LETTURA OPERA: LA “RESURREZIONE DI CRISTO” DI PIERO DELLA FRANCESCA.

LA “RESURREZIONE DI CRISTO” DI PIERO DELLA FRANCESCA

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Resurrezione di Cristo”
    – Anno: 1459-65 ca.
    – Affresco, 225 x 200 cm.
    – Collocazione: Borgo Sansepolcro, Museo Civico di Palazzo dei Conservatori.
    «E nel Palazzo de’ Conservadori un Resurrezione di Cristo, la quale è tenuta dell’opere che sono in detta città e di tutte le sue, la migliore.» (Giorgio Vasari, Vita di Piero della Francesca, 1550-68).

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Certo che quel furbastro del Vasari la sapeva lunga…e ci vedeva lungo!!! Possedeva il talento dell’indagine attenta e scrupolosa, la tecnica dell’affondo deciso: mirava e faceva centro sul bersaglio!! Con questo non oso assolutamente asserire che le altre creazioni del genio di Borgo Sansepolcro facciano pietà! Per carità di Dio, vi prego di non fare equazioni! Ma vero è (o almeno per il sottoscritto appare) che l’affresco in questione è “lungamente” osannato dalla storiografia dell’ultimo mezzo millennio fra le opere più riuscite dedicate al tema pasquale cristiano. E poiché oggi, secondo il vigente calendario gregoriano, che crediate o no, si festeggia la vigilia di quell’evento “prodigioso”, ho creduto (bene o male poca importa) di stendere due righe su un capolavoro di Piero che non ha certo alcun bisogno della mia presentazione, ma che, al contrario, si presenta magnificamente, già, da solo. Ma in qualche modo questi due giorni di vacanza occorre pur impiegarli per evitare il “dolce far niente”. Ergo, ne dirò comunque. E voi sarete ovviamente liberi di leggere e condividere, oppure di obliare.
L’affresco di grande formato domina simile a uno stendardo processionale la Sala dell’Udienza del Palazzo dei Conservatori del borgo natio del maestro, precedendo la Sala Grande. E proprio alla patria dell’artista farebbe riferimento il profondo significato simbolico del tema iconografico, poiché la sua fondazione ebbe vita dal culto delle sacre reliquie del Santo Sepolcro di Gerusalemme, qui traslate dai pellegrini Egidio e Arcano. Il fine dell’opera, dunque, sarebbe duplice: rappresentare l’identità storica e l’orgoglio del borgo toscano e svolgere una funzione protettiva sull’intera Val Tiberina, caduta di recente, nel 1441, sotto il dominio medìceo.
A seguito della sottomissione alla Signoria dei Medici, il Palazzo di città ove è ospitato il dipinto divenne sede della Magistratura e ribattezzato “della Residenza”, nome che mantenne fino al 1456, quando fu riconcesso ai Conservatori e ai due Consigli affinchè recuperasse il lustro e l’autonomia di un tempo, negati per oltre un ottantennio dall’egemonia fiorentina. Fu a seguito di tale “riconquista” che vennero intrapresi lavori di ristrutturazione che si protrassero al 1458 e in occasione dei quali si decise, verosimilmente di far affrescare la Sala d’ingresso del sito con l’immagine-simbolo della città. In mancanza di fonti storiche certe relative alla decorazione della parete e considerando il soggiorno romano del maestro nel 1459, gli storici collocano l’esecuzione dell’affresco tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta del Quattrocento, vale a direnello stesso arco temporale delle ultime “Storie della vera Croce” sulla parete orientale del coro di San Francesco ad Arezzo. Disgraziatamente decurtato ai lati e alla sommità, privandolo di una porzione, pare, considerevole di inquadratura architettonica di cui resta visibile solo parte delle colonne scanalate con capitelli corinzi, pur senza trabeazione.

