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Ho sposato umilmente la causa della Storia dell'Arte per la primaria necessità di nobilitare il mio animo e conferirgli degnamente respiro. M'impegno quotidianamente, con i miei indiscussi limiti del caso, di trasmettere sentitamente ai miei simili, che la vita ha nominato miei interlocutori, non tanto il sapere, bensì l'amore per il sapere. E' l'unico patrimonio di cui dispongo al momento.

LA “CENA IN EMMAUS” DI CARAVAGGIO: DUE VERSIONI A CONFRONTO

 

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LA “CENA IN EMMAUS” DI CARAVAGGIO: DUE VERSIONI A CONFRONTO

di Martina Palmacci

Vangelo di Luca (24,13-35)

13 Or ecco, due di loro in quello stesso giorno andavano in un castello, il cui nome era Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi. 14 Ed essi ragionavan fra loro di tutte queste cose, ch’erano avvenute. 15 Ed avvenne che mentre ragionavano e discorrevano insieme, Gesù si accostò, e si mise a camminar con loro. 16 Or gli occhi loro erano ritenuti, per non conoscerlo. 17 Ed egli disse loro: Quali son questi ragionamenti, che voi tenete tra voi, camminando? e perché siete mesti?  18 E l’uno, il cui nome era Cleopa, rispondendo, gli disse: Tu solo, dimorando in Gerusalemme, non sai le cose che in essa sono avvenute in questi giorni? 19 Ed egli disse loro: Quali? Ed essi gli dissero: Il fatto di Gesù Nazareno, il quale era un uomo profeta, potente in opere, e in parole, davanti a Dio, e davanti a tutto il popolo. 20 E come i principali sacerdoti, ed i nostri magistrati l’hanno dato ad esser giudicato a morte, e l’hanno crocifisso. 21 Or noi speravamo ch’egli fosse colui che avesse a riscattare Israele; ma ancora, oltre a tutto ciò, benché sieno tre giorni che queste cose sono avvenute, 22 certe donne d’infra noi ci hanno fatti stupire; perciocché, essendo andate la mattina a buon’ora al monumento, 23 e non avendo trovato il corpo d’esso, son venute, dicendo d’aver veduta una visione d’angeli, i quali dicono ch’egli vive. 24 Ed alcuni de’ nostri sono andati al monumento, ed hanno trovato così, come le donne avean detto; ma non han veduto Gesù. 25 Allora egli disse loro: O insensati, e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! 26 Non conveniva egli che il Cristo soffrisse queste cose, e così entrasse nella sua gloria? 27 E cominciando da Mosè, e seguendo per tutti i profeti, dichiarò loro in tutte le scritture le cose ch’erano di lui. 28 Ed essendo giunti al castello, ove andavano, egli fece vista d’andar più lungi. 29 Ma essi gli fecer forza, dicendo: Rimani con noi, perciocché ei si fa sera, e il giorno è già dichinato. Egli adunque entrò nell’albergo, per rimaner con loro. 30 E quando egli si fu messo a tavola con loro, prese il pane, e fece la benedizione; e rottolo, lo distribuì loro. 31 E gli occhi loro furono aperti, e lo riconobbero; ma egli sparì da loro.

Traduzione e insegnamento del racconto evangelico di Luca

Ed ecco che in quello stesso giorno (giorno della Resurrezione) due di loro (discepoli) si incamminavano verso un villaggio, distante da Gerusalemme sette miglia. Ed essi conversavano tra loro di ciò che era accaduto. E mentre parlavano e ragionavano insieme, Gesù si accostò, e si mise a camminare al loro fianco. Ma i loro occhi non erano in grado di riconoscerlo. Ed egli disse loro: quali sono gli avvenimenti di cui state discutendo mentre camminate? e perché siete tristi? E uno di essi, di nome Cleopa, rispose dicendo: sei l’unico che, abitando a Gerusalemme, non sai le cose che sono accadute in questi giorni? Ed egli chiese loro: Quali? Ed essi spiegarono: il fatto di Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e davanti a tutto il popolo. E come i sacerdoti e nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte, e l’hanno crocifisso. Noi pensavamo che sarebbe stato lui a liberare Israele, ora sono passati tre giorni dall’avvenimento di queste cose, certe donne delle nostre ci hanno stupito; essendo andate la mattina al sepolcro e non avendo trovato il corpo di egli, sono venute dicendo d’aver avuto una visione di angeli, i quali dicono che egli vive. Ed alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e l’hanno trovato così come l’avevano descritto le donne, ma non hanno visto Gesù. Allora egli disse loro: O sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non era necessario che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E iniziando da Mosè, e proseguendo attraverso tutti i profeti, spiegò loro ciò che si riferiva a lui in tutte le Scritture. Quando furono al villaggio dov’erano diretti, egli fece per passare oltre ma essi insistettero perché rimanesse con loro: rimani con noi poiché si fa sera e il giorno sta già giungendo al termine. Egli entrò per rimanere con loro. E quando egli si mise a tavola con loro, prese il pane, e fece la benedizione; e spezzato lo diede loro. Allora i loro occhi si aprirono, e lo riconobbero; ma egli sparì sotto i loro sguardi.

Il vangelo vuole insegnare che nonostante la vita possa essere segnata dalla sofferenza (Gesù viene crocefisso lasciando senza speranza i fedeli) non bisogna mai perdere la speranza perché attraverso la redenzione dei peccati e l’amore si può vincere persino la morte.

Contesto storico del Vangelo 

Il vangelo di Luca viene scritto negli anni 80, anni reduci di difficoltà. Nel 64, infatti, Nerone, per scagionarsi dall’accusa di aver appiccato il fuoco alla città di Roma, accusò i cristiani di “odio verso il genere umano”, alimentando definitivamente l’astio della popolazione romana verso questa categoria già in minoranza, dando il via a una grande persecuzione. Il martirio degli apostoli oppressi in quel periodo si concluse con la morte di due di essi: Pietro fu crocifisso, mentre Paolo fu decapitato.  Nel 66 i giudei si ribellano all’Imperatore Caligola che aveva fatto erigere una statua con le proprie fattezze nel tempio di Gerusalemme, ritenendosi un Dio e successivamente, negli anni 70, ebbe luogo un assedio a Gerusalemme da parte dell’esercito romano, guidato dal generale che diventerà l’imperatore Tito, dove risiedevano i ribelli giudei; la città venne conquistata e poi distrutta dai combattenti romani. Dopo la caduta di Gerusalemme i ribelli zeloti (gruppo politico-religioso giudaico) trovarono rifugio a Masada, nella Giudea sud-orientale. La città venne assediata dai romani nel 73 che, dopo aver fatto irruzione nella cittadella, si trovarono davanti solo corpi morti, conseguenza di un suicidio di massa, segno evidente della volontà dei giudei di non piegarsi alla persecuzione romana.

Momento rappresentato dal Merisi

Il momento rappresentato in entrambe le tele di Caravaggio è il culmine dell’episodio sopracitato del Vangelo di Luca (vv. 28-31): il momento della benedizione del pane durante il quale i due discepoli realizzano che il pellegrino che gli aveva accompagnati per tutto il viaggio fino al castello di Emmaus e che avevano esortato a restare con loro quella sera era in realtà Cristo risorto e appaiono stupefatti nei gesti e nelle espressioni nella prima tela, sorpresi con decoro e compostezza nella seconda.

