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Ho sposato umilmente la causa della Storia dell'Arte per la primaria necessità di nobilitare il mio animo e conferirgli degnamente respiro. M'impegno quotidianamente, con i miei indiscussi limiti del caso, di trasmettere sentitamente ai miei simili, che la vita ha nominato miei interlocutori, non tanto il sapere, bensì l'amore per il sapere. E' l'unico patrimonio di cui dispongo al momento.

UN CAPOLAVORO DA RISCOPRIRE: “ELEZIONE DI SAN MATTIA ALL’APOSTOLATO” DI PIETRO NOVELLI, IL MONREALESE.

UN CAPOLAVORO DA RISCOPRIRE:

“ELEZIONE DI SAN MATTIA ALL’APOSTOLATO”

DI PIETRO NOVELLI, IL MONREALESE

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 di Filippo Musumeci

– Autore: Giovan Pietro Novelli, il Monrealese

(Monreale, Palermo, 2 marzo 1603 – Palermo, 27 agosto 1647)

– Opera: “Elezione di San Mattia all’apostolato”

– Anno:1640-42 ca.

– Tecnica: olio su tela, 390 x 288 cm.

– Committente: Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia e principe delle terre di Leonforte (Enna).

– Ubicazione originaria e attuale: Leonforte (Enna), Chiesa dei PP. Cappuccini, altare maggiore.

Perché un altro articolo (il quinto) sul Monrealese? A che pro?

Quale la necessità di investigarne ancora la figura? Ma soprattutto, perché continuare a “scornarsi”, insistendo sulle gesta di un uomo – caposcuola della pittura barocca siciliana nonché massimo artista dell’isola dopo l’eternamente attuale Antonello da Messina – le cui opere (custodite nei maggiori poli museali americani ed europei) furono celebrare per estro e qualità dai mecenati a lui contemporanei e dalla critica ottocentesca -novecentesca, ma il cui contributo offerto all’arte risulta oggi (con buona pace dei sensi) palesemente obliato dalla storiografia postmoderna? Insomma, amico mio, perché perseverare in questo gioco diabolicamente perverso, farsi del male e apparire banalmente ridicolo agli occhi dei lettori? Tentare l’impresa titanica della riesumazione forzata di un artista ignoto ai più credi possa giovare alla nobile (questa sì!) causa sposata?

Ma il perché è davvero a portata di mano, credimi! Non vedi? Il fine non risiede qui giammai in un atto di persuasione su di un artista piuttosto che su di un altro, né tantomeno elargire proclami ideologici votati a un discutibile e sterile residuo campanilistico, il cui vincolo, tra l’altro, avrebbe il sapore amaro di un imperdonabilmente limite tematico. Bensì si è mossi, in tutta sincerità, per l’esclusivo e disinteressato piacere di presentare, a coloro che ne sentiranno curiosità, l’opera di un artista “puro”, per destino nefasto, omesso dai manuali di Storia dell’Arte come dalla saggistica.

Bontà sua, il pittore siciliano godette in passato di particolari attenzioni da parte di chi acume possedette così abilmente, scorgendo nei volumi e nei timbri cromatici di questo maestro del Seicento il linguaggio di una sintesi perfetta tra classicismo idealizzante carraccesco di tradizione plastica e realismo caravaggesco, riberesco e vandyckiano di innovazione luministica: Gioacchino Di Marzo, Roberto Longhi, Guido Di Stefano, Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Claudio Strinati, Rossella Vodret, Vincenzo Scuderi, Vincenzo Abbate, Angela Mazzè, Giulia Davì, Maria Pia Demma, Dante Bernini e Maria Grazia Paolini (questi ultimi due vale la pena ricordare anche per aver curato nel 1967, con la preziosa collaborazione di Cesare Brandi, l’unica antologica su Filippo Paladini a Palazzo dei Normanni di Palermo) sono appena i più noti fra gli storici dell’arte impegnati nell’indagine scientifica delle componenti formali e stilistiche del Monrealese, chiarendo, come afferma Calvesi che: «Se dal Rubens stesso e da Annibale Carracci egli accoglie talvolta il suggerimento di una larga plasticità nello squadro dei corpi e di una robusta articolazione compositiva, e se dal Caravaggio e dal Ribera è indotto a un pronunciato realismo, il modello più congeniale alle sue educate e composte cadenze resta Van Dyck, particolarmente la pala palermitana dell’Oratorio del Rosario di San Domenico. Di lì sembra provenire il suo ideale di “maestria”, di sapienza come misura, nell’accorto dosaggio dei movimenti, che debbono animare la scena senza però turbare l’equilibrio, nella miscela delicata delle luci e delle ombre che non debbono creare forti contrasti, ma avvolgere atmosfericamente lo spazio e suggerire il devoto concerto dei sentimenti».

