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LA BELLEZZA DEL CORAGGIO

LA BELLEZZA DEL CORAGGIO

d Filippo Musumeci

Mezzanotte alle porte, ove il dì muore e l’altro scorre.
Entro mute pareti di quartiere il cadenzato vissuto retablo,
in cuor suo, fiacco di gesti vani e pensieri oziati.
Desìo del segno copioso, che scuoti il nervo con tratto distorto
e di razzia sia dell’arcigna viltà invitta.
Tempo malsano, spazio svuotato, bieco disincanto.
Ove febbrile danza di fecondi sguardi,
di acuti interscambi, di folgori illuminanti? (Filippo Musumeci)

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A te il mio pensiero, caro Oscar, nel fitto blu di questa notte, rischiarato solo a tratti dall’artificio delle urbane luci, tra alternati cigolii motori incisi sull’asfalto da ignote viventi figure. Un sibilo e un altro ancora… poi, il silenzio, presto spezzato. Quella morsa al petto ti opprime e non l’arresti; sadica ti sfida e sadica s’imprime, ora, mentre tace il domestico focolare.
A te il mio De Profundis con le medesime tue parole, poiché «la sofferenza (per quanto ciò ti possa apparire strano) è ciò che ci tiene in vita, poiché essa è l’unico modo che abbiamo per avvertire la vita». E per avvertire codesta vita rimetti ogni dovuta speranza, ogni labile ambizione, nelle mani di altri simili che il caso o fato ha posto guardingo al tuo cospetto, pronti, loro, a edificare l’irrevocabile giudizio sul tuo operato che non puoi declinare, che non puoi ignorare.
Da qui la mossa con cui ti giochi la tua credibilità. Tre soli imperativi: convincere, emozionare, stupire. Costi quel che costi, perché tu stesso m’insegni che «esistono due modi per non apprezzare l’arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell’apprezzarla con razionalità.»
Bernard Berenson era lapidario: «credo che un vero amore per l’arte sia un dono, quanto il crearla; e può anche essere che entrambi scaturiscano dalla stessa sorgente.»
Sagge parole! Ma se del dono si è privi (e non di rado) la sorgente ne risulta arida e spetta a chi di dovere alimentarla con nuova enfasi e nuova esperienza.
Ricordi quando dicesti che «Respingere le proprie esperienze significa arrestare il proprio sviluppo. Rinnegare le proprie esperienze significa mettere una menzogna sulle labbra della propria vita»?
E di tale esperienza il tuo fantasma assiso mi dice di far tesoro senza “ma” e senza “se”, seppur dei miei limiti non faccio mistero.
Medita studente, medita!! Perché la nostra epoca è fuggente quanto vana; predica bene e razzola male; propina stereotipi effimeri, come effimeri gli effetti che ne verranno.
L’amico Oscar continua a ripetermi imperterrito che «le cose sono nella loro essernza quel che noi vogliamo fare di esse. Quel che una cosa è dipende dal modo in cui la guardiamo». Ed io voglio guardare ancora a questa bellezza che di me fa una persona migliore; voglio ancora ardere nei piaceri dell’arte, sentirne l’odore e assoporarne il sapore insaziabilmente. Di questo coraggio morale ho bisogno. Ma ciò «potrà avvenire solo se lo accetterò come parte inevitabile dell’evoluzione della mia vita e del mio carattere».
Su questo punto siamo d’accordo, caro Oscar. È coraggio, infatti, quello di briosi studenti, come molti incontrati, che dalla massa conforme cercano fuga e forgiano l’alternativa solida e lungimirante, poiché essa è possibile ancora!
Al dì, coloro compiono il passo cadenzato varcando la soglia di un fabbricato che dell’usura del tempo porta in sé segni evidenti, ma, da questi, vissuto come scrigno del sapere e giammai come penitenziario. Muniti d’intriso garbo non arretrano e sfidano la prova, come molti, più degli altri. Allievi poco lenti e tanto rock, con un sorriso così: di quelli che ti stendono e che a raccimolarne i cocci di quell’uggioso umore che indossavi curvo all’alba, appena ridestatoti, si fa fatica, poi, rimodellare.
Il loro è coraggio morale! Quello delle grandi occasioni; da aggiudicarsene il lotto all’asta con tenace astuzia, poiché se n é compreso il vero valore, al di là d’ogni irragionevole dubbio. Il loro è l’esempio di una svolta possibile e concreta, purché sentita e vissuta senza remora alcuna. Di questa bellezza si ha disperato bisogno! Di queste opere viventi in controcorrente se ne sente la presenza al pari di un caldo e stretto abbraccio nella gelida superficialità – senza distinzioni d’età anagrafica – di sboccati eccessi, tutti in marcia alla conquista di “carni di bambola”.
Rimembro commosso le felici scelte di Sara, Noemi e Giulia (prossime e brillanti docenti di Storia dell’Arte); di Elisa, Nichol e Irene divise tra Architettura e Accademia. Rimembro altrettanto commosso Omar, Carlo Maria, Serena, Silvietta & Co., che pur avendo intrapreso altre strade non mancarono, anni or sono, di entusiasmarsi sinceramente in quel di Roma dinanzi alle eterne vestigia dell’Impero Romano e alla gloria della Renovatio urbe Romae condotta da Bramante, Raffaello, Michelangelo, Fontana e seguenti. Si sentirono spettatori delle scenografiche creazioni di Bernini, Borromini e Cortona; ed esterefatti rimasero, poi, al cospetto delle scene immortalate da quel genio che è l’altro amato Michelangelo… il Merisi da Caravaggio.
Onore a voi tutti, cari studenti, al vostro ardire, al vostro ardore, per cui ci si spende in pensieri e parole affinché tutto non fugga via e sia vano, ma evolutivo.
Onore per le “notti insonni” trascorse a capo chino su volumi corposi e ostici tra l’andirivieni di pesanti dolenti palpebre, mentre tutto fuori è chiassoso rumore, condannato a spegnersi senza sconto né alcun clamore.
Onore al vostro etico coraggio, che di Aristotele n è degno figlio quando questi chiosò che il singolo «temerà, dunque, anche le cose a misura d’uomo, ma vi farà fronte come si deve e come vuole la ragione, in vista del bello, perché questo è il fine della virtù».
Oscar sta per lasciare queste quattro mura e ritornare all’Olimpo dei “Superiori”, non prima, però, di regalarmi l’ennesimo sguardo e un ultimo saluto, che entrambi ricambio.
– A presto, amico mio! Ci si rivede, non dubitarne!! Sei ancora giovane, mentre io porto il fardello dei secoli già andati. Lord Henry non fu, certo, uno stinco di santo, lo sappiamo bene, e lo stesso Dorian ne pagò le conseguenze sulla propria pelle. Tuttavia disse anche cose sagge, come questa che ti lascio e che potresti rivolgere ai tuoi studenti: «Oggigiorno la gente ha paura di se stessa. Tutti hanno dimenticato quello che è il più alto di tutti i doveri, il dovere che abbiamo verso noi stessi».

