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IL “BATTESIMO DI CRISTO” DI PIERO DELLA FRANCESCA

IL “BATTESIMO DI CRISTO” di PIERO DELLA FRANCESCA  

L’OPERA PIERFRANCESCANA PRESENTATA DA DUE BRILLANTI STUDENTI SEDICENNI DI UNA TERZA, INDIRIZZO GRAFICA, DEL LICEO ARTISTICO STATALE “FELICE FACCIO” DI CASTELLAMONTE CANAVESE (TORINO)

di Jessica Giovando e Pietro Pedrazzoli

  • Data: 1440-48.
  • Committenti: Monaci benedettini Camaldolesi di Borgo Sansepolcro (Arezzo).
  • Tecnica: Tempera su tavola.
  • Misure: 167 x 116 cm.
  • Luogo di ubicazione originario: altare maggiore della Chiesa di Santa Maria della Pieve, Borgo Sansepolcro (Arezzo).
  • Luogo di ubicazione attuale: National Gallery di Londra dal 1861.

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Commissionata dai monaci Camaldolesi per il loro abate generale Ambrogio Traversari, il Battesimo di Cristo è la prima opera giovanile attribuita unanimemente dalla critica a Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, Arezzo, 1413 – ivi 13 ottobre 1492). La tavola venne poi inglobata come pannello centrale del Polittico realizzato nel 1460 da Matteo di Giovanni per l’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria della Pieve di Borgo Sansepolcro (Arezzo).

È una sacra rappresentazione di soggetto neotestamentario tratto dal terzo capitolo del Vangelo di San Matteo: al centro della tavola, posto sulla bisettrice, è il Cristo in raccoglimento con le mani giunte nell’atto di ricevere il battesimo da San Giovanni Battista su una sponda del fiume Giordano in Galilea, mentre lo Spirito Santo sotto forma di colomba bianca discende sul capo del Salvatore.

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Il volume cilindrico del corpo di Cristo è ripetuto a sinistra dal tronco dell’albero di noce, le cui fronde, dalla forma emisferica, ricordano il profilo di una cupola posta sopra l’immagine divina del Dio incarnatosi e fattosi uomo.

Secondo la tradizione sarebbe un noce con duplice significato:

  • è un riferimento alla “Val di Nocea”, antico nome con cui era chiamata la valle di Borgo Sansepolcro;
  • è un riferimento al noce cresciuto dalla bocca di Abramo e da cui verrà tratto il patibolo della Passio di Cristo, secondo la Legenda aurea di Jacopo da Varagine del 1298, e, come tale, simbolo della vita che si rigenera per mezzo della Redenzione dalla schiavitù del peccato.

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Dio non è presente fisicamente nella scena, bensì la sua emanazione divina appare sotto forma di sottile polvere dorata in asse con la colomba bianca dello Spirito Santo.

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Più in profondità ancora, troviamo dei monaci bizantini, che camminano lungo una stradina tortuosa, tranne uno che indica l’evento prodigioso della discesa dello Spirito Santo nella persona di Cristo.

Alla sinistra del noce ci sono tre angeli: due di questi si tengono per mano e sono coronati rispettivamente di rose e foglie, allegoria delle due Chiese d’Oriente d’Occidente; il terzo, invece, vestito di rosso, bianco e blu (i colori della Trinità) con il palmo della mano compie un gesto di riconciliazione simbolica tra le due Chiese, divise dopo il Grande Scisma del 1054 e riavvicinatesi, seppur invano, a seguito del Concilio di Firenze-Ferrara del 1439. L’opera, infatti, è letta come metafora del Concilio stesso e riaffermazione del Dogma trinitario.

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Sullo sfondo un neofita compie l’azione dello spogliarsi o rivestirsi. Ciò può esser interpretato secondo una duplice chiave di lettura: si spoglia dei peccati o si riveste, dopo il battesimo, di una nuova candida veste spirituale.

Il paesaggio con il fiume, le colline e la cittadina turrita dovrebbe rappresentare la valle del Giordano con il paesaggio circostante, ma Piero della Francesca decise di ricontestualizzare l’episodio evangelico rappresentando un paesaggio a lui conosciuto, vale a dire la Valle di Nocea bagnata dal Tevere e la cittadina turrita di Borgo Sansepolcro sullo sfondo.

Tutta la scena è pervasa omogeneamente da una luce universale, dunque priva di forti contrasti chiaroscurali. La profondità spaziale è resa attraverso alcuni espedienti: le grandezze che degradano con la distanza, i tronchi tagliati, la stradina tortuosa percorsa dai monaci, il corso ondulato del fiume sul quale riflette la natura circostante.

Roberto Longhi asseriva che:

«egli lasciò nel mondo della pittura le creazioni di una forma monumentale così nel complesso della composizione convergente su piani ideali verso il foco prospettico come nei particolari singoli delle figure determinate imperativamente in pose statuarie ed appartate, in gesti sospesi – in tutto quel complesso mimico che per la critica letteraria è stato scambiato per impassibilità superbia ieratismo mentre non è che il portato inevitabile della poesia…prospettica. […]. Negli accordi di colore offre le più forti e delicate contrapposizioni di valore – in cui si manifesta il vero colorismo- dove un rosa pallido e un violaceo autunnale s’accostano a qualche poderoso tono composito di rosso, di marrone o di bruno, dove si armonizzano accosti il cinabrio e l’oltremare, le due tinte più difficili a giustapporsi senza stridore. Da Piero adunque la creazione del colorismo moderno come armonia calda solare di toni contrapposti e di gamma totale distesi sulle vaste praterie di un riposo coloristico non più raggiunto». 