Di seguito le analizzeremo separatamente per comprendere al meglio le differenze stilistiche, cromatiche, di impostazione e, importantissime, della luce.

“Cena in Emmaus” (prima versione)

  • Anno: 1601–1602 (periodo romano)
  • Tecnica: olio su tela
  • Dimensioni: 139×195 cm
  • Committente: Ciriaco Mattei
  • Collocazione attuale: National Gallery, Londra

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Il momento della benedizione del pane e del riconoscimento di Cristo è qui rappresentato al culmine dell’azione che è reso in modo incredibile, in particolar modo dai gesti delle figure che affiancano il Messia; notiamo come il discepolo Cleofa, a sinistra, è in procinto di alzarsi dalla sedia Savonarola per lo stupore della vista di Cristo e la realizzazione della sua Resurrezione, a differenza della figura dell’oste che assiste alla scena inconsapevole di quel che sta accadendo pur capendo che si tratta di un momento importante. Il gomito di Cleofa è in primo piano e tenta di allargarsi al di fuori della composizione, creando uno sfondamento prospettico; l’altro discepolo, a destra, (spesso identificato come Pietro), porta al collo la conchiglia del pellegrinaggio e allarga le braccia a simboleggiare la croce, creando un collegamento tra luce e oscurità, con la mano sinistra troppo grande anatomicamente ma espediente necessario per guidare l’occhio dello spettatore verso Cristo, centro della rappresentazione. Il Messia, soggetto principale dell’opera, non mostra i segni della Passione ma è rappresentato sbarbato, giovane, e il suo volto, le sue fattezze, comunicano armonia, rinascita e speranza di una vita eterna dopo la morte. Gli oggetti presenti sulla tavola sono quelli caratteristici dell’Eucarestia: acqua, vino, pane, dipinti con una minuziosa indagine dal vero, punto fondamentale dello stile del pittore, mentre la precisione di rappresentazione della natura morta rimanda a influenze lombarde che Caravaggio deve aver appreso vedendo soprattutto i dipinti di Lorenzo Lotto e del suo maestro Simone Peterzano, nella cui bottega era solito esercitarsi quasi esclusivamente su nature morte, commissionategli dal maestro. Tutti questi elementi tradizionali sono inseriti in un contesto di meraviglioso realismo che coinvolge lo spettatore e lo invita a vivere la scena accanto a personaggi estremamente umanizzati in un clima quotidiano.

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I colori, tipici del periodo romano di Caravaggio (o “periodo chiaro”), che ha inizio con il suo trasferimento a Roma nel 1592, appena ventunenne, sono colori pieni, vividi, così realistici che non risultano finti ma rendono alla perfezione qualunque tipo di superficie il pittore dipinga; si notino, per esempio, l’incarnato liscio, formoso del Messia e lo sgargiante rosso a contrasto con il candido bianco della sua veste. La luce, fondamentale nella carriera dell’artista, ha un’incidenza diversa per ogni oggetto che colpisce, in modo da renderne sorprendentemente aderenti al vero le differenti superfici: ed ecco che la brocca di cristallo poggiata sul lato sinistro del tavolo risulta sottilissima e più cristallina dell’acqua che contiene, illuminata da un bagliore di luce proveniente dal lato destro della scena e la pelle di Gesù appare incredibilmente liscia, soda, florida grazie al getto di luce che sprigiona il suo viso e che rappresenta metaforicamente la rivelazione della sua Resurrezione e alle ombre moderate che la modellano. In questa tela, come negli altri lavori, Caravaggio non utilizza il disegno preparatorio ma, dopo aver steso sulla tela un fondo rosso-bruno (per le tele romane, nero per le tele successive) incide rapidamente con uno stilo, prima che il fondo si asciughi, l’ingombro delle figure, poi successivamente perfeziona le figure fino a raggiungere l’effetto finale di naturalismo ricercato. Questa tecnica stilistica accompagnerà Caravaggio per tutta la durata della sua travagliata carriera di pittore.

 

“Cena in Emmaus” (seconda versione)

  • Anno: 1606 (feudi Colonna)
  • Tecnica: olio su tela
  • Dimensioni: 141×175 cm
  • Committente: marchese Patrizi
  • Collocazione attuale: Pinacoteca di Brera, Milano

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La scena della benedizione del pane, pur essendo rappresentata in modo molto simile alla tela di Londra nella struttura, ha in questa versione diverse differenze coloristiche, luministiche e stilistiche legate soprattutto al momento in cui quest’opera viene dipinta e alla situazione che vive il pittore durante quegli anni. Il dipinto fu commissionato dal marchese Patrizi e viene realizzato a Zagarolo mentre Caravaggio si trova sotto la protezione dei Colonna in seguito all’omicidio di Ranuccio Tommasoni, del quale è accusato. Il soggetto dell’opera è lo stesso della prima versione romana ma la scena è posteriore alla tela di Londra, perché il pane appare sulla tavola già spezzato, e la rappresentazione si sviluppa in un’atmosfera completamente mutata, più intima nei gesti e nelle espressioni che seguono la realizzazione da parte dei discepoli della Resurrezione di Cristo; i discepoli del Messia sono disposti analogamente alla tela di Londra ma il loro atteggiamento, come già accennato prima, non è più di completo sbalordimento ma di devozione e velata tristezza mista a comprensione; l’oste, che nel dipinto di Londra non comprende il momento che gli si presenta davanti agli occhi, è qui ritirato rispettosamente in meditazione e la vecchia signora, non volendo interrompere l’importante avvenimento, si blocca nell’atto di servire l’agnello. I gesti sono molto contenuti e intimi e gli oggetti sulla tavola risultano impoveriti e messi in evidenza nello stesso tempo rispetto alla prima versione del 1601: sulla tavola sono presenti il pane già spezzato, una brocca dell’acqua e due piatti di cui uno vuoto, simboli eucaristici rappresentati in modo scabro che contrastano con l’abbondanza di cibo e colore della tela londinese. I modelli che usa Caravaggio per i suoi quadri sono persone comuni e in questo caso la scelta è particolarmente azzeccata perché essi fungono da testimoni della salvezza di cui è portavoce Cristo risorto, salvezza che tocca tutti, ricchi e poveri, senza distinzioni. I colori sono terrosi, cupi, la luce e le ombre sono caratteristici del “periodo scuro” del pittore che avrà inizio proprio negli anni in cui questa tela è stata composta e nel quale il pittore ingagliardirà gli scuri e utilizzerà le ombre come strumento per costruire la figura. La luce è fioca e la scena principale è immersa nel buio; la rappresentazione è resa realistica dal fatto che il pittore dipingeva i suoi modelli in stanze buie in cui venivano illuminati da una luce dall’alto in modo che quest’ultima non si disperdesse per tutto il locale e per dare più forza al chiaroscuro delle ombre (Bellori: “[…] che non faceva mai uscire all’aperto del sole alcune delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’area bruna d’una camera rinchiusa; pigliando un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombre al fine di recar forza con veemenza di chiaro e di oscuro”). La tecnica è ridotta all’essenziale, i colori a olio abbondantemente diluiti sono stesi sulla tela con rapide pennellate e in velature sottili, tanto che il fondo scuro di preparazione traspare.

