti i tempi, è anche il reale protagonista della Divina Commedia, il personaggio-poeta che ascende dalla perdizione della selva oscura alle visioni di incomparabile beatitudine del Paradiso. Come personaggio narrativo Dante è stato largamente “raccontato” anche in numerose opere d’arte visuale. Vogliamo provare a ricordare alcune versioni e tematiche rappresentate nel tempo a cominciare dalla descrizione delle tre bestie che ostacolano il cammino del nostro Dante nella selva oscura.

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. 

Inferno, I, 31-54

Siamo nel canto proemiale dell’Inferno, Dante è stanco e provato dai tentativi di ritrovare la strada per uscire dalla selva che rappresenta allegoricamente il luogo del peccato. La notte è al termine, il poeta è rincuorato nel vedere il colle verso cui si è incamminato che comincia a illuminarsi dei primi raggi del Sole, la speranza della salvezza però viene ricacciata indietro dalla paurosa vista di tre mostruose belve: una lonza, un leone e una lupa.

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SANDRO BOTTICELLI, Le tre bestie, 1480 ca.

Tra i primi artisti che hanno illustrato un’edizione a stampa della Divina Commedia vi è Sandro Botticelli. Le prime immagini che si affacciano alla memoria sono le ineffabili immagini muliebri della Primavera e della Nascita di Venere; la loro idealizzazione assoluta, il loro essere creature perfette e appartenenti al mondo delle idee neoplatoniche, oscurano aspetti dell’arte botticelliana di eguale importanza.

Divisa tra i Musei Vaticani e i Musei statali di Berlino abbiamo un’ampia collezione grafica da cui emerge un Botticelli dalla linea espressiva incisiva, capace di narrare il testo dantesco attraverso una tecnica che prelude a quella dei moderni fumetti. Nella stessa illustrazione Dante appare prima immerso nell’intricata selva, poi incontra le diverse bestie esprimendo con il gesto delle braccia vari gradi di paura fino alla fuga disperata dalla lupa che lo sospinge nuovamente verso la selva e verso la sua guida attraverso l’Inferno: il savio Virgilio.

Il delicato maestro fiorentino riprende la modalità illustrativa dalle miniature medievali ma le modalità espressive sono moderne, il tratto descrive con cura le emozioni del poeta dapprima pensoso e afflitto poi sempre più terrorizzato. Inoltre, nelle miniature precedenti non è presente l’attenzione al dato naturale, nel disegno di Botticelli invece sono chiaramente riconoscibili le essenze arboree che costituiscono la fitta foresta e le bestie sono tracciate con notevole naturalismo, distinguibili tra loro e delineate secondo l’indiscutibile conoscenza delle loro fattezze reali. La lupa poteva infatti essere nota ma difficilmente era possibile osservare leoni o ghepardi se non tramite opere di altri autori o in occasione di qualche esposizione di animali esotici come accadeva alla corte di qualche signore dell’epoca. Tuttavia un artista medievale non si sarebbe preoccupato di rendere il dato reale come invece era normale per un artista del Rinascimento.

L’opera di Dante è una delle più lette non solo in Toscana e negli stati presenti nella penisola italica, nella seconda metà del Cinquecento Jan van der Straet, artista formatosi in area fiamminga, opera a Firenze al servizio della famiglia Medici e realizza una cospicua serie di illustrazioni della Divina Commedia.

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J. VAN DER STRAET, Le tre bestie

In quella relativa all’incontro con le tre bestie abbiamo una buona ricostruzione dell’ambiente così come emerge dalla descrizione del poeta che dice di trovarsi tra la selva avvolta dalle tenebre e il colle illuminato dai primi raggi dell’alba. Il chiaroscuro nei toni delle terre e le lumeggiature creano un gioco di volumi maggiore rispetto alla scelta bidimensionale di Botticelli, ma la scelta dell’artista di Bruges è comunque orientata verso un’immagine meno drammatica e meno attenta al dato naturalistico per quanto sia comunque possibile distinguere le bestie tra loro.

W. BLAKE, Dante fugge dalle tre bestie, 1824-27

L’attenzione all’opera di Dante è molto presente nella cultura anglosassone, soprattutto a partire dal XVIII secolo, quando, seguendo i consigli di John Locke, molti gentiluomini si avvicinano alla cultura italiana, spesso in modo diretto ma ancora più spesso seguendo indicazioni autorevoli come quelle di Richardson che ponevano l’opera di Dante ai vertici dell’ingegno creativo italico, al pari solo di Michelangelo per le arti visive.

