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“Laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche” . Esploriamo l’opera: l’utopia della bellezza nell’ “ophelia” di john everett millais

Se si pensa alla Tate Britain Gallery di Londra è spontaneamente inevitabile pensare ai Preraffaelliti, così com’è inevitabilmente spontaneo pensare alle loro opere e, fra tutte, a “Ophelia” di John Everett Millais – coofondatore a Londra nel 1848, assieme a Dante Gabriel Rossetti e Holman Hunt, della Confraternita romantica inglese – di cui si indagherà la genesi in questo scritto in coda al breve prologo che segue.

Galeotta fu la mostra torinese “Preraffaelliti, l’utopia della bellezza” curata da Alison Smith e allestita negli spazi rimodernati di Palazzo Chiablese (18 aprile – 14 luglio 2014. Catalogo della Mostra realizzato da 24 ORE Cultura), con l’esposizione di 67 opere tra disegni, acquerelli e dipinti a olio provenienti dalle collezione della rinomata galleria londinese.
Come indica il nome stesso adottato, l’ideale estetico del giovane gruppo è forgiato principalmente sull’arte che precede il Rinascimento maturo cinquecentesco (di cui Michelangelo, Leonardo e Raffaello rappresentano il culmine): vale a dire quella del Medioevo e, in misura anche maggiore, del Quattrocento italiano.
Il fine dei Preraffaelliti risiede nella volontà di liberarsi dal dilatante accademismo di maniera di stampo neoclassico, promosso dalla Royal Academy Schools, a favore di un’arte che miri al recupero del rapporto diretto con la natura e dell’estrinsecazione dei sentimenti secondo i dettami romantici.
Furono il senso “etico” dell’operare e quell’arcaica “onestà” del dipingere, tradita (a partire dall’epoca raffaellesca) da un’arte divenuta meramente intellettuale e priva di originalità, a guidare le scelte stilistiche innovative e il pensiero estetico, socio-politico e religioso di tipo riformista del preraffaellismo: per il quale “Naturalismo” e “Primitivismo” divennero i due poli su cui fondare la “nuova” pittura, espressa attraverso temi religiosi, storici e soprattutto letterari, di cui Dante Alighieri e William Shakespeare rappresenteranno le più eloquenti fonti d’ispirazione.
Incoraggiati dal fervido sostegno di John Ruskin (il più illustre critico dell’epoca) e mossi dall’entusiasmo diffuso per la storia naturale, specie per la geologia e la botanica, i Preraffaelliti indagarono la natura con dovizia di particolare e desiderio di svelarne i segreti del passato per comprenderne il presente. Adottarono un disegno compatto, lineare, netto e privo di ombre di chiaro gusto gotico, atto ad accogliere “colori stridenti”, dissonanti e brillanti, come li definì il grande storico e critico d’arte Ernst Gombrich.
Esponendo i propri lavori alle mostre annuali della Royal Academy (al tempo la sede più prestigiosa delle esposizioni temporanee britanniche), Gabriel Rossetti e compagni lanciarono un’ambiziosa sfida pubblica fondata sulle qualità innovative delle loro creazione, al punto tale da influenzare vari accademici affermati della generazione precedente come Dyce, Richard Redgrave e Daniel Maclise, i quali modificarono i programmi di studi della Royal Academy promuovendo, altresì, le novità tecnico-stilistiche introdotte dalla Confraternita.
Quali queste novità tecnico-stilistiche adottate dai giovani artisti succitati?
Come ricorda nel suo saggio Alison Smith, curatore della mostra, “Tecniche e metodi della pittura preraffaellita”, furono respinti soprattutto «sia il metodo tradizionale della preparazione del fondo nelle tonalità di terra per definire le aree più scure di una composizione, sia l’uso del chiaroscuro, impiegato per definire ampie zone di luce e ombra e stabilire aree principali e secondarie all’inteno di un quadro. Abbandonarono anche la tecnica accademica della facture, o pennallata ben visibile per trasmettere consistenza, e la fusione delle tonalità per armonizzare i diversi elementi di un disegno».