Entrambe le versioni della Cena sono state molto criticate dal Bellori, che comunque non condivideva lo stile apertamente anti-manierista del pittore, e che nel suo “Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni” accusa entrambe le versioni di mancanza di decoro:

“[…] Un’altra di queste invenzioni dipinse per lo cardinale Scipione Borghese, alquanto differenze; la prima più tinta, e l’una e l’altra alla lode dell’imitazione del colore naturale; se bene mancano nella parte del decoro, degenerando spesso Michele nelle forme umili e vulgari. […]”

“[…] Nella Cena in Emmaus, oltre le forme rustiche delli due apostoli e del Signore figurato giovine senza barba, vi assiste l’oste con la cuffia in capo, e nella mensa vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane fuori di stagione. Sì come dunque alcune erbe producono medicamenti salutiferi e veleni perniciosissimi, così il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura. […]” 

In particolare individua aspetti di mancanza di decoro sia nelle immagini che nei testi della prima versione: le forme degli apostoli sono rustiche, il Cristo sbarbato non è coerente al racconto dei vangeli perché non riporta i segni della Passione, la figura dell’oste che assiste alla scena (dice il Bellori) sembra quasi una caricatura, il cesto di frutta è fuori stagione, tutti elementi già precedentemente approfonditi nelle due descrizioni delle tele.

In contrapposizione, come già citato, Roberto Longhi trova nel quadro del 1602 un’iconografia coerente con la tradizione della pittura veneta, che deve aver influenzato il Merisi nell’età giovanile, soprattutto nell’idea di rappresentare la tavola coperta da un tappeto a sua volta coperta da una tovaglia bianca e nella scelta di valorizzare la natura morta.

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BIBLIOGRAFIA

  • Francesco Frangi, “Caravaggio a Roma e il primo caravaggismo”, in Lezioni di Storia dell’Arte. Dall’Umanesimo all’Età barocca, II, Milano, Skira 2003.
  • Dawson Carr, “Caravaggio e l’ultimo tempo 1606-1610”. Catalogo della mostra di Napoli Museo Capodimonte 23 ottobre 2004 – 23 gennaio 2005.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA «CAPUT ET MATER» DELL’ORDINE FRANCESCANO:

LA PORZIUNCOLA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

di Sara Biancolin

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«Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in paradiso!»

Questa la celebre frase che sarebbe stata pronunciata da San Francesco d’Assisi davanti al popolo e ai vescovi: la stessa che, appena un mese fa, ha ricordato e sottolineato papa Francesco nel suo discorso, in occasione della visita alla Porziuncola, per l’ottavo centenario del “Perdono di Assisi” (ossia la remissione dei peccati per tutti i pellegrini che varcano la porta del minuto santuario).

È infatti proprio questo luogo, la Porziuncola, uno dei punti fondamentali, se non il più importante, per comprendere al meglio la figura di San Francesco, senza dimenticare tuttavia il notevole valore storico-artistico che da secoli riveste questo grazioso edificio.

La piccola chiesa benedettina del IV secolo è incastonata al centro di una imponente e maestosa Basilica, quella di Santa Maria degli Angeli, costruita fra il 1569 e il 1679 su progetto di Galeazzo Alessi per celebrare i luoghi simbolo della vita e morte di Francesco. Quest’ultimo giunse in questi luoghi agli inizi del Duecento: a quel tempo l’odierna Porziuncola non era altro che una chiesetta abbandonata dedicata alla Vergine Assunta, circondata da un antico bosco di querce ai piedi della collina assisana.

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Fu lo stesso Francesco (dopo aver ottenuto dai monaci benedettini nel 1209 la concessione in uso della zona boscosa) a riparare la costruzione e a restituirle personalmente splendore e bellezza, fino a trasformarla, con il tempo, in punto di riferimento per se stesso e per la confraternita: dopo essere stato folgorato dalle parole «Va’ e ripara la mia chiesa», udite mentre pregava di fronte al Crocifisso di San Damiano, proprio qui alla Porziuncola egli comprese definitivamente la propria vocazione, si ritirò in totale povertà e all’accoglienza dei primi fratelli, fondò nel 1205 l’Ordine dei Frati Minori e nel 1211, con la conversione di Santa Chiara, anche quello delle Clarisse; la piccola chiesa vide inoltre la celebrazione dei primi “Capitoli”, ossia le riunioni generali dei frati, e nel 1216, per mezzo di Cristo, la concessione dell’Indulgenza del “Perdono di Assisi”. Dieci anni più tardi, infine, Francesco concluse qui la sua vita terrena, accogliendo la morte cantando: era il 3 ottobre 1226.

È Tommaso da Celano, nella biografia dedicata al frate assisano, a riferirci proprio del trasferimento di Francesco in un luogo chiamato “Porziuncola” (Portiuncola, in latino), il cui nome può etimologicamente basarsi su due ipotesi: esso deriverebbe forse da “piccola porzione di terreno” su cui sorge la chiesetta, un tempo appartenente al vasto patrimonio dei benedettini, oppure indicherebbe una “piccola porzione di pietra” del Sepolcro della Madonna, che quattro pellegrini riportarono dalla Terra Santa e inserirono, come reliquia, nella muratura.

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L’edificio presenta una pianta rettangolare di 9 metri di lunghezza per 4 di larghezza e, sebbene alcuni elementi abbiano subìto rimaneggiamenti nel corso del tempo (dalle finestre alla copertura con volta a botte), il prezioso fascino della costruzione non è stato per nulla intaccato. Esternamente, la piccola chiesa presenta una conformazione a capanna, sulla cui sommità si erge un’edicola a cuspide in stile gotico, ove fu collocata una statua trecentesca detta “Madonna del Latte” (l’originale è in realtà attualmente esposta all’interno del Museo) di manifattura senese. È tuttavia il grande e colorato affresco in facciata a catturare l’attenzione: quest’ultimo, frutto dello scrupoloso lavoro eseguito nel 1829 da Friedrich Overbeck di Lubecca, raffigura “San Francesco che implora Gesù e Maria per ottenere l’Indulgenza plenaria”, opera che è andata a sostituire gli affreschi seicenteschi realizzati dal pittore assisano Girolamo Martelli; al di sopra del portale una scritta latina recita:

“Questa è la porta della vita eterna”, mentre un’altra posta sull’ingresso reca la frase “Questo luogo è santo”, evidente prova di come Francesco considerasse la chiesetta degna di ogni onore e venerazione. Sul lato destro, invece, sono ancora visibili parti di affreschi quattrocenteschi raffiguranti “San Bernardino e Madonna con Bambino in trono e i Santi Francesco e Bernardino”, mentre sul lato posteriore è possibile ammirare un meraviglioso affresco con scena della “Crocifissione”, opera attribuita solo nel 1998 a Piero Vannucci, il famoso Perugino, considerato il più importante pittore umbro; a testimoniare l’importanza rivestita da questo affresco è proprio il Vasari, che in un passo de “Le Vite” ce ne descrive in pochi ma efficaci tratti il lavoro di realizzazione: «… particolarmente in Ascesi a Santa Maria degli Angeli, dove a fresco fece nel muro, dietro alla Cappella della Madonna che risponde nel coro de’ frati, un Cristo in croce con molte figure».

(da G. Vasari, in Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, 1568).