Un esempio di notevole originalità è quello di William Blake, tra i più evocativi e singolari artisti del Romanticismo. Egli considerava Michelangelo l’artista supremo e probabilmente l’idea di illustrare alcuni episodi del poema dantesco gli venne proprio dallo studio del grande artista della stagione rinascimentale. Certo nelle sue rappresentazioni della Divina Commedia c’è molto di più, le bestie, nel caso in esame, non sono solo simboli del peccato, sono antropomorfiche, hanno occhi grandi che sembrano pozzi sull’Inferno ormai vicino, e sono uomini privi però di umanità, similmente a quanto accade nel Nabucodonosor ma ad uno stadio più avanzato.

W. BLAKE, Nabucodonosor, 1795

Blake lavorò alle incisioni per la Divina Commedia negli ultimi anni, ebbe modo di terminare solo sette incisioni ma lasciò un centinaio di disegni, molti completati con acquerelli dai colori vibranti e con una tecnica originalissima. Del resto anche i suoi metodi di incisione restano avvolti nel mistero, lo stesso artista affermava di aver avuto una rivelazione a tal proposito dal fratello morto. In ogni caso egli univa alle immagini la parte testuale e ritoccava a mano tutte le stampe, usava pigmenti molto densi realizzati con una base di colla per falegnami con risultati obiettivamente molto particolari.

Centrale nell’opera di Blake, e in generale nel suo pensiero, è una vera e propria lotta contro la ragione che egli identifica in una sorta di demone, Urizen, e le bestie della rappresentazione in oggetto ne sono in un certo senso l’emanazione, perchè Blake, poeta oltre che pittore, vede in Dante un proprio fratello, un proprio omologo intento a fuggire i vizi e le passioni che lo allontanano dalla dimensione creativa dell’innocenza.

Le bestie-simbolo compaiono anche in una seconda illustrazione: quella relativa al secondo Canto dell’Inferno e alla missione di Virgilio.

W. BLAKE, La missione di Virgilio, 1824-27

Immagine sicuramente più complessa e visionaria della precedente in cui Blake tenta di rappresentare tutti i contenuti del canto, nel modo più ampio possibile. La straordinaria ricchezza di dettagli e colori, così come l’innegabile attenzione alla composizione, fanno di questo pezzo, anche osservandolo da un punto di vista informale, uno dei più suggestivi da vedere in tutta la serie. Le bestie, così concrete e materiche nella prima illustrazione, quì si confondono con la vegetazione e non incutono più timore a Dante pronto a seguire Virgilio nella sua missione di conoscenza e ascesi.

J-B. C. COROT, Dante e Virgilio, 1859

E’ stupefacente constatare come anche un artista della stagione del Naturalismo, quale Corot, osservi con attenzione il poema dantesco e ne tragga ispirazione per un’opera da presentare al Salon del 1859. Le belve si fanno più naturalistiche che mai, ma vi è anche un’acuta espressione dei sentimenti e delle emozioni: lo sguardo terrorizzato di Dante, il suo ritrarsi e il gesto eloquente di Virgilio, che qui veste come un patrizio dell’Antica Roma ed è coronato dell’alloro poetico. L’ombra dell’autore dell’Eneide rappresenta la sapienza umana, quella che permetterà a Dante di attraversare l’Inferno, riconoscere i propri peccati ed espiarli successivamente superando infine la vetta del Purgatorio, luogo dove la ragione non è più sufficiente e occorre una nuova guida: Beatrice.

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G. DORE’, La lupa, 1860

Il più grande narratore della Divina Commedia resta tuttavia Gustave Doré. Le sue incisioni accompagnano il poema ad ogni passaggio e difficilmente potremmo immaginare un corredo illustrativo migliore. La resa della selva è magnifica, la vegetazione è intricata e pericolosamente avvolgente, il tratto si adegua alla materia da rappresentare e lo spirito narrativo trasforma il poema in un romanzo, adattondolo al gusto del XIX secolo.

G. DORE’, Il Leone

 Il leone di Doré non potrebbe essere più superbo, con la sua folta criniera e il suo essere collocato in alto, tra rocce e rovi, mentre fronteggia Dante mesto nella sua paura, incorniciato dalle radici spettrali degli alberi.