Nel quarto volume del “Dizionario della pittura e dei pittori” edito nel 1994 da Einaudi, a cura di Enrico Castelnuovo, Michel Laclotte, Jean Pierre Cuzin e Bruno Toscano, alla voce Pietro Novelli si legge: «Il suo linguaggio – una delle più alte espressioni di tutto il Seicento meridionale – può dirsi maturo quando Novelli giunge a Napoli, probabilmente tra il 1631 e il 1632 (periodo nel quale risulta assente da Palermo). Qui egli incise profondamente nella pittura locale e influì sullo stesso Ribera, cui pure si accostò in alcune opere di quel periodo».

E proseguendo nella lettura del testo si giunge quasi casualmente a quel passo illuminante, quasi l’incipit per il “capolavoro da riscoprire” che ci si è proposti di porre alla gentile attenzione del lettore: «le numerose tele per le chiese degli ordini religiosi, tra le quali la stupenda “Elezione di San Mattia ad Apostolo” (Leonforte, Cappuccini), sono abilissime esemplificazioni di questa sua non comune capacità di fondere le molteplici suggestioni – da Artemisia Gentileschi a Stanzione, da Vaccaro a Ribera, dai francesi ai fiamminghi – in una forte ed originale espressione pittorica ,il cui più evidente connotato può individuarsi in quell’intonazione nobile ed aulica che fa del Novelli in qualche modo l’equivalente meridionale del Gentileschi».

Esplicitati, dunque, i termini della cifra stilistica del pittore siciliano risulteranno, forse, più chiare le motivazioni alla base di questo scritto: assolvere il Monrealese, e una buona volta per tutte, dall’astorica (dunque infondata) accusa di “provincialismo” attraverso la lettura di un’opera poco noto per via della sua ubicazione geografica alquanto periferica rispetto al centro pulsante della cultura insulare del XVII secolo, Palermo, ma ciononostante pur sempre degna di  attenzioni per essere, qual è, fra le creazioni più alte e mature del pittore siciliano.

Fu lo storico Gioacchino Di Marzo a restituire nel 1856 la paternità del dipinto al Novelli, segnalando come presso il «convento dei PP. Minori Cappuccini […] nell’altare maggiore» fosse ospitato «il magnifico quadro rappresentante l’elezione di San Mattia all’apostolato, opera stupenda del Monrealese».

La grande tela fu commissionata tra il 1640-42 dal principe Nicolò Placido Branciforte e Lanza, conte di Raccuia, per l’altare maggiore della Chiesa dei PP. Cappuccini di Leonforte, nell’ennese, edificata per volere dello stesso principe come mausoleo di famiglia.

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Il soggetto religioso richiesto dal committente è la sacra rappresentazione evangelica contenuta nel cap. 1 degli Atti degli apostoli attribuiti a San Luca (autore anche di uno dei quattro Vangeli), relativa all’elezione di San Mattia come “nuovo dodicesimo” apostolo a seguito del suicidio di Giuda Iscariota nel Campo “Akeldamà” (in ebraico), tradotto come “Campo del sangue”:

<<In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato “Akeldamà”, cioè “Campo del sangue”. Sta scritto infatti nel libro dei Salmi:

“La sua dimora diventi deserta

e nessuno vi abiti,

e il suo incarico lo prenda un altro”.

Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione». Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato “Giusto”, e Mattia. Poi pregarono dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava».  Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli>>. (Atti degli Apostoli, 1, 15 – 26)

 Bisogna premettere, a titolo di cronaca, che il campo chiamato in ebraico “Akeldamà”, ovvero il “Campo del sangue”, sarebbe il medesimo citato da San Matteo nel cap. 1 del suo Vangelo e meglio noto come il “Campo del vasaio”:

<<Allora Giuda – colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il “Campo del vasaio” per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: «E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore»>>. (Vangelo secondo Matteo, 1, 3 – 10)

 Per quanto concerne, piuttosto, il significato profondo rivestito dall’episodio neotestamentario riportato negli Atti degli apostoli, l’elezione di San Mattia, quale nuovo apostolo eletto, dev’essere interpretata come la “chiamata” cristiana del credente a testimone del Magistero salvifico del Cristo Salvatore, dunque, simbolo di vita eterna e Redenzione. La stessa origine etimologica del nome “Mattia” esemplifica il concetto stesso di “elezione”, cioè di “scelta”, poiché esso non è altro che l’abbreviazione dell’ebraico Mattithiah”, tradotto come “dono di Jahvè”, vale a dire “dono di Dio”, inteso, più specificatamente, come “dono dell’Uomo-Dio”, o meglio “scelto dal Dio cristiano Uno e Trino” come “martire” (dal latino “martyry̆ris”, “testimone”), la cui festività ricorre secondo il calendario romano il 14 maggio, giorno votivo che ne ricorda il martirio subito. La tradizione vuole che fu condannato dai giudei per la sua fede alla pena della lapidazione prima di essere decapitato per mezzo dell’alabarda, poi divenutone il suo attributo iconografico. Oggi le spoglie mortali del santo sono venerate a Padova e custodite all’interno di un’ara marmorea posta nel braccio destro del transetto della Basilica di Santa Giustina, dirimpetto all’altra ara marmorea contenente quelle dell’evangelista San Luca.

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L’impianto scenografico dell’opera è strutturato su due registri ideali occupati dai volumi fortemente rilevati delle figure: quello superiore ospita la SS. Trinità trionfante, manifestatasi in Dio Padre, Gesù Cristo e Spirito Santo (quest’ultimo materializzatosi nella colomba bianca con ali spiegate); quello inferiore, invece, gli apostoli, la Vergine, due delle tre pie donne (Maria di Magdala, detta Maddalena e Maria di Cleofa, oppure di Salomè) e lo stesso Monrealese (l’unico dei non direttamente partecipe all’azione), autoritrattosi, come in altre occasioni, come testimone oculare della volontà trinitaria. Non insolita nell’opera del pittore, invece, la figura orante di anziano all’estrema destra, il cui modello si presenta come l’alter ego dell’altra figura senile, posta anch’essa all’estrema destra, nel “San Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi” (1634-35), di cui si è discusso QUI. In entrambi i casi è facile identificare i tratti somatici del padre del Monrealese, il pittore manierista Antonio Pietro Novelli.

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Più dettagliatamente, sul registro superiore il Padre e il Figlio “globocratori” (“creatori del mondo”) con la colomba bianca dello Spirito Santo appaiono alla comunità apostolica di Gerusalemme siedono sospesi sulle nubi dell’Empireo tra le schiere di cherubini (esseri angelici a due ali mostranti solo il volto) e putti alati di memoria classica. Dio Padre poggia la mano destra sul globo, mentre con la sinistra manifesta la sua volontà sull’ispirazione divina del Figlio, il quale infonde lo Spirito Santo, sotto forma di colomba bianca con ali spiegate, sull’apostolo Mattia, a sua volta, perfettamente in asse con il braccio e il “gesto parlante” della mano destra di Cristo.

Ma non è tutto! Il Monrealese dimostra proprio nella gestualità armoniosa del gruppo trinitario di possedere un’erudita educazione sull’esegèsi cristologica. Infatti, i gesti calibrati e accordati dell’Eterno e di Cristo sono portatori di un messaggio dogmatico efficacemente più profondo e in linea con la tradizione escatologica della Chiesa paleocristiana. Essi rappresentano lo Spirito Santo che procede dalla volontà del Padre a quella del Figlio e da questi è donato a San Mattia come testimone della nuova fede. Si tratta, in definitiva, di una trasposizione figurativa del passo del «Credo Apostolico» di rito latino-romano: “Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti”.