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La copertura, accuratamente analizzata nel corso di uno scrupoloso lavoro di pulitura del tetto, si è scoperta essere, originariamente, in pietra rossa e bianca disposta a formare particolari motivi geometrici con stelle a otto punte e una bordatura a scacchiera.

Lo spazio interno, spoglio e austero, è invece caratterizzato da una volta a botte a sesto acuto; la muratura e le pietre non squadrate che compongono l’edificio sono state levigate nel corso dei secoli dalle mani dei devoti e dei pellegrini imploranti misericordia, i quali, una volta giunti ed entrati nella Porziuncola, non potevano inoltre non rimanere folgorati dalla bellezza della tavola posta in alto sulla parete di fondo appena sopra l’altare, rappresentante l’ “Annunciazione e Storie del Perdono di Assisi”, abilmente realizzata nel 1393 da Prete Ilario da Viterbo: si tratta di una serie di episodi legati alla vita del Santo, abilmente organizzate nell’immenso polittico su fondo in oro.

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Al centro è posizionata la scena dell’Annunciazione: la Vergine si trova elegantemente seduta sul trono e regge il libro delle Sacre Scritture con la mano sinistra, mentre l’Arcangelo Gabriele le rivela che è stata scelta da Dio per diventare Madre del suo Figlio. Attorno ruotano le varie “Storie del Perdono di Assisi”, fra le quali: in basso a destra, la scena di Francesco che, completamente nudo, si getta fra le spine in segno di compartecipazione al dolore di Cristo; appena sopra, Francesco tiene alcune rose fra le mani mentre viene accompagnato da due angeli alla Porziuncola; in alto, l’apparizione del Cristo e della Vergine al Santo, davanti all’altare mentre offre una corona di rose. A sinistra, scendendo, troviamo Francesco nell’atto di implorare l’Indulgenza dinnanzi a papa Onorio III; in basso, invece, il Santo è raffigurato su un pulpito assieme ai sette Vescovi dell’Umbria mentre annuncia il privilegio del Perdono per mezzo di un cartiglio bianco nella mano destra, con su scritte le parole «haec est porta vitae aeternae»: è in tale occasione, il 2 agosto del 1216, che egli pronuncia la celebre frase «Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in paradiso!». Ancora, centrata in alto, è da menzionare la realizzazione della Beata Vergine che, con un volto candido e delicato, siede in trono mentre indossa un manto interamente damascato in oro: un chiaro invito per il fedele all’adorazione. La pala d’altare, recentemente sottoposta a restauro, per lungo tempo è rimasta coperta da un rivestimento in argento, al fine di proteggerne la superficie dall’annerimento provocato dal fumo di lampade e candele.

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Nel 1909 Pio X proclamò questo santuario francescano Basilica patriarcale e gli diede inoltre il titolo di Cappella papale; la piccola Porziuncola è così divenuta, per antichi e moderni, l’emblema delle memorie francescane, poiché capace di esprimere al meglio, soprattutto grazie alla propria dimensione storica, artistica e religiosa, la vita e le storie del Santo di Assisi, rendendone più che mai vivo il prezioso messaggio di fede.

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BIBLIOGRAFIA

  • Cianchetta, R. (1985), Arte e storia nei secoli. Narni-Terni: Plurigraf.
  • Giovannini, E. (2005), La Basilica di S. Maria degli Angeli in Porziuncola. Storia, Arte, Spiritualità. Città di Castello: Edizioni Porziuncola.

SALVE, MI PRESENTO: SONO LA “NIKE DI SAMOTRACIA”

SALVE, MI PRESENTO: SONO LA “NIKE DI SAMOTRACIA”

di Giulia Marenco

(IV Liceo Classico “Filippo Juvarra”, Venaria – TO)

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Parigi, capitale europea dell’amore, possiede un luogo, tempio di coloro che amano l’arte come si potrebbe amare una donna. Tale luogo si trova sospeso nell’oceano del tempo tra antico e moderno.

Un vero e proprio gioiello museale che, tra tante scale, corridoi e sale ne possiede una che è sorvegliata da una donna alata acefala, priva, per di più, di mani e braccia. Lei accoglie gli osservatori con la sua delicatezza e, a chi vi presta attenzione, racconta di sé e della sua storia:

«Salve, sono Nike, fino al IV secolo a.C. non avevo identità, anzi, ero spesso associata ad Athena, dea della Sapienza, delle Arti, della tessitura e delle strategie militari, ma dal III a.C. si cominciò a narrare fossi figlia di Pallade, che altri chiamano Pallante, ovvero il Titano che si unì con la ninfa Stige e da cui nacqui. Per fortuna non sono figlia unica, ho tre fratelli Cratos, personificazione della Potenza, Zelo, della costanza e la gelosia, e Bia, la violenza.

Infine ci sono io, Vittoria, “Nike” in greco, in qualità di messaggera della vittoria sportiva e bellica.

Il mio autore è ignoto, nonostante oggi molti ritengano che a realizzarmi fu lo scultore ellenistico Pitocrito, poiché al momento della mia scoperta sull’isola di Samotracia venne rinvenuto nei pressi un basamento che riportava il suo nome.

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Fui realizzata intorno al 190 a.C. in occasione della battaglia dell’Eurimedonte nei pressi di Side in Anatolia (nell’odierna Turchia) contro Antioco III il Grande re di Siria, nella quale furono alleate Roma, Pergamo, Rodi e Samotracia. Quest’ultima folle celebrare l’impresa con un grandioso santuario consacrato ai “Grandi Dei Cabiri” (vedi nota): una montagna a terrazzamenti su ognuno dei quali si sviluppava una parte della complessa planimetria del sito. Sulla sommità vi era un ninfeo a due livelli. Ecco, io mi trovavo sul ninfeo superiore.

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Cosa simile avvenne a Pergamo in Turchia con l’altare dedicato a Zeus Sotér e Athena Nikephòros (Zeus Salvatore e Atena portatrice di vittoria) per celebrare la vittoria del 240 a.C. della città sui Galati, alleati proprio dello stesso Antioco III di Siria, incaricando per l’impresa niente di meno che lo scultore ellenistico Firomaco di Atene.

Restai lì, a Samotracia, per secoli, poi sparì. Non vi dirò che fine feci! Vi basti sapere che venni ritrovata, “a pezzi”, il 15 aprile del 1863 nella stessa isola dell’Egeo da un certo Charles Champoiseau, viceconsole francese a Edirne, l’antica Adrianopoli, (città della Tracia: la regione sudorientale della Penisola balcanica comprendente il nordest della Grecia, il sud della Bulgaria e la Turchia europea). Qualche anno dopo, nel 1867, fui acquistata dai francesi, i quali mi destinarono al Louvre. Il viaggio da Samotracia alla capitale parigina fu lungo e impervio: da Samotracia a Costantinopoli, da qui al Pireo fino a Marsiglia e infine Parigi via treno. Nel 1884 fu costruita al Louvre una scala, la scala Daru, progettato da Hector Lefuel al fine di collegare la Galerie d’Apollon e il Salon Carré. Fu fatta apposta per me! E in cima a essa mi ergo trionfante in tutta la mia maestosità!