La lupa nell’immagine precedente è invece magra come nella descrizione della Divina Commedia e bramosa di divorare ogni bene, simbolo dell’avidità da cui scaturiscono tutti i mali. Ed infatti il poeta non può difendersi da essa, perde ogni speranza e solo l’intervento di Virgilio gli restituisce fiducia. La speranza è qui simboleggiata dalla luce dell’alba che si intravede oltre la selva. Ma come sappiamo altro è il viaggio che Dante deve ancora compiere in compagnia di Virgilio e l’entrata dell’Inferno non può che essere nell’angolo più cupo della foresta.

G. DORE’, Virgilio e Dante nella selva

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Beata Beatrix”
    – Anno: 1863-70 ca.
    – Tecnica e dimensioni: olio su tela, 88,4 x 66 cm.
    – Luogo di ubicazione: Londra, Tate Britain Gallery
    – Donato nel 1889 dalla baronessa Georgiana Mount Temple in memoria del marito, il barone Francis Mount Temple.

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Oltre la spera che più larga gira,
passa ‘l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur sù lo tira.
Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore,
e luce sì che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ‘l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ‘ntendo ben, donne mie care.
Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui «qui est per omnia secula benedictus».
(Dante Alighieri, Vita Nova, XLIII canto)

I versi con i quali il “Sommo Poeta” chiude il celeberrimo manoscritto dedicato all’amata Beatrice Portinari sono la diretta e primaria fonte dell’opera pittorica presa in esame, probabilmente, la più carica d’intenso lirismo dal profondo carattere evocativo dell’intero corpus figurativo di Dante Gabriel Rossetti, fondatore della Confraternita dei Preraffaelliti.

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Della mostra torinese “Preraffaelliti, l’utopia della bellezza”, curata da Alison Smith e allestita negli spazi rimodernati di Palazzo Chiablese (18 aprile – 14 luglio 2014. Catalogo della Mostra realizzato da 24 ORE Cultura) e, nello specifico, dell’ “Ophelia” di John Everett Millais, si ebbe occasione di parlarvi QUI.
Visto l’indiscutibile charme esercitato dalle creature nate dal pennello del gruppo inglese, non è mai semplice come mandar giù un bicchier d’acqua compiere una cernita e selezionarne “una” tra le tante. Specie per me, “eterno indeciso” dal cuore d’asino, che a furia dei soliti «Non saprei, temporeggio ancora!!»… la vita mia, ormai, divien vetusta, altro che “nova!”. “Adesso mi metto pure a fare le rime!! Lascia perdere, che è meglio!”.
Tuttavia, a seguito di crogiolarmi nell’andirivieni cerebrale lungo 48 ore, sono felicemente giunto a conclusione certa… O no!!! “Cerchiamo di quagliare, mò!!”.
L’olio su tela dal titolo “Beata Beatrix” assume una duplice valenza simbolica agli occhi del suo autore per via della sovente, e fortemente voluta da questi, identificazione della moglie, Elisabeth Eleanor Siddall (Londra, 25 luglio 1829 – Londra, 11 febbraio 1862) – passata alla storia con il diminutivo Lizzy o Lizzie: modella, poetessa, pittrice e, dal 1860 al 1862, moglie di Dante Gabriel Rossetti – con la Beatrice Portinari di dantesca memoria. Tale parallelismo, meramente intellettuale, fu elaborato da Gabriel Rossetti a partire dagli Cinquanta dell’Ottocento in seno alla produzione ad acquerello su carta di temi neo-medievali danteschi e cavallereschi, oltre che shakesperiani, ove i toni liricamente melodrammatici ne costituiscono l’eloquente cifra stilistica.
Le atmosfere immaginifiche di questi lavori sono dominate da alte, pallide e snelle eroine i cui tratti fisionomici rievocano la figura tormentata e malinconica di Lizzie, indimenticata musa ispiratrice del pittore. È il caso di due squisiti acquerelli della Tate Britain Gallery di Londra: “La visione di Dante: Rachele e Lia” (1855) e “Il sogno di Dante alla morte di Beatrice” (1856), quest’ultimo riprodotto con alcune varianti anche su tela per commessa del pittore e critico William Graham Robertson – il lavoro, ultimato nel 1871, risultò di dimensione triplicate rispetto alle richieste del committente, motivo per il quale finì per essere acquistato dal National Museums di Liverpool – e rappresenta il dipinto di maggior formato mai realizzato da Rossetti nella sua lunga carriera. In una scena lacrimevole, ispirata al sogno del poeta della Vita Nova (tradotta in inglese da Rossetti alla fine degli anni Quaranta), Cupìdo alato, riconoscibile dall’arco e frecce, è presentato sotto forma angeliche nell’atto di baciare sulla fronte la defunta Beatrice, afferrando contemporaneamente la mano di Dante.