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Sul registro inferiore, invece, il gruppo di astanti – la comunità apostolica radunata a Gerusalemme per eleggere il nuovo apostolo è presieduta da San Pietro, vicario di Cristo (l’uomo calvo e scalzo posto di spalle e genuflesso all’estrema sinistra) – occupa uno spazio architettonicamente concreto, immaginato come un’area presbiteriale di cui si distinguono le strutture marmoree, come le gradinate su cui siedono sopra uno scanno Mattia (a sinistra) e  Barsabba, “il Giusto” (a destra), la parete sinistra di ordine corinzio munito di plinto e la balaustra sul fronte del cui pilastrino è il rilievo scultoreo monocromo con lo stemma araldico del principe Branciforte e Lanza, committente del dipinto. Vincenzo Scuderi ha avanzato, seppur con qualche reticenza, un’interpretazione alternativa alla struttura architettonica del fondale, vedendo in essa gli esterni del castello della famiglia (ipotesi debole, a nostro modesto dire) sito un tempo nel feudo di Leonforte.

L’abilità compositiva del Novelli è qui evidenziata nell’aver saputo dosare magistralmente la distruzione delle figure nello spazio scenico, conciliando realtà sacra e profana, ossia un episodio neotestamentario apostolico paleocristiano – la sostituzione dell’Iscariota con il nuovo apostolo Mattia – dal tono popolare con uno socio-apologetico seicentesco di carattere gerarchico e aristocratico. Quest’ultimo, in particolar modo, si presenta come esaltazione celebrativa della numerosa famiglia Branciforte, la quale, composta da 4 figli e 5 figlie (di cui 3 suore), fu chiamata a posare dal Novelli per le figure sacre del registro inferiore, dando vita, in tal modo, a una superba galleria di ritratti nella quale il pittore eccelse con risultati verosimilmente di assoluta fedeltà.

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Apparentemente caotica nel suo groviglio di sentimenti variegati, a guardar bene la scena è organizzata per mezzo di un rigidissimo schema compositivo geometrico costituito da linee-forza, magistralmente enfatizzate dal commovente moto fisico dei personaggi, i cui sguardi (fatta eccezione per il pittore) sono catalizzati verso il vertice del triangolo interno, fissato nell’indice della mano sinistra di Cristo, Salvator mundi.

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Secondo gli studi condotti nel 1989 e 1990, è presumibile che la scelta tematica dell’«elezione-successione» nella comunità apostolica di Gerusalemme, secondo quanto riportato dagli Atti degli apostoli di San Luca, sia stata voluta dal committente come allusione all’«elezione socio-politica» della potente famiglia siciliana, significativamente impegnata sull’isola nel corso della prima metà del XVII secolo sul fronte amministrativo-giurisdizionale. Quest’allusione di stampo prettamente politico ne incorpora un’altra, ossia quella relativa alla «successione legittima per diritto ereditario», intesa come continuità perpetua dell’identità sociale della nobile famiglia nella persona di Giuseppe, primogenito del principe Nicolò Placido, a cui il padre passerà per volontà testamentaria un: «anello di zaffiro con l’arme Branciforte».

Come ricorda ancora Angela Mazzè, l’impaginazione iconografica della scena si conclude con due immagini eloquenti: «il piede nudo dell’apostolo (ulteriore evocazione caravaggesca), privilegio riservato ai santi nell’iconografia cristiana. Il libro che campeggia al centro della tessera inferiore, al centro, è aperto: il messaggio è già stato recepito dagli apostoli Cristo».

Nonostante la scarsità di fonti documentaristiche in possesso, l’opera appartiene indubbiamente al periodo post-Monreale, poiché, come suggerito da Guido Di Marzo, essa è ascrivibile alla fase produttiva del Novelli di «compiuta accademia eclettica, carraccesca e caravaggesca al tempo stesso».

Dimensione divina e umana, dunque, spirituale e corporale, eterna e mortale sono armonizzate dal Novelli in un affresco corale di suggestiva partecipazione emotiva e, come afferma Angela Mazzè, «dai moduli diversificati»: libera rielaborazione formale desunta da celebri opere studiate durante il soggiorno romano del 1631-32, come la “Trasfigurazione” di Raffaello (1518-20), l’“Assunta” di Annibale Carracci (1600-01) e la “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio (1599-1600), a cui andrebbero aggiunti, ovviamente, anche i modelli michelangioleschi della Sistina, specie del “Giudizio Universale”, e altre ammirate fra Napoli e Palermo, come la “Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina da Siena e i Santi Vincenzo Ferreri, Oliva, Ninfa, Agata, Cristina e Rosalia” di Anthony Van Dyck (1628).