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QUEL DISEGNO “PIU’ UNICO CHE RARO” DI ANTONELLO DA MESSINA

“GRUPPO DI DONNE SU UNA PIAZZA, CON ALTI CASAMENTI”
di
ANTONELLO DA MESSINA

di Filippo Musumeci

• DATAZIONE: metà anni settanta del ’400
• DATI IDENTIFICATIVI: disegno a pennello e inchiostro bruno su carta; acquarello bruno con tratti a stiletto e macchia di acquarello azzurro al centro. Timbro del Museo del Louvre (M L) sulla parte sinistra anteriore
• DIMENSIONI: cm 21,2 x 19,1 (bordi irregolari e lacune)
• PROVENIENZA: Inserito in un «album Borghese» acquistato nel 1983 dal Museo parigino del Louvre, il disegno appartenne precedentemente alla collezione veneziana Sagredo, per poi entrare a far parte di una collezione privata di Lione nella metà dell’Ottocento
• COLLOCAZIONE: Parigi, Museo del Louvre, département des Arts graphiques, inventario RF 39028
• ESPOSIZIONI: Roma, Scuderie del Quirinale 18 marzo – 25 giugno 2006

L’ormai storica mostra antologica di Antonello da Messina, curata da Mauro Lucco e allestita alle Scuderie del Quirinale di Roma dal 18 marzo al 25 giugno 2006 (Catalogo della mostra Silvana Editorale), ebbe il merito di assemblare in un unico corpus l’opera omnia del grande artista dal respiro europeo (attivo nell’arco cronologico 1455- 1479), offrendo a vistitori e studiosi la possibilità (e come mai prima di allora) di acquisire strumenti propedeutici per una esaustiva lettura della genesi estetica e intellettuale dei capolavori presenti, tra i quali particolare curiosità suscitò l’esposizione di quello che, allo stato attuale, risulta essere l’unico disegno preparatorio attribuito unanimemente dalla critica al genio messinese e noto col titolo di “Gruppo di donne su una piazza, con alti casamenti”.