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Prima di tornare alla “Beata Beatrix”, conviene, per maggior chiarezza, aprire una breve parentesi sulla produzione ad acquerello dell’artista.
Rossetti fu l’unico della Confraternita a ripudiare (per pochi anni, s’intenda) la pittura a olio in seguito alla prima fase sperimentale degli anni Cinquanta, preferendovi l’acquerello su carta per la più spedita tecnica esecutiva adatta alla minor scala, nonché per la sua attività di scrittore e poeta, poiché il supporto cartaceo favoriva una lettura più attenta ai dettagli di matrice simbolica, quasi fossero una forma poetica trasposta in pittura, con l’impiego di raffinati motivi decorativi e vibranti colori prismatici ispirati ai codici miniati di età medievale, tanto amati dal pittore. La tecnica di questi lavori è arricchita dalle soluzioni di gomme e vernici al fine d’intensificarne i toni e modificarne le proprietà acquose dovute all’acquerello. I restauri hanno dimostrato che Rossetti applicava i colori in modo apparentemente illogico, stendendo sulla carta prima il colore asciutto e successivamente vi costruiva le forme con sottili pennellate, ricreando i neutri bianchi attraverso il ricorso a modalità diverse, quali la raschiatura e il bianco piombo. Quest’ultimo ha subito un processo di sbiadimento per effetto degli agenti atmosferici inquinanti da combustione di carbone, compromettendo, in tal modo, il ruolo originario del bianco di accentuare i cangianti schemi cromatici della composizione. I restauri, ancora, hanno dimostrato come Rossetti, rispetto ai suoi “confratelli” come William Holman Hunt ed Edward Burne-Jones, prestasse minor cura alla stabilità cromatica, prediligendovi, piuttosto, la brillantezza immediata.
Ancora i restauri degli acquerelli avvalorano la tesi che Rossetti non fosse neppure un artigiano meticoloso quanto i colleghi, essendo più incline all’idea ispiratrice del soggetto che alle meccaniche dell’esecuzione. Non di rado, l’artista integrava il supporto cartaceo con strisce supplementari dello stesso materiale lungo i bordi non appena la composizione si fosse spinta oltre i margini consentiti del formato. Quest’ultimo aspetto della prassi metodologia accompagnerà l’artista anche dopo gli anni Cinquanta dell’Ottocento e il trionfale ritorno alla monumentalità delle scene eseguita a olio su tela.
Non stupisce, quindi, che proprio “Beata Beatrix” comprenda ben sei parti supplementari in tela integrate al supporto originario al fine di creare lo spazio necessario intorno alle mani della donna e alla profondità del fondale. A ciò, si sommino le lacune nello strato preparatorio bianco, nonché i residui di materiali di bottega e i peli di pennello intrappolati nella pellicola pittorica.
Gli aspetti succitati divennero oggetto di pesanti critiche da parte di colleghi, e lo stesso Holman Hunt, nonostante le affinità artistiche con Rossetti, non esitò a criticarne l’infelice prassi metodologica, affermando che l’amico «alla fin fine era solo un dilettante» , sminuendo, in definitiva, le qualità tecniche.
Non meno violento fu l’affondo dello stesso William Graham Robertson (il committente del “Il sogno di Dante alla morte di Beatrice” del 1871, oggi al National Museums di Liverpool), il quale nelle sue memorie del 1931 dal titolo Time Was, descrive le qualità tecniche“dilettantesche” di Rossetti, ricordandone l’orrore provato a una mostra al cospetto di un suo dipinto (non specificato) dal «disegno distorto» e dalla «pittura tormentata, come imbrattata». Eppure Robertson prosegue ammettendo come l’immagine, in fondo, lo avesse profondamente ossessinato per la sua intima bellezza, concludendo che l’essenza di un’opera risiede nella sua idea anziché nella resa finale.
A tal proposito, interviene Alison Smith, affermando che Rossetti differisce dai colleghi Preraffaelliti: «perché usava il colore e la consistenza dei suoi dipinti come mezzo per distogliere l’attenzione dall’osservatore da qualsiasi presunto mondo esterno; il colore, la linea e il motivo erano invece usati per evocare la tattilità e il suono in una sorta di sinestesia, quasi l’artista si rivolgesse direttamente alla fantasia uditiva dell’osservatore».
Chiusa questa breve parentesi, torniamo a “Beata Beatrix”.