(Roberto Longhi, “Breve ma veridica storia della pittura italiana”, 1928)

 L’opera è sottoposta a uno schema compositivo rigorosamente geometrico: il triangolo equilatero che ha vertice nel piede destro di Cristo con la sua base immaginata attraverso il prolungamento orizzontale delle ali spiegate della colomba; l’ideale semicirconferenza inferiore del cerchio, determinato dalla forma arcuata del supporto ligneo, coincide con l’ombelico di Cristo (caput mundi). Tale cerchio, a sua volta, ne inscrive al suo interno un altro di minor diametro coincidente con la colomba dello Spirito Santo.

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Le figure plastiche dai volti sereni imperturbabili e quasi inespressive (atarassiche), appaiono statiche, immobili, come bloccate o fisse in un gesto statuario, le quali non esprimono drammaticità o tensione emotiva come quelle di Masaccio, Donatello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi e Botticelli, piuttosto una perfetta armonia d’insieme (spazio, figura, architetture, luce e colore). Ciò, perché il rigore geometrico, luministico e cromatico dev’essere espresso anche con la quiete grandezza e la monumentale serenità dei personaggi rappresentati.

Come ricorda lo storico d’arte Bernard Berenson:

«Dopo sessant’anni d’intima dimestichezza con opere d’arte d’ogni specie, d’ogni clima e d’ogni tempo, sono tentato di concludere che a lungo andare le creazione più soddisfacenti sono quelle che, come in Piero e in Cézanne, rimangono ineloquenti, mute, senza urgenza di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto e il loro aspetto.Se qualcosa esprimono, è carattere, essenza, piuttosto che sentimento o intenzioni di una dato momento. Ci manifestano energia in potenza piuttosto che attività. La loro semplice esistenza ci appaga. […] Possiamo dunque permetterci di generalizzare intorno a quest’arte del passato, e affermare che nei suoi momenti quasi universalmente reputati supremi, essa è sempre stata ineloquente come in Piero della Francesca, sempre, come in lui, muta e gloriosa. Sono tentato di dir di più, di suggerire che forse, nel regno visivo, l’arte vera – in quanto distinta da non importa quali valori informativi o semplici novità o stravaganze o giochi – sempre tende, a comunicare la pura esistenza delle figure ch’essa presenta».

(Bernard Berenson, ‘‘Piero della Francesca o dell’arte non eloquente’’, 1950)

Jessica e Pietro sono un nobile e palese esempio di quanto una didattica votata all’indagine analitica dei contenuti proposti dalla docenza costituisca indiscutibilmente un valore aggiunto al percorso formativo curricolare del corpo studentesco, sovente schivo o superficialmente interessato ai movimenti figurativi e relativi linguaggi espressivi analizzati dalla Storia dell’Arte.

Il messaggio è chiaro e rivolto a tutte le nuove generazioni. Basta solo saperlo cogliere e farne tesoro! Perché, come ricorda quella mente sottile di Oscar Wilde:

«L’arte non deve mai tentare di farsi popolare. Il pubblico deve cercare di diventare artistico». (“L’anima dell’uomo sotto il socialismo”, 1891)

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San Girolamo nello studio: tre interpretazioni

di Emanuela Capodiferro

Ci sono opere che segnano il nostro immaginario fin da bambini o da adolescenti. Quelle di cui parlerò e che porterò alla tua attenzione, l’ultima in particolare, caro lettore di Sul Parnaso, mi ha affascinato da sempre. Forse perché è estremamente narrativa pur nella sua apparente staticità, forse perché il tema che fa da sfondo è la “biblioteca”, luogo simbolo che ha avuto sempre una grande pregnanza per quanto mi riguarda, in quanto paradiso dei saggi come il mio amato Umberto Eco avrebbe confermato.

Certamente le motivazioni sono molteplici e vi è anche un’altra motivazione sottesa a questo breve post, oltre al piacere di intrattenerci con figurazioni affascinanti c’è anche la volontà di richiamare, anche se solo sommariamente, quella rete di contatti e di scambi culturali tra il Nord Europa, ed in particolare l’area fiamminga e l’Italia del Sud, durante i decenni centrali del XV secolo. In realtà si trattò di scambi di natura assai ampia, anche dal punto di vista commerciale e politico, scambi che possono sembrare improbabili per l’epoca e che pure sono il segno evidente di un fenomeno di globalizzazione in età tardo medievale, che a mio modesto parere sono una delle chiavi per comprendere la nascita del mondo moderno.

Il soggetto che andiamo ad osservare è quello di San Gerolamo nello studio; l’iconografia del Santo comprende anche immagini di asceti nel deserto –celebre è lo studio di San Gerolamo di Leonardo o la rappresentazione di Cima da Conegliano- o quella di anziani in meditazione o nell’atto di scrivere – e in questo caso molto intense risultano le visioni di Caravaggio. Tuttavia qui ci soffermiamo sulla figurazione del Santo intento nell’impegnativo compito di tradurre la Bibbia greca in latino, nella realizzazione della ben nota Vulgata. Si tratta di un protagonista eminente della storia della Chiesa, uno dei primi quattro Dottori, proclamati tali nel 1298.

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Jan van Eyck e studio, San Girolamo nello studio, 1442, olio su carta applicato su tavola, 20×13, Detroit

La prima opera che osserviamo è quella conservata all’Istituto per le Arti di Detroit, si tratta di una piccola tavoletta dipinta iniziata dal grande maestro fiammingo Jan Van Eyck e terminata presumibilmente da suo fratello nel 1442. Il Santo, immerso nella lettura, veste l’abito cardinalizio e siede su uno scranno dall’alto schienale intagliato. Ai piedi del tavolo è presente il leone, a ricordo di quanto tramandato nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, per cui la belva ferita sarebbe entrata nel monastero e, dopo aver terrorizzato tutti i monaci, avrebbe trovato protezione e cure in San Girolamo e in segno di riconoscenza gli sarebbe rimasto accanto come leale custode.

