LA “PIETÀ CON SAN GIACOMO MAGGIORE” di FILIPPO PALADINI.
di Filippo Musumeci
- Opera: “Pietà con San Giacomo Maggiore” (1605)
– Tecnica e dimensioni: olio su tela, 309 x 199 cm.
– Ubicazione: Caltagirone (CT), Chiesa del Collegio del Gesù, Cappella di Don Michael Gravina, Barone di San Michele di Ganziaria (ultima cappella di sinistra)
– Firmato e datato in basso a sinistra: PHIL’. PALAD’. FLOR’. – PINGEBAT. MDCV.
– La firma sovrasta lo stemma del committente, come si rileva dall’iscrizione sottostante: DON. MICHAEL. GRAVINA – BARO. GANZARIAE. – 1.6.0.5.
“Sporadicamente fruibile” a causa della chiusura prolungata del sito ospitante, l’opera è tra le più significative della prima produzione siciliana del pittore tardomanierista fiorentino: manifesto orientativo delle sue tendenze culturali di matrice indiscutibilmente toscana nonché linea di demarcazione tra la fase giovanile – pienamente coclusasi con il “Martirio di Sant’Agata” (1605) della Basilica Cattedrale di Catania (ne abbiamo parlato QUI) – e quella matura in continuo divenire, fino all’attenta meditazione sulle novità caravaggesche importate sull’isola dal maestro lombardo nel 1608.
Il gruppo centrale, di chiara ispirazione bronzinesca, si dispone lungo una linea ascendente dallo slancio verticalistico da condizionare l’intera struttura del drammatico compianto. Lo spazio ne risulta compresso in profondità, nonostante la presenza dell’oscura grotta rupestre, la quale a mò di sipario cela lo sfondo naturale, appena visibile sull’angolo superiore destro, contribuendo, in tal modo, a risaltare la consistenza plastica delle figure aggraziate dei dolenti dall’accento patetico e dal disegno netto, tra le quali spicca la straziante volumetria anatomica del Cristo vilipeso ed esanime. Quest’ultima è acutamente costruita con linee-forza spezzate con andamento a zig-zag e modellata su morbide ombreggiature dolcemente in accordo con i piani luministici stesi sulla levigata superficie materica dell’epidermide, memore della lezione bronzinesca succitata e concretizzata dalla “Pietà con la Maddalena” degli Uffizi. E il suo essere fulcro della composizione lo mostra come asse portante del semicerchio forgiato dagli astanti, saldamente unificati da un respiro corale, dolcemente evidenziato da un fiocco di luce radente la cui origine appare (come in altre opere del Paladini) di difficile individuazione, dunque, astrattiva.
Le mani, evidenziate dal tenue crinale luminoso, i panneggi ghiacciati delle vesti, segnate da profondi sottosquadri ombrati e da tinte schiarite (come il rosa dell’abito di San Giacomo) e, infine, gli scorci assottigliati, i quali, già, da soli rappresentano la cifra stilistica paladiniana, rimandano, oltre che al Bronzino, di cui si è già detto, agli ideali tardomanieristi di area fiorentina della formazione paladiniana: Andrea del Sanrto, Fra’ Bartolomeo,Barocci, Cigoli, Allori, Pontormo ed Empoli. Il rapporto con Pontormo, poi, fu raffisato dallo storico Carlo Ludovico Ragghianti, riconoscendo nel Paladini un «precursore di quella formula neopontormesca, insieme stilisticamente conservatrice e audacemente veristica e innovatrice nella composizione e nella iconografia» , i cui vertici sono da rintracciare nella poetica di Boscoli, Passagnano, Ciampelli, Santi di Tito e dell’Empoli. A quest’ultimo, secondo lo stesso Ragghianti, si deve il maggior contributo al processo formativo del Paladini, il cui stile aulico, continua lo studioso, è «di una elevata e appartata temperie culturale, di un rigore contenuto e distaccato, come di chi ha conscienza di una eredità formale le cui linee di ascendenza come le assegnate consenguenze, erano state, dopo il Vasari, accettate come la rappresentazione per antonomasia del processo storico dell’arte italiana» .
Gli studi preliminari della tela sono dimostrati da sei disegni preparatori appartenenti al secondo volume dei due taccuini autografi conservati al Museo Civico siracusano di Palazzo Bellomo.
Di questi merita particolare attenzione il foglio n. 42, nel quale la figura del Cristo – abbandonata sulle ginocchia della Vergine, nitidamente descritta in modo analitico mediante il segno deciso delle anatomie, esaltate dai sottosquadri e dai chiaroscuri a reticolo fisso diagonale – presenta strettissime analogie con la versione pittorica in questione.
P.S. Un capolavoro, insomma. L’ennesimo (e ignoto ai più) di una lunga serie che ci si ostina a sconfinare nell’oblio….perché costa meno tenerne le porte chiuse, perché più facile, perché meno “rognoso” che parlarne, perché, in definitiva, non farebbe “cassa!”.
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Bibliografia:
– Carlo Ludovico Ragghianti, Miscellanea minore di Critica d’Arte, Laterza, Roma – Bari, 1946, pp.163-165.
– Maria Grazia Paolini, Dante Bernini, Catalogo della mostra di Filippo Paladini, con saggio introduttivo di Cesare Brandi, Palermo, Palazzo dei Normanni, maggio – settembre 1967, Assemblea Regionale Siciliana.
– Sergio Troisi, Filippo Paladini, un manierista fiorentino in Sicilia, in «Kalòs», marzo – aprile 1997.
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