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Ciò fece avanzare l’ipotesi del Berti e del Tolnay, comprovata da un documento, di un suo possibile distacco e trasferimento sull’attuale parete del Palazzo, forse, già, nel 1474 o, comunque, prima del 1480, data a cui risalirebbero le mutilazioni e le integrazioni architettoniche succitate.
Sulla bisettrice della scena s’impone allo spettatore la frontalità dell’immagine silenziosamente statica, solitaria e ieratica del Risorto, perno dell’intera composizione che emerge dal sarcofago marmoreo, simile a un altare posto in primissimo piano, con tutta la sua maestosa autorevolezza e la fissità del suo sguardo indagatore: il “Cristo silvano e quasi bovino” e “Dio Campagnolo” rispettivamente di Roberto Longhi e Kenneth Clark.
La sua gamba sinistra è saldamente appoggiata sul bordo, ma la destra resta ancora all’interno del detto sarcofago; la mano sinistra, piegata per reggere un lembo del manto rosso-rosato, mostra le ferite causate al costato e agli arti dalla crocifissione, mentre la destra tiene il vessillo rossocrociato, simbolo dell’opera salvifica della croce e, altresì, asse strutturale della scena speculare alla massa corporea di Cristo; ai suoi piedi la monumentale solidità e le posture variegate dei quattro armigeri romani avvinti ancora da un sonno profondo. Questi sono disposti a semicerchio, secondo un espediente caro al pittore: due appoggiati sul fronte del sarcofago stesso – di cui quello di sinistra sarebbe un autoritratto di Piero –, e gli altri due – quello di destra scorciato con il gomito destro puntato al suolo; e quello di sinistra di profilo con le mani al volto – agli estremi del riquadro.
La scena è costruita mediante un punto di vista ribassato, collocato all’altezza del bordo del sarcofago, ma eluso nella parte superiore del dipinto per consentire all’immagine del Redentore una «perfetta frontalità quasi bizantina al volto e al busto». (Emanuela Daffra). Ne deriva una dimensione di arresto, d’immobilità senza tempo, che «il paesaggio, semplificato e tuttavia madido di luce concorre a intensificare». (Pierluigi De Vecchi).

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Piero della Francesca decide di bloccare l’evento evangelico in una specifica fase della domenica pasquale, vale a dire quella dell’alba, intesa come nascita non di “un” nuovo giorno bensì “del” nuovo giorno, ovvero d’una nuova era, quella salvifica compiutasi attraverso il sacrificio della croce e “risorta” lucente dal buio fitto sepolcrale. Un cielo striato di grigiastre nuvole la cui conformazione ripete lo scorcio “a disco” dell’aureola del Messia contro uno scenario collinare ancora segnato dalle ombre della notte appena trascorsa e dolorosamente consumata dagli apostoli entro chissà quali silenti mura del loro rifugio gerosolimitano.
Della simbologia annidata dietro la vegetazione paesaggistica, nitidamente esplicitata dagli alberi spogli-brulli di sinistra e rigogliosi-verdeggianti di destra, parla il Tolnay in un articolo del 1954, sostenendo la tesi cosmica della rigenerazione in Cristo quale allusione al ciclico ripetersi della stagione primaverile o, per meglio dire, allo stretto legame tra resurrezione del creato e di Cristo. La tesi è riproposta nel 2000 da Anna Maria Maetzke per la quale: «Il significato della Resurrezione,sottolineato nel dipinto anche dal sorgente in lontananza,si amplifica nel paesaggio con un’allusione alla capacità della natura di rinascere ogni anno in primavera.», moltiplicando, a tal fine, le possibilità interpretative alla «redenzione dei peccati, alla nuova vita che la morta e resurrezione del Cristo ha portato sulla terra». (Giuseppe Nifosì).
Alcuni studi hanno proposto come plausibile e diretto modello iconografico dell’affresco la tavola del senese Niccolò Segna con la “Resurrezione di Cristo” al centro del “Polittico di Santa Chiara” (oggi sull’altare maggiore della Cattedrale di Borgo Sansepolcro), di cui il maestro riprenderebbe sia la presentazione frontale e l’esatta postura del Redentore, sia gli atteggiamenti supini dei centurioni assopiti.

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Non c’è nulla nella “Resurrezione” di Piero di convenzionalmente usuale e “aspettato”, poiché di norma (salvo rari casi come quello del Segna appena citato), come ricorda Longhi, il corpo del Risorto «svolerebbe nell’aria inarcandosi flessuoso con l’ausilio delle ali di panneggi garrenti». Lo scopo del maestro di Borgo, sempre secondo la lettura longhiana, è quello di tradurre la scena in una solida e “intangibile” composizione piramidale avente il vertice nel volto di Cristo, centro focale e asse dell’opera, in una «costruzione di corpi umani inamovibili cioè in relazione architettonica, e di piani».

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E questa piramide pierfrancescana accoglie in sé tinte cromatiche armoniosamente accordate nei rossi-rosati, nei verdi, nei bruni e negli avori degli incarnati, sapientemente amplificati, continua Longhi «sul celo nel quale ritornano i toni chiari d’azzurro impaludato di nubi a striature di viola soffocato e di rosa!»

P.S. E questo è tutto! “Buona Pasqua” a chi crede e “Buone Feste” a chi no!

N.B. Si è discusso sull’arte di Piero della Francesca anche QUI.

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