Trassero, invece, ispirazione dalle pratiche emergenti del loro tempo, come la dagherrotipia, attraverso la quale era possibile ricavare nitide immagini fotografiche dalla luminosità vitrea; oppure l’acquerello e l’applicazione dei colori dati a piccoli tocchi su fondo preparato con imprimitura in bianco di zinco anziché quello in piombo (che ingialliva col tempo), in modo che il supporto assumesse quella che Hunt definì “durezza della pietra”, fresco e privo di imperfezioni.
Il bianco di zinco iniziò a circolare diffusamente grazie all’industria dalla fine delgi Quaranta dell’Ottocento, offrendo ai preraffaelliti di sfruttare la luminosità del fondo, mantenendo la trasparenza nell’applicazione delgi strati cromatici successivi.
Sempre lo Smith continua: «l’obiettivo era evitare a ogni costo l’effetto di morbidezza causato dall’applicazione del colore su un fondo preparato con mezzi toni. […] applicavano poi macchie di colore a mosaico con un singolo strato sottile di colore puro, per lo più non mescolato, senza velatura e con poche pennellate leggere». Questo metodo accentuava la luminosità, lasciando che il fondo trasparisse per mezzo di strati di colore spessi ma traslucidi, stesi con i pennelli di zibellino tipici dell’acquerello, anziché con quelli di scoiattolo e maiale, utilizzati per la pittura a olio.
E ancora, guardando alle tecniche pre-rinascimentali, recuperarono per l’incarnato l’uso del tratteggio a pennellate sottile secondo le antiche tecniche della miniatura impiegate nei manoscritti medievali; i colori levigate delle tempere e degli oli quattrocenteschi italiani e fiamminghi e la lucida brillantezza delle vetrate gotiche istoriate.
I pigmenti prediletti restavano quelli trasparenti come il verde smeraldo, il blu cobalto e oltremare, il rosso carminio e la gommagutta (un giallo trasparente), tutti impiegati al fine di ottenere un’intensità cromatica uniforme in tutta la composizione. E questi erano miscelati non colil tradizionale olio, bensì con il coppale (resina naturale utilizzata per ricavare una vernice durevole e di alta qualità) per sua natura più lucido e capace di donare alla pellicola pittorica una maggiore lucentezza colorata in un solo strato, simile, non a caso, alle vetrate istoriate.
La mostra torinese, suddivisa in sette sezioni (la storia, la religione, il paesaggio, la vita moderna, la poesia, la bellezza e il simbolismo), si apriva con la celebre “Ophelia” di Millais.

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Il pittore iniziò l’opera a Ewell, nel Surrey, nel giugno del 1851 e vi lavorò per circa sei mesi allo sfondo, dipingendolo centimetro per centimetro al cospetto di prati e ruscelli, indagando scientificamente le specie vegetali. Ritemprato dal soggiorno in campagna e dalla conseguente libertà da obblighi artistici e sociali, Millais ritornò al Londra in dicembre, con la tela completata, salvo che nella parte centrale, rimasta in bianco nell’attesa dell’inseriemento del soggetto shakespeariano.
La modella prescelta fu l’inglese Elisabeth Siddall (passata alla storia con il diminutivo Lizzy o Lizzie), modella, poetessa, pittrice e futura moglie di Dante Gabriel Rossetti (di cui si parla anche QUI) La giovane ragazza (figlia di un negoziante di ferramenta e ammirata per i suoi lunghi capelli rossi, oltre che per la sua singolare bellezza), fu scoperta da Walter Deverell, associato americano dei Preraffaelliti.
Millais la fece posare per circa quattro mesi in una vasca da bagno riscaldata da una lampada nel suo appartamento in Gower Street, con l’intento di realizzare un’immagine autentica della sventurata amante di Amleto, annegata nel celebre dramma teatrale. Ma prima di procedere con la puntigliosa precisione che glie ra consueta, l’artista elaborò diversi studi preparatori, anche di singole parti del corpo e solo successivamente diede vita alla figura dipinta dal vero.
Tuttavia, per ironia della sorte, in una sola delle tante sedute di posa, la lampada che riscaldava la vasca da bagno si spense e l’acqua gelida fu la causa di una grave bronchite che colpì Lizzie, minandone la cagionevole salute, già segnata dall’abuso di laudano (una sostanza stupefacente di uso medico che veniva usata anche come droga e di cui ne fu vittima lo scrittore Edgar Allan Poe).
L’accaduto fu il pretesto che spinse il padre della ragazza a ritenere responsabile Millais, minacciandolo di agire legalmente se non avesse pagato personalmente le spese mediche necessarie alla guarigione della figlia.
Tornando al dipinto, esso con la sua patetica eroina e il lussereggiante fogliame ritratto nel momento di massimo rigoglio, è un emblema dell’approccio dei Preraffaelliti alla natura, alla psicologia e alla narrazione di soggetti storico-letterari. Il momento scelto dal pittore è tratto dalla settima scena del IV atto della tragedia shakespeariana citata, in cui la regina Gertrude ricorda la morte della giovane Ofelia, impazzita a seguito dell’omicidio del padre, avvenuto per mano dell’amato Amleto, e successivamente annegata nel fiume mentre era impegnata a intrecciare ghirlande di fiori:

