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GIOVANNI IUDICE. IL LIRICO RESPIRO DELL’INTIMITÁ

GIOVANNI IUDICE. IL LIRICO RESPIRO DELL’INTIMITÁ

 di Filippo Musumeci

-Autore: Giovanni Iudice

-Opera: Seduta di fronte 

-Anno: 2004

-Tecnica: olio su tela

-Dimensioni: 60 x 30 cm.

-Ubicazione: Liguria, collezione privata

CARLA 2

«Dipingo per il pubblico, non per assecondarne i gusti. Che una mia opera piaccia o meno, importa poco. Ho però, in quanto artista, la responsabilità di mostrare a chi frequenta il mio lavoro il mondo per come lo vedo io». (Giovanni Iudice)

E io quel mondo l’ho visto, indagato, compreso. Ne ho assaporato ogni salmastra sfumatura, la ciclica matrice della sua natura; dei soggetti la forza evocativa, dei contenuti l’etica partitura. Dai disegni agli oli su tela, passando dalle dimesse scene di interni agli scorci dei paesaggi urbani, dalle intime sensualità dei nudi alle suggestive marine mediterranee, dai bagnanti del litorale gelese agli immigrati clandestini approdati sull’isola con tutto il carico del loro triste dramma. Eleggerne una piuttosto che un’altra, in un ventennio e oltre di attività figurativa, è una facoltà di cui non intendo avvalermi pur di non arrecar torto a nessuna delle opere partorite dal pennello del pittore siciliano.

Tuttavia, Iudice è inconsapevolmente artefice di un tormento che non mi dà pace.

Egli afferma che: «le opere sono come finestre, squarci aperti sul reale. Sono anzi delle realtà nuove, delle creature autonome paragonabili alle nostre fantasie».

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E dalla sua fantasia nacque un’incantevole creatura che divorò da principio il mio sguardo e su di sé riversò devote attenzioni. Musa e modella di altri squisiti lavori, la figura è trasfigurata dallo stesso autore in una forma chiusa di struttura plastica, abilmente levigata e resa angelica da macchie di luce ambrate entro una cubatura spaziale maiolicata di cui avverto al tatto la sua lucida freddezza.
Il suo ripiegamento intimistico mi riporta ai nudi mitologici di Hippolyte Flandrin, allo spirito romantico in cui l’io si estrinseca e rivela senza indugi la propria identità.

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Ma il languore melanconico di metà Ottocento è riletto da Iudice con nuova linfa mediante la frontalità proposta del soggetto, il quale si mostra agli sguardi altrui per fuggire l’oblio, componendo ciò che si attende: il lirico respiro dell’intimità.
A ciascuno la sua “Monnalisa!” Poiché di vivida ossessione si tratta e d’ignota vocazione si narra.

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Per ignote vie un’opera, a dispetto d’una sua simile, s’impone e si annida nell’umano ventre; lo colonizza e certa ne traccia l’umore come in un campo il suo fertile seme.

E del suo soggetto s’ignara la scintilla primordiale che ne diede forma; l’idea ancestrale che ne segnò l’ora.

Nulla so di Lei: il nome, la mente, il cuore; la voce, l’epidermide, l’odore.

Eppur di Lei ne percepisco ogni leggiadro sibilo, ogni sospiro effimero.

Lei non sa d’esser spiata furtiva e che al dì memore resto ancora della sua lunga scia.

Lei non sa della brama ardente che commossa si muove in petto; dell’ermetico sigillo che serafico non confesso.

Lei non sa d’essere amata per quel roseo viso, che è il mio diletto, e per il quale silente compongo ogni lirico pensiero.

Iudice ebbe il dono della grafia; forgiò le tue membra dando loro vita.

Iudice definì il tuo corpo senza inganno; lo modellò con tocco velato fissando ogni più fedele dettaglio.

Entro un virginale ventre la tua posa, che di gaudiosa essenza n’è l’eterna dimora; entro geometrica ellisse sei sospesa, pura e nobile come una perla.

Non ti neghi, non ti nascondi, invero ti offri e t’imponi.

E l’umido ambiente ove sei ospitata nell’intimo maniero in mia visione si plasma, e ivi regni qual amata sovrana.

Iudice ponderò tinte cangianti per rilevarti in volume; ti accarezzò col tepore del suo particolare lume.

Iudice fissò l’estro del suo genio nei tuoi occhi; ne accese le oscure iridi come abissi profondi.

Prigioniero di cotanta alchimia, dunque, sono affetto e vergogna alcuna non desto al decantato tuo cospetto.

Fosti mia per labili attimi, fui tuo per cadenzati palpiti.

Mi lasciasti nudo d’ogni speme, ti lasciai contrito come atto di fede.

Non fui vittima di sterile ira, non fosti rea d’innocente pena.

Iudice già previde della sua arte l’effetto; la sostanza manifesta d’ogni vibrante zelo.

L’intimità che si apre al suo lirico respiro è, in cuor mio, “Seduta di fronte”: ne avverto come in quell’acerbo tempo il carezzevole battito sotto l’incarnata cromia e per una volta soltanto ancora desisto e torna ad esser mia.

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