ANTONELLO- DISEGNO

Si tratta, proprio per la sua eccezionalità, di un documento storico dal valore fortemente emblematico, quale unica testimonianza dell’attività grafica di Antonello.
Il pregevole foglio, dalla filigrana scarsamente diffusa in Italia, mostra un’attenta e minuziosa cura alle vibrazioni e rifrazioni luminose espresse mediante una tecnica dal tratto preciso e sottile a piccoli puntini resi con il pennello, particolarmente manifesti nelle ombreggiature chiaroscurali proiettate sulle costruzioni architettoniche dello sfondo, sulle vesti, sui visi, veli e drappeggi, magnificamente animati, delle dieci figure femminili poste di scorcio in primo piano ed impegnate in una conversazione cittadina dall’argomento ignoto.
Analoga cura viene, altresì, riservata alla realizzazione razionale della realtà attraverso l’applicazione del rigoroso impianto prospettico di matrice quattrocentesca, con la geometrica convergenza delle rette di profondità verso il punto di fuga centrale e il digradare delle grandezze con l’aumentare della distanza; mentre la costante tridimensionalità antonelliana, è finalizzata alla foggiatura dei volumi nello spazio.
La frammentarietà, soprattutto della parte sinistra, del supporto cartaceo non consente di accertare se nelle parti asportate vi fossero rappresentate altre figure umane o qualsiasi altro elemento in grado di facilitare l’identificazione del soggetto.

Fiorella Sricchia Santoro (1986) sostiene che le figure astanti dinanzi la lunga strada confluente nella porta ad arco dello sfondo con figura d’uomo e fiancheggiata da casamenti con terrazze e vasi sulle altane siano diretto preludio di una scena narrativa di ambientazione urbana per una predella di un polittico, o per un grande dipinto come il San Sebastiano (Dresda, Staatliche Kunstsammulungen, Gemäldegalerie Alte Meister, 1475-76 / 1478-79), la cui datazione renderebbe incompatibile il confronto tra il disegno in questione e la Crocifissione di Sibui (Romania, Muzeul National Brukenthal, fine anni sessanta del ’400) proposto nel 1953 da Roberto Longhi per le indiscutibili affinità con il disegno della collezione Robert Lehman del Metropolitan Museum of Art di New York ed inteso come studio preparatorio del maestro siciliano per le figure dei dolenti ai piedi della croce. Sempre la Sricchia Santoro sostiene che l’ipotesi di un legame tra lo schizzo parigino e il dipinto di Dresda non sia del tutto da scartare date le non poche somiglianze tra lo sfondo del primo e l’ambientazione cittadina del secondo, basti osservare la porta ad arco di spalle al santo martire e, in particolar modo, la medesima distribuzione nello spazio delle strutture architettoniche del lato sinistro.

Già nel 1984 Roseline Bacou, a cui si deve tra l’altro l’attribuzione ad Antonello ( tutt’oggi unanimemente condivisa), del disegno del Louvre, affermò che: «non si tratta delle figure di una Crocifissione ma di una straordinaria scena di vita quotidiana in un paesaggio urbano, con una resa prospettica di magistrale efficacia: d’altra parte l’innegabile qualità d’esecuzione e la composizione nel suo insieme permettono di avanzare l’ipotesi che il foglio Lehman sia uno studio di particolare, o una copia».

Resta ancora da capire se il disegno sopraccitato sia da ritenersi autonomo, o piuttosto uno schizzo utilizzabile come serbatoio di idee figurative nel momento più appropriato, ma gli elementi di cui dispone la critica non permettono di giungere a nessuna conclusione soddisfacente, in quanto non si possiede sufficiente conoscenza degli altri rarissimi disegni dell’artista e del ruolo che essi ricoprissero nella sua affollata bottega della città natale. La relazione tra figure e la distanza visiva in cui sono collocati fanno pensare che il foglio fosse stato concepito come studio di dettagli secondari, da porre nel fondo delle composizioni, ma anche in questo caso non vi è nulla di certo e neppure la mostra romana, nella sua forse irripetibile eccezionalità, risolve gli interrogativi sorti attorno all’Antonello disegnatore, il maestro del reale che raggiunge secondo la definizione di Mauro Lucco: «il massimo dell’analitico dentro il massimo del sintetico».

Magari, cari amici, se andaste al Louvre (e ve lo auguro vivamente!) potreste anche imbattervi nel disegno antonelliano e avere l’occasione di ammirare un esemplare unico… nel senso più profondo del termine. Non so quanto possa interessarvi, ma io l’ho fatto: quella volta a Roma e quell’altra al Louvre…e di questo ne sono felice!!