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In seguito, nel 1879, fu rinvenuto fra i resti del Santuario dell’isola egea il basamento su cui poggiavo e anche questi fu destinato al museo, sotto i miei piedi. Ero completa…beh, quasi…!! Infatti, solo nel 1950 l’Austria finanziò una nuova campagna di scavi grazie alla quale furono riportate alla luce porzioni della mia mano destra che gli austriaci tennero per sé e attualmente conservate al Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Potrete non crederci, ma posso asserire di essere rifatta! Nel 1884 l’ala destra e il seno sinistro mi furono rifatti…non in silicone, bensì in gesso. Ora, guardatemi! Sono fatta di marmo Pario, proveniente cioè dall’isola di Paro, mentre il basamento a forma di prua bireme è realizzato in marmo di Larthos, proveniente dall’isola di Rodi. Sono molto alta, seppur composta da quattro blocchi. Misuro, infatti, 2,75 m., senza “testa” (questa chissà che fine avrà fatta!), e con l’aggiunta del basamento, pari a 2,01 m., raggiunto, pensate un po’ i 4,76 m. Adesso tenetevi forti! Peso la bellezza di 30 tonnellate, ma non azzardatevi a darmi dell’obesa, poiché ho una silhouette da far invidia a una modella. E in origine ero pure policroma, con effetti delicatamente chiaroscurali, memori della lezione di Prassitele e compagni.

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La mia veste è sottilissima, ottenuta per mezzo di quell’inganno illusionistico detto “effetto bagnato” di scuola fidiaca, e aderisce alle mie membra come fossi investita controvento: quel vento di sapore salmastro che ti schiaccia addosso i vestiti e ti scompiglia i capelli…ah no, aspettate….

Le linee sulla mia veste, queste linee guida pluridirezionali non vi fanno presupporre che io abbia davvero il vento contro, come se fossi appena atterrata sulla nave? Sono la messaggera della Vittoria e atterro sulla prua bireme con la corona di alloro nella mano sinistra e la tromba (o uno stendardo, sta a voi scoprirlo) nella destra per annunciare la vittoria su Antioco III. Eh, già, qui Pitocrito (o ignoto) compì un memorabile artificio tecnico rendendo il moto del mio corpo sensualmente sinuoso come per le opere lisippee.

Vedete come sono realistica? Non v’ispiro un senso di libertà come se da un momento all’altro potessi spiccare il volo?

Eccomi! Mi chiamano “Nike di Samotracia”, sono bellissima e non brillo per modestia.

Pensate, sono così bella che anche voi senza saperlo mi portate ai piedi! Conoscete tutti le sneakers della Nike, no? E conoscerete senz’altro il celebre logo che le contraddistingue? Si chiama “Swoosh” (in inglese “fruscio”) e non è altro che la stilizzazione della mia figura pensato nel 1972 da Carolyn Davidson, una studentessa di grafica alla Portland State University. Costei, su invito del prof. Phil Knight e per un compenso di appena 2 dollari l’ora, diede libero sfogo alla sua creatività e ispirandosi direttamente alla mia posa fluttuante ideò il celebre marchio della futura Nike, alla cui fondazione stava collaborando lo stesso prof. Knight.

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Visto? A volte studiare Storia dell’arte aiuta e serve a qualcosa! Della serie: “prendi l’arte e mettila da parte”… potrà sempre tornarti utile un domani. Senza la mia storia, la Davidson non avrebbe avuto la stessa risonanza internazionale e le sneakers non avrebbero avuto il loro “swoosh”. Ma non fu la sola! Anni prima, esattamente nel 1913, un certo Umberto Boccioni, artista calabrese con la fissa per la velocità e per il progresso futurista, creò una celebre scultura bronzea dal titolo “Forme uniche della continuità nello spazio”. Adesso, voglio dire, osservate bene e ditemi se questo scultore (etichettato come “anticlassico”) non abbia guardato al mio profilo! Quindi merito un applauso, non credete? Suvvia, non siate avari di complimenti!

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Eppure, sappiate non sono, per così dire, figlia unica! Ho una sorella maggiore, infatti, bella come la sottoscritta: la “Nike dei Messeni e dei Naupatti”, scolpita da Paiònios di Mende nel 420 a.C. circa per celebrare la vittoria di Sfactèria sugli Spartani del 425 a.C. Bè, sì, lo ammetto! Rispetto a me è più malconcia, ma che volete, data l’età! Tuttavia, la ragazza si difende ancora bene! Non trovate?

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Tornando a me, tra fine 2013 e luglio 2014 mi sono rifatta il trucco, sottoponendomi a un lifting di dieci mesi costato ben quattro milioni di euro. Ma abbiate pazienza, ne avevo proprio un gran bisogno!

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Cari spettatori, scusate se magari sono stata prolissa o vi ho annoiato, ma dopo tanti anni qui…

Sono un po’ fuori di “testa!”».

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Nota. Gli Dei Cabiri erano misteriose divinità ctonie dell’oltretomba. Essi erano venerati in un culto misterico che aveva il suo centro presso Samotracia, culto legato, inoltre a Efesto.

Proprio Efesto, unendosi con Cabeiro, figlia di Proteo, ebbe Cadmilo, il quale, a sua volta, ebbe tre figlie dette le Cabridi e tre figli, i Cabiri.

IL “BATTESIMO DI CRISTO” DI PIERO DELLA FRANCESCA

IL “BATTESIMO DI CRISTO” di PIERO DELLA FRANCESCA  

L’OPERA PIERFRANCESCANA PRESENTATA DA DUE BRILLANTI STUDENTI SEDICENNI DI UNA TERZA, INDIRIZZO GRAFICA, DEL LICEO ARTISTICO STATALE “FELICE FACCIO” DI CASTELLAMONTE CANAVESE (TORINO)

di Jessica Giovando e Pietro Pedrazzoli

  • Data: 1440-48.
  • Committenti: Monaci benedettini Camaldolesi di Borgo Sansepolcro (Arezzo).
  • Tecnica: Tempera su tavola.
  • Misure: 167 x 116 cm.
  • Luogo di ubicazione originario: altare maggiore della Chiesa di Santa Maria della Pieve, Borgo Sansepolcro (Arezzo).
  • Luogo di ubicazione attuale: National Gallery di Londra dal 1861.

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Commissionata dai monaci Camaldolesi per il loro abate generale Ambrogio Traversari, il Battesimo di Cristo è la prima opera giovanile attribuita unanimemente dalla critica a Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, Arezzo, 1413 – ivi 13 ottobre 1492). La tavola venne poi inglobata come pannello centrale del Polittico realizzato nel 1460 da Matteo di Giovanni per l’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria della Pieve di Borgo Sansepolcro (Arezzo).

È una sacra rappresentazione di soggetto neotestamentario tratto dal terzo capitolo del Vangelo di San Matteo: al centro della tavola, posto sulla bisettrice, è il Cristo in raccoglimento con le mani giunte nell’atto di ricevere il battesimo da San Giovanni Battista su una sponda del fiume Giordano in Galilea, mentre lo Spirito Santo sotto forma di colomba bianca discende sul capo del Salvatore.

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Il volume cilindrico del corpo di Cristo è ripetuto a sinistra dal tronco dell’albero di noce, le cui fronde, dalla forma emisferica, ricordano il profilo di una cupola posta sopra l’immagine divina del Dio incarnatosi e fattosi uomo.