Il tavolo è ricoperto da un panno verde gradevolmente contrastante con l’abito cardinalizio, su di esso è riposto il leggio, una clessidra e gli strumenti per la scrittura. Sul fondo una serie di scaffali, incorniciati da un prezioso tendaggio blu, raccolgono numerosi codici manoscritti e ancora oggetti tipici per uno studioso come l’astrolabio. Come in ogni dipinto di Jan Van Eyck la luce, anzi il lustro, da sostanza reale alla materia: i metalli scintillano, il vetro traspare, il legno ha la sua propria compattezza e i tessuti evocano sensazioni tattili di morbidezza o setosità. Quello del maestro fiammingo è il realismo analitico che caratterizza l’arte fiamminga e trova proprio in Italia meridionale terreno fertile per innestarsi nella tradizione italiana.

Ponte di questo processo è sicuramente il maestro napoletano Colantonio che ebbe modo di vedere, alla corte napoletana, opere fiamminghe, inoltre, secondo quanto registrato dal Summonte sui fatti artistici napoletani (in una lettera tuttavia di molto posteriore), ebbe modo di conoscere le nuove tecniche di Jan van Eyck dall’ultimo re angioino Renato d’Angiò che aveva avuto modo di conoscerle direttamente e aveva stimolato la crescita di una scuola d’arti praticando lui stesso in modo non professionale la pittura. Ma la matrice di Colantonio è soprattutto quella provenzale ed in particolare quella di Robert Campin, noto anche come maestro di Flemalle, che all’analisi già sperimentata da van Eyck coniuga la ricerca di plasticità degli oggetti nello spazio.

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Colantonio, San Girolamo nello studio, 1444 ca., tavola 125×50, Napoli, Capodimonte

Una caratteristica ben presente nel San Girolamo nello studio di Colantonio (1444 ca.) insieme a molti elementi presenti nella tavoletta eyckiana. Qui il Santo è intento a togliere una spina dalla zampa del leone, mentre gli arredi circondano completamente le figure e raccolgono molteplici brani di natura morta “bibliofila” e scientifica.

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Colantonio, San Girolamo nello studio, particolare

Infatti vi sono alcune decine di codici rilegati e numerosi strumenti per la scrittura. La tavola fa parte di una più ampia ancona presente in origine nella chiesa di San Lorenzo Maggiore di Napoli e a cui forse collaborò il più famoso allievo di Colantonio: Antonello da Messina.

Ed eccoci ad uno dei più grandi capolavori del Maestro Siciliano: il San Girolamo nello studio della National Gallery (1474).

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Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1474, olio su tavola, 46×36,5, Londra, National Gallery

 

Si tratta di un’opera matura ed estremamente curata, l’espediente di creare una cornice architettonica nel quadro è scelta che potenzia il realismo della scena, come accade per esempio nella Trinità di Masaccio o nella Flagellazione di Piero.  Lo studio in penombra si anima di luci soffuse provenienti da più fonti, il cielo si affaccia dalle bifore in alto ma molto più interessanti sono le finestre in basso dichiaratamente fiamminghe, con i loro scorci di paesaggio attentamente realizzati. L’aspetto più sorprendente è certamente rappresentato dall’eccellente prospettiva che dilata quello che è in realtà l’esiguo spazio della tavola. L’ampiezza creata da Antonello con le fughe prospettiche laterali introduce un’atmosfera di attesa e di mistero, quale possiamo trovare in opere di Dalì o di Magritte, la silhouette del leone è molto meno rassicurante dalla belva quasi di peluche della tavoletta di Detroit o dal maestoso ma mansueto leone di Colantonio. Ma altri animali popolano la scena; sull’uscio una pernice simbolo di lussuria e stupidità, accostata a Satana che tenta i figli di Dio con lusinghe per dannarli in analogia con il comportamento dell’animale che ruba e cova uova non sue e che alla fine perderà.

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Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, particolare

Accostato sulla destra, ma in direzione opposta, vi è un pavone, simbolo di rinascita spirituale e per cui della Risurrezione.  Per finire, dipinto quasi con il fumo come lo Stregatto di Alice nel paese delle Meraviglie vi è un gatto accovacciato sul primo gradino ligneo del complesso studio del Santo. La stola abbandonata è sicuramente richiamo alla religione ebraica per cui il piccolo felino richiama quella musulmana, ad entrambe è negato di arrivare a Dio che attraverso la Croce posta in alto all’incrocio degli scaffali illumina Girolamo privo di aureola ma composto e ispirato come un insigne letterato. Passeggiando ancora per questa complessa struttura architettonica possiamo osservare altri simboli ma il mio intento è di richiamare l’attenzione sulla presenza fiamminga nella cultura artistica italiana del Rinascimento attraverso un’opera così intensamente nordica da essere attribuita in origine a Memling o Van Eyck. Un’opera che presume contatti diretti tra Antonello e (altri) artisti fiamminghi, Federico Zeri sottolinea in particolare il contatto con Petrus Christus.

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Petrus Christus, Annuciazione, 1452, Berlino

Tuttavia se Antonello in questo capolavoro apre mirabilmente una parete, anche a me modestamente oggi sembra di aprire una porta: al Professor Filippo Musumeci che nei prossimi appuntamenti ci parlerà ancora, e con più sicura dottrina, del grande Antonello QUI [e che oggi apprenderà qualche notizia in più sulla sua capacità di leggere nel pensiero della sua fedele amica e collega] e della sua importanza nel panorama artistico europeo.

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LETTURA OPERA: LA “PALA DI BRERA” di PIERO DELLA FRANCESCA (di SARA BIANCOLIN)

LA “PALA DI BRERA” di PIERO DELLA FRANCESCA

di Sara Biancolin e Filippo Musumeci

– Opera: “Sacra Conversazione” (detta anche “Madonna con Bambino, Santi e Angeli”, “Pala Montefeltro” o “Pala di Brera”)                                                     

– Anno:1472-74.