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A proposito della tela del Novelli, nel suo “The italian followers of Caravaggio” (“I seguaci italiani di Caravaggio”) del 1967 lo storico dell’arte statunitense Alfred Moir parlò di capolavoro «simultaneusly realistic, visionary and decorative» (“simultaneamente realistico, visionario e decorativo”), volendo indicare con ciò le qualità pittoriche dipanate dal pittore nella complessa illustrazione figurativa del soggetto.

Unanime il pensiero di Vincenzo Scuderi, il quale scrisse nel 1990: «Intensità o, almeno, volontà di fede e di verità naturali al tempo stesso – ritrattistiche, sociali, luministiche, ecc. – non meno intese si fondono, ad evidentiam, in quel capolavoro che è l’Elezione di San Mattia di Leonforte».

Più complessa la regia dell’impianto luministico sapientemente orchestrato, a cui è affidata l’articolazione plastica dei volumi nella loro traduzione anatomica di volti psicologicamente indagati e corpi ritmicamente animati da panneggi chiaroscurati; di profili architettonici illusoriamente rilevate e una spazialità razionalmente restituita al suo valore metrico. È la luce, in definitiva, nella sua matrice cromatica «bianco-oro», l’elemento unificatore tra i due registri superiore e inferiore della composizione, definita dallo Scuderi: «bipolare». E allora si comprende in modo più approfondito come quanto già affermato dal sottoscritto per l’Assunta la scorsa estate valga anche per il San Mattia: «sono questi lampi cromatici chiaroscurati a distaccare le figure dal tetro fondo nebuloso permettendo di emergere con tutta la forza della loro vigorosa massa».

Si è già fatto cenno ai rapporti esistenti tra la tela di Leonforte e la stupenda “San Benedetto distribuisce la «Regula» sotto forma di pane agli ordini cavallereschi e religiosi” (1634-35) circa il modello della figura senile, i cui tratti somatici sono stati identificati con quelli del padre del Monrealese, il pittore manierista Antonio Pietro Novelli.

Ebbene, rapporti più esplicitamente diretti è possibile riconoscere tra la tela di Leonforte stessa e quell’altro capolavoro che è l’Assunta dei Cappuccini di Ragusa Ibla (di cui si è discusso la scorsa estate QUI), realizzato nel 1643, ovvero l’anno seguente del dipinto oggetto di studio di questo scritto. Le due opere sono complementari per:

1) la scelta dello schema compositivo geometrico e strutturale;

2) la disposizione spaziale dei personaggi, il ritmo della loro concitata gestualità e la coralità sacrale dell’insieme;

3) le figure speculari (San Pietro inginocchiato e l’autoritratto del pittore);

4) l’introspezione psicologica abilmente indagata;

5) l’impianto luministico affidato al sapiente contrasto chiaroscurale di scuola seicentesca, il quale definisce i profili plastici modellati dalla sorgente di luce diretta obliquamente da destra (la sinistra di chi guarda) verso sinistra (la destra di chi guarda).

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In entrambe, per concludere, è lucidamente tracciato il percorso della maturità raggiunto dal pittore siciliano e per il quale Guido Di Marzo parlò, come scritto in precedenza, di «solipsismo malinconico», il quale è frutto di quell’umanità austera e malinconica di cui è pervasa l’anima siciliana fin dalle sue remote origini. «E questa umanità si esprime in forme salde, che la fluida atmosfera umbratile vela e disvela e la sobria veste cromatica individua e ferma».

Quest’artista «Senza veri precedenti e senza veri seguaci è dunque il Novelli […].  Anni or sono cerco di carpirne l’ignoto magnetismo esercitato sulla mia persona, senza, tuttavia, risalire a un’efficace chiave risolutiva: la tendenza realistica, il cromatismo, l’eleganza compositiva? Oppure semplicemente quell’atmosfera profondamente sensibile delle sue creature o meglio, come ricorda Giulio Carlo Argan, «quel galateo appassionato e commosso»? Forse, ma è solo un pensiero labile, un inconfessato “sguardo da lontano”, quindi, malinconico?