Secondo la tradizione sarebbe un noce con duplice significato:

  • è un riferimento alla “Val di Nocea”, antico nome con cui era chiamata la valle di Borgo Sansepolcro;
  • è un riferimento al noce cresciuto dalla bocca di Abramo e da cui verrà tratto il patibolo della Passio di Cristo, secondo la Legenda aurea di Jacopo da Varagine del 1298, e, come tale, simbolo della vita che si rigenera per mezzo della Redenzione dalla schiavitù del peccato.

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Dio non è presente fisicamente nella scena, bensì la sua emanazione divina appare sotto forma di sottile polvere dorata in asse con la colomba bianca dello Spirito Santo.

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Più in profondità ancora, troviamo dei monaci bizantini, che camminano lungo una stradina tortuosa, tranne uno che indica l’evento prodigioso della discesa dello Spirito Santo nella persona di Cristo.

Alla sinistra del noce ci sono tre angeli: due di questi si tengono per mano e sono coronati rispettivamente di rose e foglie, allegoria delle due Chiese d’Oriente d’Occidente; il terzo, invece, vestito di rosso, bianco e blu (i colori della Trinità) con il palmo della mano compie un gesto di riconciliazione simbolica tra le due Chiese, divise dopo il Grande Scisma del 1054 e riavvicinatesi, seppur invano, a seguito del Concilio di Firenze-Ferrara del 1439. L’opera, infatti, è letta come metafora del Concilio stesso e riaffermazione del Dogma trinitario.

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Sullo sfondo un neofita compie l’azione dello spogliarsi o rivestirsi. Ciò può esser interpretato secondo una duplice chiave di lettura: si spoglia dei peccati o si riveste, dopo il battesimo, di una nuova candida veste spirituale.

Il paesaggio con il fiume, le colline e la cittadina turrita dovrebbe rappresentare la valle del Giordano con il paesaggio circostante, ma Piero della Francesca decise di ricontestualizzare l’episodio evangelico rappresentando un paesaggio a lui conosciuto, vale a dire la Valle di Nocea bagnata dal Tevere e la cittadina turrita di Borgo Sansepolcro sullo sfondo.

Tutta la scena è pervasa omogeneamente da una luce universale, dunque priva di forti contrasti chiaroscurali. La profondità spaziale è resa attraverso alcuni espedienti: le grandezze che degradano con la distanza, i tronchi tagliati, la stradina tortuosa percorsa dai monaci, il corso ondulato del fiume sul quale riflette la natura circostante.

Roberto Longhi asseriva che:

«egli lasciò nel mondo della pittura le creazioni di una forma monumentale così nel complesso della composizione convergente su piani ideali verso il foco prospettico come nei particolari singoli delle figure determinate imperativamente in pose statuarie ed appartate, in gesti sospesi – in tutto quel complesso mimico che per la critica letteraria è stato scambiato per impassibilità superbia ieratismo mentre non è che il portato inevitabile della poesia…prospettica. […]. Negli accordi di colore offre le più forti e delicate contrapposizioni di valore – in cui si manifesta il vero colorismo- dove un rosa pallido e un violaceo autunnale s’accostano a qualche poderoso tono composito di rosso, di marrone o di bruno, dove si armonizzano accosti il cinabrio e l’oltremare, le due tinte più difficili a giustapporsi senza stridore. Da Piero adunque la creazione del colorismo moderno come armonia calda solare di toni contrapposti e di gamma totale distesi sulle vaste praterie di un riposo coloristico non più raggiunto». 

(Roberto Longhi, “Breve ma veridica storia della pittura italiana”, 1928)

 L’opera è sottoposta a uno schema compositivo rigorosamente geometrico: il triangolo equilatero che ha vertice nel piede destro di Cristo con la sua base immaginata attraverso il prolungamento orizzontale delle ali spiegate della colomba; l’ideale semicirconferenza inferiore del cerchio, determinato dalla forma arcuata del supporto ligneo, coincide con l’ombelico di Cristo (caput mundi). Tale cerchio, a sua volta, ne inscrive al suo interno un altro di minor diametro coincidente con la colomba dello Spirito Santo.

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Le figure plastiche dai volti sereni imperturbabili e quasi inespressive (atarassiche), appaiono statiche, immobili, come bloccate o fisse in un gesto statuario, le quali non esprimono drammaticità o tensione emotiva come quelle di Masaccio, Donatello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi e Botticelli, piuttosto una perfetta armonia d’insieme (spazio, figura, architetture, luce e colore). Ciò, perché il rigore geometrico, luministico e cromatico dev’essere espresso anche con la quiete grandezza e la monumentale serenità dei personaggi rappresentati.

Come ricorda lo storico d’arte Bernard Berenson:

«Dopo sessant’anni d’intima dimestichezza con opere d’arte d’ogni specie, d’ogni clima e d’ogni tempo, sono tentato di concludere che a lungo andare le creazione più soddisfacenti sono quelle che, come in Piero e in Cézanne, rimangono ineloquenti, mute, senza urgenza di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto e il loro aspetto.Se qualcosa esprimono, è carattere, essenza, piuttosto che sentimento o intenzioni di una dato momento. Ci manifestano energia in potenza piuttosto che attività. La loro semplice esistenza ci appaga. […] Possiamo dunque permetterci di generalizzare intorno a quest’arte del passato, e affermare che nei suoi momenti quasi universalmente reputati supremi, essa è sempre stata ineloquente come in Piero della Francesca, sempre, come in lui, muta e gloriosa. Sono tentato di dir di più, di suggerire che forse, nel regno visivo, l’arte vera – in quanto distinta da non importa quali valori informativi o semplici novità o stravaganze o giochi – sempre tende, a comunicare la pura esistenza delle figure ch’essa presenta».

(Bernard Berenson, ‘‘Piero della Francesca o dell’arte non eloquente’’, 1950)

Jessica e Pietro sono un nobile e palese esempio di quanto una didattica votata all’indagine analitica dei contenuti proposti dalla docenza costituisca indiscutibilmente un valore aggiunto al percorso formativo curricolare del corpo studentesco, sovente schivo o superficialmente interessato ai movimenti figurativi e relativi linguaggi espressivi analizzati dalla Storia dell’Arte.

Il messaggio è chiaro e rivolto a tutte le nuove generazioni. Basta solo saperlo cogliere e farne tesoro! Perché, come ricorda quella mente sottile di Oscar Wilde:

«L’arte non deve mai tentare di farsi popolare. Il pubblico deve cercare di diventare artistico». (“L’anima dell’uomo sotto il socialismo”, 1891)

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IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. SICILIA: UN PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITA’ A RISCHIO

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. SICILIA:

UN PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITA’ A RISCHIO

di Filippo Musumeci

UNESCO

Conoscete la barzelletta sui siciliani che vede come protagonisti Gesù e San Pietro?? Nooo??? Allora la racconto velocemente!!!
– Gesù: Pietro, recati sulla terra e cercami il nuovo Eden.
– Pietro: obbedisco, o mio Signore.
Pietro va e trova il nuovo Eden nella Sicilia. La più grande isola del Mediterraneo bagnata da tre mari e baciata dal sole; scrigno di tesori artistici di inestimabile bellezza, di folkore, fede popolare e meraviglie culinarie.
– Pietro: Mio Dio, non esiste al mondo un paradiso terrestre simile a questo. Devo subito comunicarlo al mio Signore.
Pietro torna in Paradiso e riferisce il tutto a Gesù.
– Gesù: Grazie Pietro! Hai fatto un ottimo lavoro! Puoi andare, adesso.
– Pietro: Perdonami,o mio Signore, solo una curiosità e poi ti lascerò ai tuoi gravosi impegni. Ma se informi l’umanità dell’esistenza di questo nuovo Eden, tutti cercaranno di andarvi a vivere e, ricercando l’elisir di eterna vita, nessuno più vorrà giungere a te.
– Gesù: ahhhhh,mio caro Pietro, puoi star tranquillo. Questo non accadrà! E sai perché?
– Pietro: No, Signore! Perché?
– Gesù: Bé, semplice: in Sicilia c’ho messo i siciliani!!!