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BIBLIOGRAFIA

• Fiorella Sricchia Santoro, Antonello e l’Europa, Jaca Book, Milano, 1986.
• A. Petriali Tofani, S. Prosperi Valenti Rodinò, G. C. Sciolla (a cura di), Il disegno e le collezioni pubbliche italiane (I – II tomo), Silvana Editoriale, Milano, 1993.
• I Capolavori del disegno al Museo del Louvre e ai musei Nazionali di Parigi, opera diretta da Geneviéve Monnier, XV – XVI secolo, De Agostani, Novara, 1997.
• L’opera completa di Antonello da Messina, prefazione di Leonardo Sciascia, apparati critici e filologici di Gabriele Mandel, Rizzoli, Milano, 1999.
• Mauro Lucco (a cura di) Antonello da Messina, l’opera completa. Catalogo della mostra, Roma, Scuderie del Quirinale 18 marzo – 25 giugno 2006, Silvana Editoriale, Milano, 2006.

EDWARD HOPPER: QUEL CIAK CHE SA DI “QUADRO”

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Dei rapporti tra le opere di Edward Hopper e la “settima arte” – non necessariemente di matrice statunitense – s’indaga e discute, oggi più di ieri, in modo sistematico e, di volta in volta, con maggior respiro.
Per la critica italiana l’occasione ghiotta si concretizzò a monte della doppia e fortunata esposizione antologica hopperiana milanese (Palazzo Reale, 14 ottobre 2009 – 31 gennaio 2010) e romana (Fondazione Roma Museo, 16 febbraio – 13 giugno 2010).
Il ricordo della visita in quel di Milano è ancora lucidissimo e serbo soprattutto l’immagine delle ripetute ed estasiate soste dinanzi a Moning Sun (Sole del mattino, 1962; olio su tela. Columbus Museum of Art, Ohio) e Second Story Sunlight (Secondo piano al sole, 1960; olio su tela. Whitney Museum of American Art, New York).

 

Il catalogo della mostra Edward Hopper (a cura di Carter E. Foster. Skira editore), offrì preziosi spunti di riflessione per comprendere più dettagliatamente la produzione figurativa del pittore realista e il suo sguardo indagatore sulla società americana tra gli anni ’10 e ’60 del Novecento.
Tra i saggi proposti, quello di Goffredo Fofi, “Hopper e il cinema”, più di altri contribuisce a ricostruire le influenze largamente esercitate dall’artista sul processo creativo di celebri cineasti: Howard Hawks (The Big sleep), Billy Wilder (The lost weekend), Win Wenders (Non bussare alla mia porta, Paris e Texas), Jim Jamusch (Broken flowers), Todd Hayner (Far from Heaven), Michelangelo Antonioni (Deserto rosso e Il grido), Dario Argento (Deep Red), Brian De Palma (Gli intoccabili), John Huston (Il mistero del falco), Herbert Ross (Pennies from heaven), Woody Allen (Manhattan), Terrence Malick (Days of Heaven) e, non ultimo, Alfred Hitchcock (Psycho, La finestra sul cortile, Vertigo e Intrigo internazionale).

4  Sono questi i maggiori e dichiarati debitori dell’arte di Hopper: coloro che hanno volutamente ridipingere in pellicola le inquadrature paesaggistiche e gli scorci urbani immortalati dal pittore sulla tela. Tuttavia l’elenco è più nutrito di quanto si possa credere e non sarebbe difficile, attraverso un lavoro di confronto e fermo immagine, riscontrare rimandi visivi alle opere di Hopper, reinterpretate in singoli fotogrammi sin dagli anni ’40 del secolo scorso.
Ma questa non è la sede più specificatamente idonea per un’operazione così certosina. Qui, al più, si vuole attenzionare, senza pretesa alcuna, il palese e incontrovertibile rapporto tra due generi artistici, pittura e cinema, apparentemente diversi, ma profondamente affini.
Basti pensare ad alcune scene di Rear Window (1954) di Hitchcock, ove il “genio del brivido” scruta l’intimità (oggi diremmo la privacy) degli appartamenti dirimpettai del fotoreporter L.B. “Jeff” Jeffries servendosi proprio dell’occhio “esterno” di quest’ultimo e ricreando la stessa silente sensuale atmosfera contenuta negli innumerevoli interni metropolitani di Hopper, come Night Windows (1928), da cui il regista prende in prestito perfino il particolare del dorso inclinato dell’ignota donna in abito rosa del dipinto, ripetuto da miss Torse, la procace ballerina della pellicola.