– Tecnica e dimensioni: olio e tempera su tavola, 251 x 173 cm.

– Ubicazione originaria: Urbino, Chiesa di San Bernardino da Siena.

– Ubicazione attuale: Milano,Pinacoteca di Brera.

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‟Senza dubbio la più originale e importante sacra conversazione di tutto il Quattrocento”. (Millard Meiss).
‟Si avverte, quasi tangibilmente, l’ardua sperimentalità del dipinto, l’urgere dei “tanti problemi sottili complessi e opposti” che Piero in questi anni andava proponendosi più per l’instancabile ardore di speculazione […] che per la certezza di risolverli”. (Roberto Longhi).
‟Accade che il blu notte del manto della Vergine ospiti, nelle pieghe , abissi meravigliosi di ombre colorate e che tutti i grigi , gli azzurro-cenere e i bruno-malva del mondo vivano nei marmi dell’abside; dove l’ombra e la luce configgono per un primato che solo il trascorrere dell’ora meridiana nel quadrante del cielo potrà decidere”. (Antonio Paolucci).
L’opera giunge a Milano nel 1811 durante le requisizioni napoleoniche, periodo nel quale ben poco si sapeva in merito alla provenienza del quadro, collocato per ben tre secoli nella chiesa urbinate francescana di San Bernardino da Siena e forse in origine posto all’interno della chiesa di San Donato degli Osservanti dove fu sepolto lo stesso Federico per un certo periodo di tempo. Progettata inizialmente per l’altare maggiore di una chiesa francescana, la tela avrebbe dovuto celebrare non solo la profonda pietà e l’imperitura religiosità del sovrano, rappresentato in atto di reverenza nei confronti della Vergine, ma anche la sua autorità, forza e magnificenza, di cui l’architettura policroma e luminosa che ospita i personaggi è evidente intento di testimonianza. Pochi sanno che l’artista, servitosi del’aiuto di artigiani locali, lasciò incompiuto il proprio capolavoro: la causa forse più attendibile è che all’età di circa sessant’anni, come ci riferisce lo stesso Vasari nelle sue Vite, il pittore avrebbe perso la vista in seguito alle conseguenze di una cataratta («un cattarro accecò»), sottoponendo le mani giunte in preghiera del duca d’Urbino ad un completamento eseguito dal fiammingo Pedro Berruguete, nome individuato da Roberto Longhi in uno dei suoi numerosi studi sul pittore di Borgo Sansepolcro (nonostante Millard Meiss le attribuì a Giusto di Gand).
Forse la più rappresentativa dell’intera produzione pittorica di Piero e che riassume, pur rimanendo in un impianto iconografico che si rifà alla tradizione, un significato votivo originale e riccamente intriso di avvenimenti storici, sia lieti che tragici, legati alla vita di uno dei protagonisti della celebre tela: il duca Federico da Montefeltro. Il 1472 è infatti non solo l’anno di inizio dell’opera, ma è anche quello della nascita del suo erede diretto, Guidobaldo, della felice presa di Volterra che lo resero il capitano più ammirato d’Italia e infine della morte, dovuta alle complicanze del parto, della moglie Battista, donna di grande cultura ed equilibrio oltre che saggia contitolare del potere.

Tali significativi eventi segnarono profondamente Federico, tanto che, a un’attenta lettura dell’opera, sono rintracciabili molteplici simboli ed allusioni a quella sfera affettiva tanto cara al committente. E’ alla tanto attesa nascita che allude infatti il Bambino beatamente addormentato fra le Braccia della Vergine; è alla dolorosa scomparsa dell’amata moglie la presenza dovuta, oltre che della Madonna in preghiera simbolo delle virtù cristiane della sovrana urbinate, del santo protettore Giovanni Battista, che nel dipinto è collocato a sinistra, posto che occuperebbe la donna se fosse viva; è a motivo auto celebrativo l’armatura da battaglia indossata dal Montefeltro, con il bastone del comando ai suoi piedi, la spada e le stringhe di cuoio rosso, tipico vezzo dei ricchi di allora e che si ritrovano in molti dipinti dell’epoca.

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La scena si svolge all’interno di un edificio classicheggiante, forse ispirato alla chiesa di Sant’Andrea a Mantova di Leon Battista Alberti, in cui appaiono il presbiterio, il coro, l’abside, gli archi laterali, i marmi bianchi e le lesene corinzie; al centro, la Vergine ammantata di pelle d’agnello, seduta in trono sulla cosiddetta sella plicatilis con il Bambino, è attorniata da quattro angeli e sei santi riccamente vestiti, fra cui si individuano a partire dall’estrema sinistra il San Giovanni Battista (barbuto e dotato di abito in pelle e bastone e indicante con la destra il Bambino, allusivo a Cristo quale vittima innocente ed immolata per tutti gli uomini); San Bernardino da Siena (traduttore della Bibbia e considerato il protettore degli umanisti); San Gerolamo (che rimanderebbe alla dimensione di interesse filosofico e letterario del signore urbinate); San Francesco d’Assisi (con le celebri stimmate nel ruolo di Alter Christus e reggente la croce in cristallo di rocca), San Pietro Martire (dotato del celebre taglio sul capo) e San Giovanni Evangelista (o Sant’Andrea) all’estrema destra (provvisto del tradizionale libro e mantello rosato). Dinanzi alla Vergine, sulla destra e devotamente inginocchiato e a mani giunte, è riconoscibile Federico, ritratto di profilo a motivo puramente estetico: la partecipazione ad un fatale torneo lo aveva privato dell’occhio destro, ragion per cui egli, dopo essersi fatto limare l’osso del naso per sbirciare dal lato opposto, preferiva sempre essere rappresentato in tale posizione, come riconosciamo, ad esempio, anche nel celebre Doppio ritratto dei duchi di Urbino del medesimo artista o sulla medaglia attribuita allo scultore fiorentino Pietro Torregiani.