Questo racconto ludico può darci l’idea dell’immagine che la mia terra offre di sé al globo intero: un triangolo geografico dall’ineguagliabile esplosione del “bello” per la varietà quantitativa e qualitativa dei suoi tesori culturali. Eppure vergognosamente “stuprata” dai suoi figli. Sì, ripeto, “stuprata”, e senza tanti giri forbiti di parole. Perché questa è la sua “vera” sorte, alla resa dei conti, fin dai tempi dell’età preunitaria.
È un cancro inespugnabile, una piaga dilatante, una peste endemica che ti logora lentamente fino a privarti di ogni flebile barlume di orgoglio, di ambizione, di speranza.
Perché questo mio attacco ferocemente indomabile non è frutto di prese di posizioni a prioristiche, bensì è covato, celato, maturato sidente negli anni fino al tragico epilogo mortificante e irreversibile.
Ma arriviamo al dunque. Il 14 novembre scorso alcuni giornali titolano (e il web non è da meno!) “Il record dei siti Unesco che la Sicilia può perdere. Il presidente del comitato per la promozione dei siti d’interesse storico – artistico annucia:«L’isola non gestisce il suo patrimonio e non investe»”. Pure questa, adesso?? Perdere i riconoscimenti Unesco faticosamente conquistati nell’ultimo ventennio??
Il presidente in questione è il maltese Raymond Bondin, presidente onorario del Comitato delle città e dei villaggi storici UNESCO, il quale ci va giù pesante (e fa pure bene, con tutta la mia sacrosanta solidarietà!).
«Non capisco in tutta sincerità come i politici siciliani non riescano a gestire il patrimonio dell’Isola in maniera corretta. Anzi, non lo gestiscono affatto. Da tempo. La Regione non riesce neanche a spendere i pochi finanziamenti che arrivano. A me sembra che la Sicilia stia facendo di tutto per perdere i riconoscimenti Unesco da noi concessi in questi anni».E non parliamo di briciole, ma di milioni di euro da investire sulla promozione del patrimonio culturale. Ma non è finita, ahimé!! Ancora Bondin dichiara: «Nel mondo intero, non esiste alcun posto con così tanti tesori come la Sicilia. Non esiste un altro luogo con una concentrazione così densa di meraviglie. Eppure, dopo tanti discorsi, continue nomine di assessori regionali, soprintendenti et similia, siamo all’anno zero. L’amara realtà è che la Sicilia non è capace di gestire l’immensa fortuna che ha».
Mi permetto di aggiungere, caro presidente Boldin, più che all’anno zero, in Sicilia si è ancora al Paleolitico Superiore, cioè all’età dei graffiti! E lo confesso con profondo sconforto da siciliano e da storico dell’arte, riconoscendo, pure, per carità, di non essere mica Brandi, Longhi, Argan o Settis per poter emettere sentenza a scapito dell’amata Trinacria.
Ma, diamine, basta davvero ben poco per prender coscienza dell’amara realtà insulare tra incuria, poca professionalità e “dolce far niente” – caratteristica, questa, insita nel DNA degli addetti ai lavori che di appassionata promozione delle bellezze nostrane ne ignorano persino l’odore.
Un esempio fra tutti? Provate a chiedere chi siamo artisti del calibro di Domenico e Antonello Gagini, Filippo Paladini, Pietro Novelli, Giovan Battista Vaccarini, Rosario Gagliardi, Giacomo Serpotta, Olivio Sozzi e Francesco Lojacono, Ernesto Basile. Questi, osannati in passato dalla critica, restano relegati e lasciati così, “come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, di memoria ungarettiana.
Tuttavia, codesta scellerata negligenza non è una vostra colpa. Assolutamente no! Questa sarebbe da additare, piuttosto, a coloro, benpensanti e perbenisti, che occupano con boriosa vanagloria e tutto il peso della propria perversa incoscienza i seggi vellutati color porpora dei palazzi blasonati del potere, tra le altre cose, ereditati gratuitamente dagli antichi avi, senza dubbio più saggi e onorevoli dei loro beneamati figli.
Quella che fu capitale del Regno arabo – normanno, paga il prezzo più alto sul territorio nazionale per i conti sempre in rosso del governo siciliano (chissà, poi, perché!) a causa dei quali si deve l’effetto del devastante e incolmabile tasso di disoccupazione, mai assopito, e il conseguente esodo, come in passato (repetita iuvant) , di coloro che dicono <<basta>> e ci danno un taglio…in ogni senso con la litania dell’amor di patria. Perché, se è vero che non di solo pane vivrà l’uomo, è altrettanto vero che di pane è costretto a vivere l’uomo!
Eppure, i parlamentari dell’ARS sono i più pagati d’Europa e se la spassano sul serio, caspita!! Ma non è minimamente una mera questione di colore politico, poiché l’ultima campagna elettorale promise il decantato cambio di rotta, l’agognato giro di boa, l’avvento di un nuovo glorioso capitolo. Ma a chi volevate darla a bere!!!