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Anche Woody Allen rese omaggio al pittore in una scena di Manhattan (1979) in cui Isaac Davis e Mary Wilke, seduti di spalle su di una panchina di fronte all’East River, fissano l’orizzonte riprendendo lo scorcio prospettico di Queensborough Bridge (1913).

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Ancora, Billy Wilder cita la serie dedicata da Hopper agli “interni di caffè”, Automat (1927), Clop Suey (1929) e il celeberrimo Nightawks (1942), in più scene di The Lost weekend (1945) in cui Ray Milland – nel ruolo che nel 1946 gli valse l’oscar come miglior attore protagonista – , ormai schiacciato dall’alcolismo, vive l’epilogo tragico dei tanti “giorni perduti” occupando in solitaria i freddi tavoli dei locali newyorkesi, nella disperata ricerca di un precario appiglio per il quale archiviare una carriera costellata di insucessi letterari.
Sono dipinti, questi, che attraggono il nostro sguardo perché costruiti con diagonali che esaltano l’immobilità autoreferenziale dei personaggi e la loro realtà materica oltre il moltiplicarsi delle fonti luminose e i densi spessori volumetrici della città.

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Si è accennato a Nightawks (1942) con il bar Phillies, forse il più celebre dell’intera produzione pittorica hopperiana, ma indubbiamente il più “ridipinto” in celluloide nell’arco di oltre un sessantennio da maestri della cinepresa succitati e per il quale lo stesso pittore disse: «Inconsciamente, forse, ho dipinto la solitudine di una grande città».

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In una scena di The maltese falcon (Il mistero del falco 1941) di John Huston, Humphrey Bogart attente due loschi personaggi all’interno di un locale di San Francisco del tutto simile a quello creato da Hopper. Ma, al di là di questi espliciti adattamenti scenografici di location, basterebbe soffermarsi sulla coppia seduta al bancone del locale per scorgerne attinenze estetiche tra l’uomo col borsalino e sigaretta in mano e l’archetipa immagine costruita da Humphrey Bogart nelle sue storiche performance.

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Goffredo Fofi scrive nel suo, già, citato saggio che l’opera di Hopper è: «contenuta, controllata, apparentemente distante, fredda, attenta alle solitudini e non alle folle di una società in movimento, alle sue agitazioni scomposte e spesso frenetiche».
Sempre Fofi scrive: «Nell’opera di Hopper c’è un doppio movimento dell’occhio non – selvaggio, anzi educatissimo: quello che va da fuori il quadro a dentro, e il suo contrario. C’è l’occhio che guarda dall’esterno dentro le stanze, i bar, gli uffici, come da cinematrografiche gru o da carrelli immobilizzati al punto giusto, il punto geometrico che solo l’intuito del regista sa fissare (si vede il regista, dicevano i grandi registi hollywoodiani, da dove piazza la macchina da presa), ed è qui che l’occhio della macchina diventa quello dello spettatore».
Quindi l’occhio dell’artista è simile a quello di un regista o di un fotografo, in quanto è questi a fornire massimo valore al rapporto tra personaggi e ambiente, decidendone pose e atteggiamenti, l’intensità più adatta delle sue luci e la disposizione dei vari volumi nella scena.
Pittura paesaggistica, ma soprattutto metropolitana e marcatamente americana, quella di Hopper. Eppure, le sue storie si muovono su sfondi scenografici assolutamente privi di automobili e di folle vocianti, nonostante il crescente boom economico a stelle e strisce, in cui esterni e interni si compenetrano e si conseguono in un’unica indissolubile soluzione.
Gli scatti decisi dal pittore, infatti, sono dei “ciak” ove poche figure in pose composte, provvisorie e bloccate, guardano fuori dall’inquadratura verso ampie distese di praterie o ristretti scorci urbani, come fossero in pausa, in sosta o in perenne attesa. E quest’eterna attesa altro non è che “solitudine”: il male che non si debella, la condanna infertile del loro vissuto, quella che non porterà nulla di nuovo nelle loro esistenze e che lascerà tutto com’era e come dovrà essere.
Queste figure, a loro volte, sono osservate dallo spettatore con occhio attento e a “distanza”, oltre le vetrate, le finestre, le porte: figure che occupano strade e vie della metropoli; oppure gli interni di stanze d’albergo, caffè notturni, sale d’attesa, uffici,verande o semplicemente camere dei propri solitari appartamenti, delle proprie abitazioni, alla ricerca di un rifugio di pacifico silenzio.
Ed è la casa, intesa come dimora della “solitudine”, tra le scenografie più accuratamente indagate dal pennello di Hopper, come House by the Railboard (La casa sulla ferrovia, 1925: il primo dipinto dell’artista entrato nelle collezioni del Moma di New York), fonte d’ispirazione per Days of Heaven di Terrence Malick e Psycho di Hitchcock. In quest’ultimo, soprattutto, l’immagine della casa “vittoriana” come dimora della “solitudine” muta, piuttosto, in luogo di mistero e condanna ove si consuma il male abilmente architettato dallo psicopatico Norman Bates, soltanto sul finale svelato.