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La posizione dei personaggi rispettava in genere una precisa gerarchia: la Madonna è infatti l’unica ad essere seduta, mentre i santi sono tutti collocati in piedi e le persone comuni, come il committente, si trovano invece inginocchiate. Ad accomunarli è tuttavia lo sguardo rivolto verso il basso, indice di atteggiamento reverenziale e di preghiera devozionale. La dimensione polisemantica della Pala, come già accennato, si manifesta prepotentemente in numerose aree della composizione; balza sicuramente all’occhio la collana in corallo indossata dal Bambino: il colore rosso richiamerebbe il sangue e dunque la passione di Cristo, mentre il ciondolo con pelo di tasso, così come il rametto di corallo, sarebbero simboli beneauguranti per il piccolo addormentato, ritratto forse in tale momento in allusione alla sua futura morte. In fondo alla volta romana è invece possibile ammirare il nicchio, termine che identifica la conchiglia battesimale di San Giacomo di Compostela e che sarebbe stata a lungo utilizzata nella decorazione di molti edifici religiosi, quali il battistero e il duomo di Firenze; l’enorme conchiglia, simbolo di dimensione venerea anche per il legame con le acque e il mare, ricopre infatti la parete semicircolare dell’abside e da essa pende sostenuto da una catenella d’oro un originalissimo oggetto sferoidale sospeso nel vuoto: secondo alcuni si tratterebbe di una perla, simbolo della verginità di Maria in quanto come la conchiglia produrrebbe, secondo i naturalisti, la perla senza essere fecondata, allo stesso modo sarebbe avvenuto il concepimento mariano. Molti hanno tuttavia avanzato l’ipotesi che l’oggetto assomiglierebbe più ad un uovo di struzzo che a una perla: in tal caso si tratterebbe di una evidente allusione all’armonia geometrica e alla Creazione, alla casata del committente di cui l’animale era simbolo e che allora si reputava ermafrodita (quindi già fecondato in se stesso), ma anche alla verginità di Maria e al sole come simbolo di “nascita” (il figlio del duca) e “rinascita”: ‟Se il sole può far schiudere le uova di struzzo, perché una Vergine non potrebbe generare per opera del sole” (Alberto Magno); la leggenda vuole che le uova di struzzo si dischiudano infatti al calore del sole e per questo sarebbe individuabile un richiamo all’Immacolata Concezione.

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Grande attenzione è inoltre riservata alla cura minuziosa dei dettagli dei gioielli (gli anelli indossati da Montefeltro, le collane e i monili che ornano gli angeli e il Bambino) e delle preziose stoffe (in cui in alcuni casi le medesime fantasie sono richiamate sia nell’abito damascato della Madonna, sia in quello di uno degli angeli, sia nel mantelletto del committente ) che si inseriscono nella più consueta tradizione artistica fiamminga che vede in Jan van Eyck uno dei rappresentanti massimi per il perfezionamento della tecnica della pittura ad olio.

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L’impianto prospettico strutturato con un unico punto di fuga centrale all’altezza degli occhi della Vergine sembra proiettare i personaggi, che l’artista colloca sapientemente in ordine di altezza come aveva fatto Masaccio nella Cappella Brancacci, tra la navata e il transetto e al di sotto della cupola con volta a cassettoni. Secondo studi recenti, i rapporti proporzionali interni allo spazio, simbolico, della composizione sono stati in parte falsati da una piccola decurtazione inferta alla tavola sul lato destro e in misura maggiore sul sinistro, ma, pare, non su quello superiore. In realtà, già nel 1954 lo storico e critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti compì accurate ricerche sul formato della tavola giungendo alla conclusione che questa avrebbe subito, piuttosto, una mutilazione su tutti i lati, e nella sua forma originaria, l’opera sarebbe apparsa incorniciata in primo piano da pilastri laterali (di cui si scorgono ancora i cornicioni terminali) e da un arco trionfale in controluce. Dunque, come per l’ “Annunciazione” del “Polittico di Sant’Antonio” (1460-70; Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia), a cui, sempre secondo gli studi di Ragghianti, spettò la medesima sorta, il punto di partenza per individuare l’antica estensione della tavola fu una ricerca di concordanza armonica: “basata, nel caso presente, sullo stacco fra la massa complessiva dei personaggi e il vuoto soprastante; in particolare, la sezione aurea impostata sulla linea – parallela alla base della Pala – tangente l’apice della testa di Maria determina (tenuto anche conto dell’andamento delle architetture suggerito dagli elementi superstiti) il primitivo svilippo verso l’alteo e verso il basso”. L’attendibilità degli studi indicati trova sostegno nella centralità dell’uovo di struzzo, qualificandosi come centro geometrico della composizione completa. Si aggiunga che indagini successive, condotte dalla Direzione della Pinacoteca di Brera, hanno confermato le teorie di Ragghianti, poiché “lungo i bordi, la superficie cromatica non presenta le sbavature consuete in un’opera pittorica, per quanto diligente ne sia stato l’esecutore; bensì si nota una completa sovrapposizione all’imprimitura sottostante”. In definitiva, è ammissibile, secondo questi dati, che “la Pala (formata da otto pannelli di pioppo) fu mutilata sui quattro lati, e i bordi vennero poi sottoposti ad accurata piallatura (ne sussistono tracce), grazie alla quale la crosta dipinta termina in modo così netto” (Pierluigi De Vecchi).