Sono le solite demagogiche da palazzo! Illusioni e utopiche oasi nel deserto, nonostante la Sicilia non sia affatto un’arida e avvelenata distesa di campi sterili ma un paradisiaco Eden in mano a gattopardiani sciacalli. L’altro giorno un gentile lettore mi scrisse proponendo di affidare la Sicilia ai Romagnoli per cambiare finalmente le cose.
Caro lettore, quanta amara verità nelle tue parole!! <<Errare humanum est, perseverare autem diabolicum>> (“Commettere errori è umano, ma perseverare è diabolico”). E dato che non sappiamo gestire la nostra inestimabile eredità non giova a nulla perseverare.
Sì, perché in tal caso – salvo i casi di coloro che, amando le arti visive hanno provveduto da sé ad una decorosa e qualificata formazione – un adiposo interrogativo occuperebbe le parete del vostri emisfero in modo imperituro. E non pensiate che Antonello da Messina, Pirandello, Verga, Capuana, De Roberto e Guttuso se la passino  tanto meglio. Tutt’altro!! Certo, godono di una fama stellare che vive, ormai, di luce propria, ma poca roba rispetto agli onori meritatissimi che la patria dovrebbe riservar loro.
L’unico esente da tale oblio pare essere, al momento, Vincenzo Bellini, quello della “Norma” e della “Sonnambula” (e molte altre) al quale il comune di Catania, città natale del celebre musicista, ha persino intitolato lo scalo aeroportuale etneo. Come se mancassero altri nomi illustri da proporre, magari più congeniali alle funzioni della struttura commerciale! A proposito, sfatiamo un mito! Il cockail “Bellini”, inventato nel 1948 da Giuseppe Cipriani, deve il nome, sì, a un Bellini, ma non certo a Vincenzo, bensì a Giovanni, detto il Giambellino: padre del tonalismo veneto tardo-quattrocentesco, celebre “anche” per il rosso vibrante impiegato nei suoi dipinti.
Tutt’altra fama godono, invece, i gadget di cui andare meno fieri e che dilagano dappertutto (aeroporto incluso), come il “Padrino” con tanto di smorfia facciale alla Marlon Brando, oppure “u’ mafiusu” con coppola e lupara a seguito (tanto per non farci mancare niente!). E se indispettito provi a chiedere ragione di simili offensivi obbrobri ti senti rispondere dal negoziante di turno: «Cosa vuole? È business! Se i turisti li richiedono vuol dire che piacciono e io devo pur campare».
Ritorno annualmente al borgo natio, promettendomi sistematicamente di non “oziare” e, armato di enfatica brama , di riammirare splendori unici dinanzi ai quali in passato restavo in estasi per ore. Ma ogni volta dimentico di dovermi scornare con l’arcigna realtà per la quale mi logoravo da residente negli anni della giovenizza e degli studi. Inutile pianificare una tabella di marcia, poiché irrompe repentino lo stornello lento e nostalgico del disincanto: quello tanto odioso e che credi, ormai, trapassato remoto, anziché, com’è, vivo e vegeto, quando non sinistro…com’è in cuor suo… “li mortacci sua!!”. Ora parlo pure romanesco!!
Visitare i “pochi” musei teoricamente (almeno sulla carta) aperti?? <<Ma vogliamo “babbiare”?>> (ricorda Montalbano). Non ci sono fondi e manca il personale “qualificato”. Quindi “l’apertura dei musei è posticipata a data da destinarsi”, recitano sovente gli avvisi affissi alle porte d’ingresso “serrate”.
Ma scusate, qual è la novità? Questa è la “norma” in Sicilia. E di “norme” i siciliani ne conoscono tante, mica solo quella del povero Bellini. Ciononostante, esiste sempre da queste parti un piano alternativo, altrettanto valido e dal valore saziante: quello culinario… che di questi tempi è diventata la chiave di volta per qualsiasi problema.
“Cari turisti, pappetevi un buon piatto di pasta alla “norma” (con tanto di ricotta salata spolverata sopra) e non pensateci più, insomma! Perché in fin dei conti, la Sicilia è bella “anche” per questo, non soltanto per l’Arte!… L’Arte, poi!!!”.
Ma mi facciate il piacere di tacere con tanto di buon senso (qualora ce ne sia ancora un residuo sparso chissà dove) per lo meno!
Tanto parliamo di aria fritta! E Tomasi di Lampedusa insegna che: <<se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi!>>. Infatti la Sicilia cambia di volta in volta allo stesso modo, rimanendo sempre la stessa. Straordinario fenomeno!!
Ho imparato ad amare questo spicchio di crosta insulare grazie a quel senso di appartenenza che ogni siciliano si porta dietro, specie quando con ricordo verghiano lo sguardo è “da lontano”. Ma anche grazie a coloro che, pur non essendo siciliani d’origine lo furono, comunque, di adozione, insegnando a tutti noi a guardare quest’Eden con occhi inediti. Penso a Goethe e al suo “Viaggio in Italia” del 1817, nel quale scrisse: «L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra…chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita».
E ancora Cesare Brandi, che nel suo saggio “Sicilia mia”, pubblicato nel 1989, sostiene che «non c’è bisogno di ricorrere a miti, a memorie storiche, a raptus religiosi: la realtà è così complessa e diretta che comprende tutto come un composto di cui si ignorino gli ingredienti, ma se ne subisce l’effetto. E l’effetto è uno solo; in segreto ti dici, ma può esserci al mondo un paese più bello della Sicilia?».

Ma l’ultimo affronto all’inestimabile patrimonio artistico dell’isola proviene direttamente dagli scranni di Palazzo dei Normanni e risale all’aprile scorso. Con una deroga speciale, il governo Crocetta di centro-sinistra ha autorizzato per i prossimi mesi l’inopportuno tour  peninsulare dell’Annunciata di Antonello da Messina (1476-77) per le città di Torino, Roma e Milano nell’ambito della mostra “Mater”. E tutto ciò per far cassa, come sempre! Ma qui parliamo di una manciata di migliaia di euro (circa 10.000), dimenticando (?), evidentemente, la fragilità del celebre olio su tavola, inserito nel giugno 2003, non a caso, in un elenco di 23 opere inamovibili dal territorio insulare al fine di tutelarne lo stato conservativo, comprendente anche il Satiro danzante di Mazara del Vallo (Trapani) e la Venere di Morgantina” di Aidone (Enna). Dunque, non uno scambio culturale tra istituzioni museali consistente in un prestito reciproco di opere: “Io do a te e tu dai a me!”. Ma solo business, ovvero “mercificazione dell’arte”. Ma in fondo, a chi potrà mai importare questa mia impotente nenia?

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Le critiche per l’insana decisione sono state avanzate tempestivamente dall’opposizione nella persona del deputato regionale Nello Musumeci (NON è mio parente! Quindi non sussiste conflitto d’interesse!), ex presidente della provincia etnea:

<<Anziché avviare il sistema dei parchi archeologici, previsto dalla legge Granata e sperimentato con successo ad Agrigento, e dei musei dotati di autonomia gestionale e finanziaria, il governo regionale ‘apre’ nuovamente e incredibilmente ai prestiti delle nostre principali opere d’arte e dei nostri più importanti reperti. È una scelta che giudichiamo priva di senso e rischiosissima per il nostro patrimonio artistico. Il turismo culturale e la nostra immagine – conclude – non si valorizzano facendo viaggiare quadri e reperti, sottoponendoli peraltro a rischi enormi per cifre irrisorie. Il turismo nell’Isola si stimola garantendo l’apertura regolare e prolungata di tutti i musei e i parchi e la valorizzazione con eventi e mostre da organizzare in Sicilia>>.

La risposta potrebbe essere: <<No, non esiste un luogo più bello della Sicilia!>>.

Ma i suoi figli, stanchi e disincantati, fanno la valigia (come il sottoscritto) e tentano altrove altre strada, con quello “sguardo da lontano” di sapore melanconicamente verghiano.

– E quelli che restano?

– Beh, quelli che restano o sono disincantati al pari di quelli già emigrati!

– E chi ne deturpa allora l’immagine di quest’isola baciata dal sole e cullata dal mare?

– Viene deturpata da chi si crede figlio legittimo dell’isola, senza sapere, ahimé, di esserne sono una cancrena…Sì, una cancrena! Di quelle che, Pirandello insegna, sono dure da estirpare e che: <<Non si leva cchiù, manco cu ‘u cuteddu>> (“Non va via neppure con il coltello”).

– E l’effetto, dunque, quale sarà?

– L’effetto sarà inevitabilmente il rovescio della medaglia! E per cui si dirà:

Fortunato al chè siculo generato, 

seppur amaro in oculo il contrito abbaglio.

In abisso il bello amato in denso pantano,

di cotanto ozio imputato son fiacco e indignato.

(Filippo Musumeci)

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