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Come ricorda la storica d’arte Orietta Rossi Pinelli, il quadro di Hopper ben di prestava al soggetto hitchcockiano per la collocazione solitaria e misteriosa; «unica presenza, ma neppure in primo piano; per quella possibilità di una vita all’interno che si presume solo da qualche persiana alzata; per quella sospensione del tempo che esclude ogni possibilità di azione».
Paradigma della pittura americana oggettivistica, House by the Railboard, in quanto segno della civiltà, ha caratteri antropomorfi, a cui sono contrapposti i binari della ferrovia, aventi la funzione di una linea d’orizzonte posta in primo piano. Secondo lo storico d’arte tedesco Ivo kranzfelder, «Hitchcock ha ripreso la tecnica di Hopper della visuale dal basso e dei piani inclinati nel film Psycho. […] Il dipinto ha l’effetto di un’istantanea presa da un treno in corsa, ma sono le stesse rotaie, sulle quali il treno dovrebbe muoversi, a scorrere nel quadro. Il movimento è congelato, esso non si attua nel dipinto, nella realtà dell’immagine».

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E dopo Hichcock è tutto un continuo remake di quella casa “vittoriana” dal carattere “gotico”, cioè sinistro, che sfocia fino a risultati più “commercialmente” intesi e di qualità opinabile, seppur di magnetica presa sugli amanti del genere horror e conseguenti facili guadagni al botteghino.

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Ma il mondo è bello perché vario e questa, per concludere, è fortunatamente un’altra storia!

Filippo Musumeci

L’INFINITO DI PIERO GUCCIONE.

L’INFINITO DI PIERO GUCCIONE

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di Filippo Musumeci

La notte è stata lunga; l’ansia ancor di più!
Ammetto senza indugi la logorante e combattuta indecisione circa il soggetto da proporre umilmente ai lettori per questo, in fin dei conti, primo articolo, quale avvio dell’inedita ed enfatica avventura concepita, empaticamente, con la mia cara “tanto vicina, tanto lontana” Amica (con la “Maiuscola”) e Collega (altrettanto “Maiuscola”) Emanuela.
E a lei sono debitore dell’idea e della forma. A lei sono debitore di questo mio risveglio mentale, ormai, decennale.
Mi scuso anticipatamente e sentitamente con i possibili lettori per la scelta del soggetto, per la forma, soprattutto, (alquanto primitiva) e per l’altrettanto possibile trasporto emotivo, qua e là, ingenuamente esternato. Ma prometto che limiterò ai minimi termini tali operazioni, concesse solo in via del tutto eccezione per questo mio primo scritto. Grazie!
Il motto “tempus fugit” è attualissimo! E aggiungerei che “mala tempora currunt atque peiora premunt” (sono tempi duri, ma ne arrivano di peggiori).
Coraggio, si trova sempre il codice umano personalissimo per uscirne fuori, eppure a testa alta.
Il mio? Non credo possa importarvi più di tanto! Ma confesso senza nessuna difficoltà e con la più totale trasparenza che l’Arte è il mio codice umano personalissimo, il mio riparo, la mia fuga, l’alfa e l’omega. E a tutti coloro che si ostinano impropriamente a ritenerla, oggi più che mai, indiscutibilmente inutile, rispondo semplicemente: «Mi sforzo di comprendere il vostro pensiero, ma riconosco i miei limiti in materia. Mi spiace profondamente…per voi!».
Il poeta libanese Gibran scriveva: «l’Arte è un passo dalla natura all’infinito». Quanta verità in questi pochi versi!
Presupponendo che esistano infiniti modi d’intedere “l’infinito” direttamente proporzionali alle singole sensibilità etiche, psico-figurative e cromatiche, “l’infinito” perseguito e mirabilmente raggiunto dal maestro vivente Piero Guccione (fondatore del, già, pluripremiato “Gruppo di Scicli”) sia, a mio dire, l’input di questo viaggio ancora in erba.
Per chi volesse ammirare i suoi lavori l’occasione di presenterà nella retrospettiva di Vicenza, Palazzo Chiericati, dal 14 marzo al 2 giugno 2015, dal titolo “Guccione. Storie della luna e del mare”, a cura di Marco Goldin.