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La luce, infine, sembra sopraggiungere a illuminare volti, conferire vibrante tridimensionalità alle architetture e creare riflessi, come quello del velluto dell’elsa della spada sull’elmo o di una finestra sul lucido metallo dell’armatura, quasi a imprimere una sorta di bagliore divino e ad attribuire un maggior senso di realismo alla composizione: ‟Il problema dominante dell’ultimo decennio pittorico di Piero [è] rivolto alla conquista del tessuto epidermico della realtà quale viene svelato dalle diverse reazioni alla luce di tutte le cose”. (Liana Castelfranchi Vegas).

N.B. Si è discusso dell’arte di Piero della Francesca anche QUI.

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BIBLIOGRAFIA

Pierluigi De Vecchi, “L’opera completa di Piero della Francesca”, Rizzoli editore, 1967.

Antonio Paolucci, “Piero della Francesca – la Pala di Brera”, 2003

Philippe Daverio, “Il museo immaginato”, 2011

LETTURA OPERA: LA “RESURREZIONE DI CRISTO” DI PIERO DELLA FRANCESCA.

LA “RESURREZIONE DI CRISTO” DI PIERO DELLA FRANCESCA

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Resurrezione di Cristo”
    – Anno: 1459-65 ca.
    – Affresco, 225 x 200 cm.
    – Collocazione: Borgo Sansepolcro, Museo Civico di Palazzo dei Conservatori.
    «E nel Palazzo de’ Conservadori un Resurrezione di Cristo, la quale è tenuta dell’opere che sono in detta città e di tutte le sue, la migliore.» (Giorgio Vasari, Vita di Piero della Francesca, 1550-68).

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Certo che quel furbastro del Vasari la sapeva lunga…e ci vedeva lungo!!! Possedeva il talento dell’indagine attenta e scrupolosa, la tecnica dell’affondo deciso: mirava e faceva centro sul bersaglio!! Con questo non oso assolutamente asserire che le altre creazioni del genio di Borgo Sansepolcro facciano pietà! Per carità di Dio, vi prego di non fare equazioni! Ma vero è (o almeno per il sottoscritto appare) che l’affresco in questione è “lungamente” osannato dalla storiografia dell’ultimo mezzo millennio fra le opere più riuscite dedicate al tema pasquale cristiano. E poiché oggi, secondo il vigente calendario gregoriano, che crediate o no, si festeggia la vigilia di quell’evento “prodigioso”, ho creduto (bene o male poca importa) di stendere due righe su un capolavoro di Piero che non ha certo alcun bisogno della mia presentazione, ma che, al contrario, si presenta magnificamente, già, da solo. Ma in qualche modo questi due giorni di vacanza occorre pur impiegarli per evitare il “dolce far niente”. Ergo, ne dirò comunque. E voi sarete ovviamente liberi di leggere e condividere, oppure di obliare.
L’affresco di grande formato domina simile a uno stendardo processionale la Sala dell’Udienza del Palazzo dei Conservatori del borgo natio del maestro, precedendo la Sala Grande. E proprio alla patria dell’artista farebbe riferimento il profondo significato simbolico del tema iconografico, poiché la sua fondazione ebbe vita dal culto delle sacre reliquie del Santo Sepolcro di Gerusalemme, qui traslate dai pellegrini Egidio e Arcano. Il fine dell’opera, dunque, sarebbe duplice: rappresentare l’identità storica e l’orgoglio del borgo toscano e svolgere una funzione protettiva sull’intera Val Tiberina, caduta di recente, nel 1441, sotto il dominio medìceo.
A seguito della sottomissione alla Signoria dei Medici, il Palazzo di città ove è ospitato il dipinto divenne sede della Magistratura e ribattezzato “della Residenza”, nome che mantenne fino al 1456, quando fu riconcesso ai Conservatori e ai due Consigli affinchè recuperasse il lustro e l’autonomia di un tempo, negati per oltre un ottantennio dall’egemonia fiorentina. Fu a seguito di tale “riconquista” che vennero intrapresi lavori di ristrutturazione che si protrassero al 1458 e in occasione dei quali si decise, verosimilmente di far affrescare la Sala d’ingresso del sito con l’immagine-simbolo della città. In mancanza di fonti storiche certe relative alla decorazione della parete e considerando il soggiorno romano del maestro nel 1459, gli storici collocano l’esecuzione dell’affresco tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta del Quattrocento, vale a direnello stesso arco temporale delle ultime “Storie della vera Croce” sulla parete orientale del coro di San Francesco ad Arezzo. Disgraziatamente decurtato ai lati e alla sommità, privandolo di una porzione, pare, considerevole di inquadratura architettonica di cui resta visibile solo parte delle colonne scanalate con capitelli corinzi, pur senza trabeazione.

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Ciò fece avanzare l’ipotesi del Berti e del Tolnay, comprovata da un documento, di un suo possibile distacco e trasferimento sull’attuale parete del Palazzo, forse, già, nel 1474 o, comunque, prima del 1480, data a cui risalirebbero le mutilazioni e le integrazioni architettoniche succitate.
Sulla bisettrice della scena s’impone allo spettatore la frontalità dell’immagine silenziosamente statica, solitaria e ieratica del Risorto, perno dell’intera composizione che emerge dal sarcofago marmoreo, simile a un altare posto in primissimo piano, con tutta la sua maestosa autorevolezza e la fissità del suo sguardo indagatore: il “Cristo silvano e quasi bovino” e “Dio Campagnolo” rispettivamente di Roberto Longhi e Kenneth Clark.
La sua gamba sinistra è saldamente appoggiata sul bordo, ma la destra resta ancora all’interno del detto sarcofago; la mano sinistra, piegata per reggere un lembo del manto rosso-rosato, mostra le ferite causate al costato e agli arti dalla crocifissione, mentre la destra tiene il vessillo rossocrociato, simbolo dell’opera salvifica della croce e, altresì, asse strutturale della scena speculare alla massa corporea di Cristo; ai suoi piedi la monumentale solidità e le posture variegate dei quattro armigeri romani avvinti ancora da un sonno profondo. Questi sono disposti a semicerchio, secondo un espediente caro al pittore: due appoggiati sul fronte del sarcofago stesso – di cui quello di sinistra sarebbe un autoritratto di Piero –, e gli altri due – quello di destra scorciato con il gomito destro puntato al suolo; e quello di sinistra di profilo con le mani al volto – agli estremi del riquadro.
La scena è costruita mediante un punto di vista ribassato, collocato all’altezza del bordo del sarcofago, ma eluso nella parte superiore del dipinto per consentire all’immagine del Redentore una «perfetta frontalità quasi bizantina al volto e al busto». (Emanuela Daffra). Ne deriva una dimensione di arresto, d’immobilità senza tempo, che «il paesaggio, semplificato e tuttavia madido di luce concorre a intensificare». (Pierluigi De Vecchi).