L’iconografia dell’opera è incentrata sulla figura di Beatrice Portinari a cui Rossetti ha intenzionalmente voluto dare i delicati tratti fisionomici della sua compianta Lizzie, morta suicida l’11 febbraio del 1862 a soli 32 anni per overdose di laudano (un sedativo medico, usato sovente come sostanza stupefacente, estratta dal papavero da oppio (conosciuto come Papaver somniferum, appartenente alla famiglia Papaveraceae), di cui la donna faceva, pare, abuso, minandone la cagionevole salute, seriamente compromessa dopo la bronchite causata a seguito deella sfortunata seduta di posa per l’ “Ophelia” di Millais, di cui si è, già, parlato nel precedente articolo.

L’iconologia del soggetto fu illustrata dallo stesso artista, il quale ribadì come “Beata Beatrix” non fosse una diretta trasposizione figurativa del poema dantesco, quanto la sua complessa interpretazione: «Il quadro, naturalmente, non deve essere considerato una rappresentazione dell’evento della morte di Beatrice, bensì un’idealizzazione del soggetto, simboleggiata da una stato di trance o di improvvisa trasfigurazione spirituale. Beatrice, palesemente assorta in una visione celeste, scorge gli occhi chiusi (come dice Dante in conclusione della Vita Nuova) ‘colui qui est per ominia soecula benedictus’». (Lettera a William Graham Robertson, 11 marzo 1873).
Rossetti, dunque, trasfigura l’opera in un’allegoria amorosa dei sensi e dello spirito per mezzo della rievocazione del XLIII canto della Vita Nova e traccia, a tal fine, un preciso parallelismo tra sé e Dante, identificando il tormento vissuto per la dipartita dell’amata moglie Lizzie con il sentimento lirico cantato dal poeta per la morte di Beatrice.
Il carattere trascendente della scena si materializza in una visione onirica ove l’atmosfera rarefatta dalla vibrazione cromatica nonché dall’indeterminatezza dei volumi si traducono in una dimensione angelicamente sospesa e melanconica, dolcemente rischiarata dalla calda e carezzole luce dorata, come infinitesime particelle del pulviscolo atmosferico.
La donna, dalla lunga chima rossa lucente, siede di scorcio al centro della scena in una posa intrisa di carica erotica, le cui morbide labbra dischiuse e le palpebre serrate sono gli indicatori dell’abbandono del corpo nell’estasi mistica, amplificata dal sentito ricorso a particolari simbolici.
Il livido incarnato del volto segna l’imminente trapasso di Beatrice, le cui mani, ripiegate a conchiglia, attendono di accogliere entro il proprio grembo un papavero bianco da oppio portatole, in becco, da una colomba aureolata – esplicita allusione simbolica allo Spirito Santo – tuttavia, anziché bianca come tradizionalmente indicato nei sacri testi biblici, è di un rosso splendente, quale simbolo di passione amorosa, non ultimo di morte. Le intenzioni sono confermate dallo stesso Rossetti: «un uccello splendente, messaggero di morte, lascia cadere un papavero bianco sulle sue mani aperte». (Lettera a William Graham Robertson, cit.).
Secondo la critica, la scelta del pittore di adottare sia la colomba che il papavero bianco non sarebbe casuale, bensì voluta e assumerebbe i connotati di una diretta allusione alla morte della moglie Lizzie , soprannominata dal marito “The Dove” (la Colomba), e tragicamente deceduta, come succitato, per abuso di laudano, ricavato dal papavero da oppio, una cui varietà bianca con petali macchiati, simile a quello riprodotto da Rossetti, cresce selvatica proprio in alcuna zone dell’ Inghilterra. Ma gli effetti di apparente sollievo dovuti alla somministrazione dello stupefacente lattiginoso si tingono di puro inganno, di ennesima illusione, di vuoto esistenziale, oltre i quali non può esservi alcuna salvezza se non attraverso la soglia della tormentata contorsione dell’essere fino all’ultimo fremito di vita.
Il critico d’arte inglese e amico di Rossetti, Frederic George Stephens, sostenne come anche i colori grigio e verde dell’abito della donna siano stati impiegati in funzione simbolica, alludendo alla speranza e alla vita, il verde; al dolore sepolcrale, dunque alla morte, il grigio.
Alle spalle di Beatrice si scorge un muretto in blocchi lisci isodomi alla destra del cui piano è posta una meridiana indicante il numero 9, dal potere fortemente evocativo relativamente alla sfera dei ricordi danteschi. Esso, infatti, allude, come spiegò Rossetti, all’età e al decesso della Portinari: «La incontra all’età di nove anni, muore alle nove del 9 giugno 1290» (Lettera a Ellen Heaton, 19 maggio 1863).
Ma le associzioni implicano indirettamente altre sottili sfumature, poiché il numero 9 è multiplo di 3: numero perfetto per antonomasia, poiché simbolo del Dio Uno e Trino associato alla perfezione del Creato e all’Opera Salvifica Cristologica, nonché schema metrico delle terzine dei canti della Divina Commedia. Al di là del muretto l’attenzione si focalizza su due figure vestite di rosso, quella di sinistra, di verde, quella di destra: «Dante in persona […] fissa lo sguardo sulla figura di Amore, sul lato opposto del quadro, nella cui mano la vita della sua donna tremola e si affievolisce come un’esangue fiammella» (Lettera a William Graham Robertson, cit).
Grazie alle numerose versioni del medesimo soggetto eseguite dallo stesso Rossetti (oltre che da seguaci), è possibile comprendere le masse volumetriche che si ergono dietro Amore (Cupìdo) e Dante, poco leggibili nella versione indagata per via dei loro profili indefiniti. Uno scenario campestre di gusto medievale, con la presenza di un pozzo dietro la sagoma del poeta, incornicia la visione delle due figure nelle versione del 1869 di Harvard, del 1871-72 di Chicago, come pure nella copia di Murray del 1900-10 di Wilmington; mentre nella versione del 1877-82 custodita a Birminghan il fondale vegetale dietro Amore lascia spazio a un edificio archtettonico ecclesiastico, identificato dalla croce incisa sul paramento murario esterno.