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Conosciuto ai più, ignoto ad altri, Guccione è il cantore di quel lembo del sud-est insulare, dolcemente adagiato tra i carrubi della campagna iblea e la vibrante distesa azzurra del mare di Sampieri, nel ragusano. Quel mare, per chi è figlio come me della Sicilia, tanto sognato, tanto vissuto, tanto assaporato nella bonaccia d’agosto che sa di salsedine e di scirocco d’Africa. Un letto azzurro ove dimorare, naufragare e riemergere tra le brillante increspature argentee baciate dal sole e ritmate dal vento.
Le marine di Guccione, uniche nel loro genere (seppur solo uno dei molteplici aspetti indagati nella sua pittura), realizzate nell’arco di oltre un quarantennio sono il silente, seppur reinterpretato, riflesso romantico della poetica di Friedrich.
Come scriveva Guido Giuffré: «C’è romanticismo e romanticismo; quello incarnato dal grande tedesco, algido e inaccostabile quanto assorbente e ammaliatore, si direbbe lontano dal temperamento del pittore siciliano. Nel 1821 Friedrich aveva dipinto un quadretto, “Nuvole in cielo” assai simile nel soggetto e nelle dimensioni a uno “Studio di cielo e alberi” che Constable aveva a sua volta dipinto nel medesimo anno. L’inglese com’era sua abitudine annotava giorno, ora, direzione del vento, e guardando il piccolo dipinto, oggi al Victoria and Albert di Londra, se ne comprende la ragione; il tedesco non se ne curava, ma, se l’avesse fatto, il soggetto l’avrebbe ben tollerato, perché le nuvole sono riconoscibili, e così la loro altezza e l’orientamento; solo che Constable in tutto ciò si immergeva per impadronirsene, e questo era lo scopo della sua appassionata pittura. Lo scopo della pittura di Friedrich, nonostante l’accuratissimo inventario delle cose rappresentate (e anche per il modo di quella rappresentazione) era invece ben oltre le cose, e in rapporto ad esso – il tempo, il destino, la caducità, l’eterno – le cose non sono che allusione, metafora e simbolo. Tra i due, Guccione sarebbe più vicino all’inglese che al tedesco, non fosse- com’è invece fortemente – una tensione all’oltre, una misura appunto di eterno, un’attesa, un silenzio, una vastità – che non sono tuttavia, come nel maestro di Greifswald, al di là, ma dentro le cose, nel loro amore struggente e insaziato». (Guido Giuffré, Metafora del mondo in Piero Guccione. Castello Ursino di Catania. Opere dal 1957 al 1999. Il Cigno G.G. Edizioni 1999).

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Lo stesso Guccione affermò anni fa: «Ebbi un colpo di fulmine per Friedrich, non so perché. Poi ho scoperto quanto Munch venisse da Friedrich. Erano per me quadri di natura che avevano una fragranza e la verità che in essi determinava il senso dell’ora e del tempo, ma erano anche quadri profondamente soggettivati. E tuttavia senza l’intenzione di fare il bel quadro. Quello di Friedrich era un occhio freddo e incandescente assieme».
Il tema del mare, presente nella produzione pittorica di Guccione sin dalla fine degli anni sessanta, diventa, dunque, paradigmatico, ovvero lirica contemplativa, evocativa e sognante delle nude e modulate trasparenze di quelle che lo stesso maestro chiama  “Linee del mare”, a metà fra il richiamo naturalistico e una griglia geometrica in funzione rigorosamente compositiva. E quest’azzurro si fonde col cielo in una ritrovata ampiezza spaziale, ove le esile onde, da questa germogliate, si trasfigurano in cadenzate e solitarie sonorità incise dalla risacca.

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E queste cadenzate e solitarie sonorità emettono il loro primo gemito vitale all’orizzonte, che l’occhio languido e sognante scruta navigando tra indeterminate e calde sfumature intrise di riflessi, rifrazioni, rimandi: carezzevole moto che dalla natura giunge all’anima, vale a dire all’infinito.
Le tecniche pittoriche impiegate da Guccione sono le più variegate. Ma, oltre ai tradizionali oli su tela, i pastelli accompagnano la necessità propriamente corporale dell’artista quando egli stesso afferma che: «Ho cominciato a fare pastelli dagli anni sessanta, come cosa un po’ secondaria. Il pastello era ritenuto un mezzo ottocentesco, e per questo obligato. Una cosa un po’ salottiera, insomma. Invece, per me, rappresentava il piacere fisico di affondare la mano dentro la polvere: era proprio un piacere fisico».