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Piero della Francesca decide di bloccare l’evento evangelico in una specifica fase della domenica pasquale, vale a dire quella dell’alba, intesa come nascita non di “un” nuovo giorno bensì “del” nuovo giorno, ovvero d’una nuova era, quella salvifica compiutasi attraverso il sacrificio della croce e “risorta” lucente dal buio fitto sepolcrale. Un cielo striato di grigiastre nuvole la cui conformazione ripete lo scorcio “a disco” dell’aureola del Messia contro uno scenario collinare ancora segnato dalle ombre della notte appena trascorsa e dolorosamente consumata dagli apostoli entro chissà quali silenti mura del loro rifugio gerosolimitano.
Della simbologia annidata dietro la vegetazione paesaggistica, nitidamente esplicitata dagli alberi spogli-brulli di sinistra e rigogliosi-verdeggianti di destra, parla il Tolnay in un articolo del 1954, sostenendo la tesi cosmica della rigenerazione in Cristo quale allusione al ciclico ripetersi della stagione primaverile o, per meglio dire, allo stretto legame tra resurrezione del creato e di Cristo. La tesi è riproposta nel 2000 da Anna Maria Maetzke per la quale: «Il significato della Resurrezione,sottolineato nel dipinto anche dal sorgente in lontananza,si amplifica nel paesaggio con un’allusione alla capacità della natura di rinascere ogni anno in primavera.», moltiplicando, a tal fine, le possibilità interpretative alla «redenzione dei peccati, alla nuova vita che la morta e resurrezione del Cristo ha portato sulla terra». (Giuseppe Nifosì).
Alcuni studi hanno proposto come plausibile e diretto modello iconografico dell’affresco la tavola del senese Niccolò Segna con la “Resurrezione di Cristo” al centro del “Polittico di Santa Chiara” (oggi sull’altare maggiore della Cattedrale di Borgo Sansepolcro), di cui il maestro riprenderebbe sia la presentazione frontale e l’esatta postura del Redentore, sia gli atteggiamenti supini dei centurioni assopiti.

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Non c’è nulla nella “Resurrezione” di Piero di convenzionalmente usuale e “aspettato”, poiché di norma (salvo rari casi come quello del Segna appena citato), come ricorda Longhi, il corpo del Risorto «svolerebbe nell’aria inarcandosi flessuoso con l’ausilio delle ali di panneggi garrenti». Lo scopo del maestro di Borgo, sempre secondo la lettura longhiana, è quello di tradurre la scena in una solida e “intangibile” composizione piramidale avente il vertice nel volto di Cristo, centro focale e asse dell’opera, in una «costruzione di corpi umani inamovibili cioè in relazione architettonica, e di piani».

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E questa piramide pierfrancescana accoglie in sé tinte cromatiche armoniosamente accordate nei rossi-rosati, nei verdi, nei bruni e negli avori degli incarnati, sapientemente amplificati, continua Longhi «sul celo nel quale ritornano i toni chiari d’azzurro impaludato di nubi a striature di viola soffocato e di rosa!»

P.S. E questo è tutto! “Buona Pasqua” a chi crede e “Buone Feste” a chi no!

N.B. Si è discusso sull’arte di Piero della Francesca anche QUI.

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QUEL DISEGNO “PIU’ UNICO CHE RARO” DI ANTONELLO DA MESSINA

“GRUPPO DI DONNE SU UNA PIAZZA, CON ALTI CASAMENTI”
di
ANTONELLO DA MESSINA

di Filippo Musumeci

• DATAZIONE: metà anni settanta del ’400
• DATI IDENTIFICATIVI: disegno a pennello e inchiostro bruno su carta; acquarello bruno con tratti a stiletto e macchia di acquarello azzurro al centro. Timbro del Museo del Louvre (M L) sulla parte sinistra anteriore
• DIMENSIONI: cm 21,2 x 19,1 (bordi irregolari e lacune)
• PROVENIENZA: Inserito in un «album Borghese» acquistato nel 1983 dal Museo parigino del Louvre, il disegno appartenne precedentemente alla collezione veneziana Sagredo, per poi entrare a far parte di una collezione privata di Lione nella metà dell’Ottocento
• COLLOCAZIONE: Parigi, Museo del Louvre, département des Arts graphiques, inventario RF 39028
• ESPOSIZIONI: Roma, Scuderie del Quirinale 18 marzo – 25 giugno 2006

L’ormai storica mostra antologica di Antonello da Messina, curata da Mauro Lucco e allestita alle Scuderie del Quirinale di Roma dal 18 marzo al 25 giugno 2006 (Catalogo della mostra Silvana Editorale), ebbe il merito di assemblare in un unico corpus l’opera omnia del grande artista dal respiro europeo (attivo nell’arco cronologico 1455- 1479), offrendo a vistitori e studiosi la possibilità (e come mai prima di allora) di acquisire strumenti propedeutici per una esaustiva lettura della genesi estetica e intellettuale dei capolavori presenti, tra i quali particolare curiosità suscitò l’esposizione di quello che, allo stato attuale, risulta essere l’unico disegno preparatorio attribuito unanimemente dalla critica al genio messinese e noto col titolo di “Gruppo di donne su una piazza, con alti casamenti”.