C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute
nella vitrea corrente; laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli,
di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno
un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto.

Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine,
un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa
nel piangente ruscello.

Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero,
mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo
stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento.

Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi,
trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.

(Regina Gertrude in William Shakesperare, “Amleto”– Atto IV, Scena settima, 1600-02)
L’infelice fanciulla giace supina, rigida come un’effigie sopra una tomba di ricordo gotico, sostenuta e al tempo stesso avviluppata dall’acqua che diventerà il suo sepolcro, impigliata in una rigorosa vegetazione e cosparsa di fiori variopinti, simboli eloquenti della vita da lei, ormai, rifiutata.
Il corpo di Ofelia è collocato in uno spazio efficacemente autentico con la presenza anche di esemplari di fauna, come un pettirosso e un topo d’acqua.
Ciò rispecchia gli interessi microscopici e domestici di naturalisti, proprietari di acquari e di terreri, collezionisti di felci e botanici dilettanti appartenti alle associazioni locali che costituivano un tratto distintivo della scienza accessibile in età vittoriana.
La vegetazione è ripresa dal vero poiché ogni dettaglio è reso con impressionante rigore e precisione, a testimonianza di un rapporto profondo ed emozionale con il dato naturale. Tuttavia, questo è fabbricato appositamente per la scena dipinta, poiché le specie inserite dall’artista non fioriscono nello stesso periodo dell’anno, ma hanno, piuttosto, una funzione fortemente simbolica, fornendo maggior risalto al soggetto. Questa precisione botanica nonché la visione ravvicinata della scena, riprodotta con dovizia di particolari, trasfigurano l’opera in un simbolo della storia naturale d’interesse artistico.
Alla bellezza della modella dai lunghi capelli rossi che emergono dallo specchio l’acqua in tutta la loro brillantezza, sono associate le rose rappresentate vicino alle sue guance, caricandosi di una forte valenza simbolica, cui non sono da meno il salice piangente e le margherite, associate all’abbandono in amore, al dolore e all’innocenza; e il papavero, infine, che spicca vicino alla mano destra di Lizzie, simbolo di morte e fragilità.
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Il dipinto esemplifica e afferma le innovative caratteristiche della pittura storica della Confraternità, attingendo a un soggetto popolare, reinterpretato per l’occasione come episodio di un dramma molto amato dal pubblico e trattandolo come fosse avvenuto realmente.
Il dipinto soddisfa ogni precetto del primo preraffaellismo con la sua poetica visualizzazione del tragico destino dell’infelice fanciulla, come quest’ultima rappresenta l’attuazione dei principi tematici del gruppo relativi alla pittur adi paesaggio al servizio di soggetti letterari e moralistici. La critica non ebbe molto da ridire sulla scelta del soggetto, in linea con la tradizione teatrale presente nell’arte inglese del tempo, bensì tutti rimasero affascinati dalla concezione naturalistica, considerandola l’elemento stilistico determinante del movimento.
L’innovativo metodo di lavoro messo a punto da Millais lo costrinse ad allontanarsi dalla caotica Londra al fine di ritrarre la natura dal vero in una località identificata in un tratto delfiume Hogsmill presso Malden, rimasto tutt’oggi pressoché inalterato.
Esposta a Londra nel 1852, “Fraser’s Magazine” elogiò l’opera, citando il pathos del volto di Ofelia e la realtà poetica dell’ambiente naturale, unita alla determinazione dell’artista di “prendere la Natura così com’è, invece di comporla in un quadro”, adottadando una tecnica descrittiva inedita e priva di artificio.

(Filippo Musumeci)