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Giovanni Testori spiega il perché dell’assoluta bellezza dei pastelli di Guccione: «Il pastello ha tolto il peso iconografico all’immagine della vita. Tutto palpita, tutto è amato e tutto è sperimentato, lasciando cadere ciò che è inutile. È la sperimentazione della bellezza, ed è così che si può tornare a piangere davanti a un quadro, e proprio per la sua bellezza, mentre attorno a noi tutto sembra crollare». (Giovanni Testori in Marco Goldin, Guccione, l’azzurro, 2005).
Ma è, in definita, l’azzurro il vero protagonista dei dipinti, sia esso steso a pastello, olio e tecnica mista. Quell’azzurro tanto visionato, respirato, assorbito, indagato e decantato. E sul quale gli storici e critici di fama internazionale (se non credete, si veda la bibliografia in tal senso) tanto hanno scritto e continuano a scrivere al fine di decodificarne e restituirne l’essenza.
Il mare è pur sempre, nella sua natura, una superficie liquida e trasparente; una presenza vestita di apparenza che nutre e si nutre di correnti colorate mosse dall’ebbrezza pura e tagliente dell’infinito. Quest’infinito nasce nello studio del pittore, dunque in un luogo finito. Eppure è in codesto spazio cubico geometrizzato che si dà forma alla propria intima visione, la quale esige soltanto di essere trasfigurata in ciò che vorrebbe essere: verità. Non certamente quella oggettiva con tutto il suo armamentario di risvolti e compromessi; di scusanti e disincanti (le cui cicatrici facciamo fatica a nascondere), bensì quella soggettiva, più sincera, autentica e più “vera”. Piero Guccione dà forma sulla tela a quest’ultima “azzurra” verità, che è il suo infinito…e anche il mio, di “azzurro” e di “verità”, e di chi come me (credo in tanti), non riesce a dar corpo, per viltà e/o frivolezza, alle sonorità rinchiuse nelle carceri del nostro animo.

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A proposito di viltà e frivolezza, anni fa scrissi una poesia dal contenuto autobiografico e di cui riporto solo l’incipit: “figlio del benessere”, che tutto vuole e nulla stringe a se’ realmente. Allattato d’accidia e cullato di viltà, presiedi a scalzi piedi il seggio d’ipocrita bontà.
Una spietata dichiarazione delle debolezze a cui mi ostino non concedere dovuto congedo.
Azzurro, in fondo, no? Si fa presto a dire “azzurro”!
Proviamo a cancellarlo al pari di una piatta macchia che assilla il nostro ordinario e il creato tutto. Fosse solo per un istante, cosa volete che sia? Dunque, né cielo né mare; orizzonte, profondità, spazio, vita. Ecco, allora, che questo azzurro, apparentemente banale, perché gratuitamente certo, dato, vissuto, assumerà la cifra di passato e futuro, ciò che è sempre stato e ciò che sarà; abbandono in un tempo sospeso senza più principio né fine. In una sola parola: la bellezza.
Il grande letterato Leonardo Sciascia scriveva a proposito delle tele di Guccione di scorgerne «una certa piattezza intesa, non come senso di tonalità quotidiana, svegliata abitudine, accidioso spegnersi del mondo intorno a noi; ma tutt’al contrario fuga dalle sensazioni, e cioè dal tempo, per andare (e restare) oltre. La negazione, insomma, del tempo come “ordine mirabile del moviemento”».
Era il lontano 2002 quando conobbi la poetica del maestro Guccione e ne rimasi scosso, turbato, incantato. Avevo trovato il passepartout per accedere all’infinito. E quando nell’agosto del 2013, dopo un decennio di vani tentativi, in occasione di una retrospettiva dell’artista e suo amico Franco Sarnari (cofondatore del “Gruppo di Scicli”) allestita in una galleria privata di Scicli (Ragusa), ebbi finalmente modo di incontrare il suo sguardo mi limitai solo alle presentazioni di rito e a rinnovare la mia incondizionata ammirazione (direi incanto), per i suoi lavori. Guardai i suoi azzurri e profondi occhi al pari degli abissi, profferrendo timidamente frasi di circostanza. Domandò gentilmente cosa facessi nella vita, quali fossero le mie attitudini e da quanto tempo assaporassi quel mare, che è anche, e principalmente, il suo. Risposi altrettanto gentilmente. Ma compresi che quell’uomo stava,in realtà, scrutando e investigando il mio di sguardo. Ne leggeva l’onirico ondeggiante azzurro, il suo, il mio e di tanti simili.

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