ANTONELLO- DISEGNO

Si tratta, proprio per la sua eccezionalità, di un documento storico dal valore fortemente emblematico, quale unica testimonianza dell’attività grafica di Antonello.
Il pregevole foglio, dalla filigrana scarsamente diffusa in Italia, mostra un’attenta e minuziosa cura alle vibrazioni e rifrazioni luminose espresse mediante una tecnica dal tratto preciso e sottile a piccoli puntini resi con il pennello, particolarmente manifesti nelle ombreggiature chiaroscurali proiettate sulle costruzioni architettoniche dello sfondo, sulle vesti, sui visi, veli e drappeggi, magnificamente animati, delle dieci figure femminili poste di scorcio in primo piano ed impegnate in una conversazione cittadina dall’argomento ignoto.
Analoga cura viene, altresì, riservata alla realizzazione razionale della realtà attraverso l’applicazione del rigoroso impianto prospettico di matrice quattrocentesca, con la geometrica convergenza delle rette di profondità verso il punto di fuga centrale e il digradare delle grandezze con l’aumentare della distanza; mentre la costante tridimensionalità antonelliana, è finalizzata alla foggiatura dei volumi nello spazio.
La frammentarietà, soprattutto della parte sinistra, del supporto cartaceo non consente di accertare se nelle parti asportate vi fossero rappresentate altre figure umane o qualsiasi altro elemento in grado di facilitare l’identificazione del soggetto.

Fiorella Sricchia Santoro (1986) sostiene che le figure astanti dinanzi la lunga strada confluente nella porta ad arco dello sfondo con figura d’uomo e fiancheggiata da casamenti con terrazze e vasi sulle altane siano diretto preludio di una scena narrativa di ambientazione urbana per una predella di un polittico, o per un grande dipinto come il San Sebastiano (Dresda, Staatliche Kunstsammulungen, Gemäldegalerie Alte Meister, 1475-76 / 1478-79), la cui datazione renderebbe incompatibile il confronto tra il disegno in questione e la Crocifissione di Sibui (Romania, Muzeul National Brukenthal, fine anni sessanta del ’400) proposto nel 1953 da Roberto Longhi per le indiscutibili affinità con il disegno della collezione Robert Lehman del Metropolitan Museum of Art di New York ed inteso come studio preparatorio del maestro siciliano per le figure dei dolenti ai piedi della croce. Sempre la Sricchia Santoro sostiene che l’ipotesi di un legame tra lo schizzo parigino e il dipinto di Dresda non sia del tutto da scartare date le non poche somiglianze tra lo sfondo del primo e l’ambientazione cittadina del secondo, basti osservare la porta ad arco di spalle al santo martire e, in particolar modo, la medesima distribuzione nello spazio delle strutture architettoniche del lato sinistro.

Già nel 1984 Roseline Bacou, a cui si deve tra l’altro l’attribuzione ad Antonello ( tutt’oggi unanimemente condivisa), del disegno del Louvre, affermò che: «non si tratta delle figure di una Crocifissione ma di una straordinaria scena di vita quotidiana in un paesaggio urbano, con una resa prospettica di magistrale efficacia: d’altra parte l’innegabile qualità d’esecuzione e la composizione nel suo insieme permettono di avanzare l’ipotesi che il foglio Lehman sia uno studio di particolare, o una copia».

Resta ancora da capire se il disegno sopraccitato sia da ritenersi autonomo, o piuttosto uno schizzo utilizzabile come serbatoio di idee figurative nel momento più appropriato, ma gli elementi di cui dispone la critica non permettono di giungere a nessuna conclusione soddisfacente, in quanto non si possiede sufficiente conoscenza degli altri rarissimi disegni dell’artista e del ruolo che essi ricoprissero nella sua affollata bottega della città natale. La relazione tra figure e la distanza visiva in cui sono collocati fanno pensare che il foglio fosse stato concepito come studio di dettagli secondari, da porre nel fondo delle composizioni, ma anche in questo caso non vi è nulla di certo e neppure la mostra romana, nella sua forse irripetibile eccezionalità, risolve gli interrogativi sorti attorno all’Antonello disegnatore, il maestro del reale che raggiunge secondo la definizione di Mauro Lucco: «il massimo dell’analitico dentro il massimo del sintetico».

Magari, cari amici, se andaste al Louvre (e ve lo auguro vivamente!) potreste anche imbattervi nel disegno antonelliano e avere l’occasione di ammirare un esemplare unico… nel senso più profondo del termine. Non so quanto possa interessarvi, ma io l’ho fatto: quella volta a Roma e quell’altra al Louvre…e di questo ne sono felice!!

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BIBLIOGRAFIA

• Fiorella Sricchia Santoro, Antonello e l’Europa, Jaca Book, Milano, 1986.
• A. Petriali Tofani, S. Prosperi Valenti Rodinò, G. C. Sciolla (a cura di), Il disegno e le collezioni pubbliche italiane (I – II tomo), Silvana Editoriale, Milano, 1993.
• I Capolavori del disegno al Museo del Louvre e ai musei Nazionali di Parigi, opera diretta da Geneviéve Monnier, XV – XVI secolo, De Agostani, Novara, 1997.
• L’opera completa di Antonello da Messina, prefazione di Leonardo Sciascia, apparati critici e filologici di Gabriele Mandel, Rizzoli, Milano, 1999.
• Mauro Lucco (a cura di) Antonello da Messina, l’opera completa. Catalogo della mostra, Roma, Scuderie del Quirinale 18 marzo – 25 giugno 2006, Silvana Editoriale, Milano, 2006.