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Lo sfondo è dominato dalla profondità spaziale che si dipana all’orizzonte verso il profilo orizzontale e arcuato di Ponte Vecchio a Firenze, città che lega idealmente il pittore al genio dantesco di cui si sentiva erede, incarnadone instancabilmente la figura.

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Come da manuale, anche la cornice è stata progettata dal pittore con iscrizioni allusive al XXIX canto della Vita Nova per mezzo della Lamentazione “Quomodo sedet Sola civitas” (“Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo”), con cui Dante vuole estendere il lutto per la morte di Beatrice a tutta la città toscana. E ai versi immediatamente successivi del medesimo canto si deve l’ideazione e il titolo del soggetto stesso del dipinto, poiché:

Io era nel proponimento ancora di questa canzone,
e compiuta n’avea questa soprascritta stanzia,
quando lo signore de la giustizia chiamòe
questa gentilissima a gloriare sotto la insegna
di quella regina benedetta virgo Maria,
lo cui nome fue in grandissima reverenzia
ne le parole di questa Beatrice beata”. (Vita Nova, XXIX canto).
E, infine, persino i tondi della cornice alludono alla poetica dantesca, stavolta al finale della Commedia:
“l’amor che move il sole e l’altre stelle”. (Paradiso, XXXIII canto).

Come afferma lo storico Giuseppe Nifosì «Beatrice incarna un ideale di donna ben diverso dall’originale dantesco, ritroso e riservato. Creatura terrena e celeste insieme, spirituale e sensuale a un tempo, la Beatrice di Rossetti diventa l’icona della donna irresistibile e fatale, fortunatissimo soggetto dalla poetica simbolista di fine secolo». (Giuseppe Nifosì, Arte in Opera. Dal Naturalismo seicentesco all’Impressionismo, vol 4, Editori Laterza, 2015).

Un ultimo lirico canto d’amore, quello di Dante Gabriel Rossetti, alla sua musa, modella, compagna, emulando quel sentire stilnovista di languida poesia, ove nell’amorosa visione, perché “mirabile”, il canto di lode è per la sola amata “beatitudine”, seppur nell’intimo addio:

“O amore, mio amore…Dovessi io non più vedere
Te o neanche, in terra, l’ombra di te,
né il riflesseo dei tuoi occhi in una fonte,
come suonerebbe – per l’oscuro pendio della vita –
il turbinio delle perse foglie di Speranza,
l’aliare dell’imperitura ala di Morte?

(Dante Gabriel Rossetti, Amorosa visione)

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