O chissà, magari i momenti in cui sento più vicina la sua arte sono quelli di stati d’animo malinconicamente più estesi rispetto ad altri più convenzionalmente estroversi? Ma qualsiasi causa essa sia poco importa, a mio dire! Perché è il felice incontro emotivo scaturito da questa con tutto il suo retaggio di malinconica bellezza a scandire quegli spasmi di acuto piacere capaci di agitare dal profondo pulsioni inconsce.

E lui è sempre lì, in Sicilia, insiste il Di Marzo, perché: «Fedele al suo tempo e a sé stesso, Pietro Novelli può dunque trovar posto tra gli artisti migliori del secolo, anche se la sua azione, per ragioni intrinseche ed estrinseche, per la sua natura ricettiva e per la sua localizzazione geografica, fu limitata nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo che la vita di molte sue creature pittoriche supera nell’universalità ed eternità dell’arte».

Questa sua localizzazione geografica penalizzò il pittore in gran misura e spinse la critica più sprovveduta ad azzardare un facile“provinciasmo”, stroncato, “Deo gratias”, da chi sprovveduto non fu mai e parlò, al più, di isolamento insulare. Lo capì il conte Carlo Gastone Rezzonico durante un viaggio sull’isola nel 1793 quando scrisse: «il Monrealese, pittore che dallo Spagnoletto e da Wandeick [Van Dyck] trasse uno stile misto, e fatto suo proprio per modi sì egregi, che merita distintissimo luogo fra gli artefici italiani, e fuori si Sicilia non è conosciuto».

Si potrebbe disquisire sui modi ed esiti della sua formazione con un raffronto delle fonti storiografiche. E credo che questo potrebbe essere il materiale per un altro, chissà, ennesimo omaggio al pittore. Ma la speranza è che quanto lasciatoci dal pittore venga approfondito da una mente sottile di mia conoscenza,diligentemente attenta agli sviluppi dell’arte barocca nell’Italia meridionale. Al momento, però, il Monrealese attende ancora una volta di essere riassaporato con lo sguardo da “vicino”, seppur effimero, per poi, com’è giusto che sia, tornare a essere “lontano” e solo di tanto in tanto malinconico…mai troppo in fondo, ma solo quanto basta affinché sia ancora una volta “poesia”.

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Bibliografia

  • Guido Di Stefano, “Pietro Novelli, il Monrealese”, a cura di Angela Mazzè e prefazione di Giulio Carlo Argan, 1989, Palermo, Flaccovio Editore.
  • Vincenzo Scuderi, “Novelli”, in Kalòs, maestri siciliani, 1990, Palermo.
  • A.V.V., “Pietro Novelli e il suo ambiente”, catalogo della mostra con prefazione di Maurizio Calvesi (Palermo, Albergo dei poveri, 10 giugno – 30 ottobre 1990), Palermo, Flaccovio Editore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RENOIR E L’ALLEGRO SOGGETTO MUSICALE (PARTE PRIMA). DUE OPERE A CONFRONTO: QUEL PRIMO DIPINTO IMPRESSIONISTA ENTRATO NELLE COLLEZIONI STATALI PARIGINE E L’ALTRO TENUTO PER SÉ E MAI ESPOSTO.

RENOIR E L’ALLEGRO SOGGETTO MUSICALE (PARTE PRIMA).

DUE OPERE A CONFRONTO: QUEL PRIMO DIPINTO IMPRESSIONISTA ENTRATO NELLE COLLEZIONI STATALI PARIGINE E L’ALTRO TENUTO PER SÉ E MAI ESPOSTO.

di Filippo Musumeci 

  • Opera: “Jeunes filles au piano” (“Fanciulle al piano”)
  • Anno: 1892
  • Tecnica: olio su tela, 90 x 116 cm.
  • Collocazione attuale: Parigi, Musée d’Orsay dal 1986
  • Acquisizione: lo Stato francese nel 1892 per il Musée du Luxembourg (decreto del 21 settembre 1892)
  • Sedi espositive parigine precedenti: Musée du Luxembourg (1892-1929); Louvre (1929-47); Louvre, Galleria Jeu de Paume (1947-86)
  • Firmato in basso a destra: «Renoir».
  • Opera: “Yvonne e Chrstine Lerolle al piano”
  • Anno: 1897-98
  • Tecnica: olio su tela, 73 x 92 cm.
  • Collocazione attuale: Parigi, Musée de l’Orangerie. Collezione Walter-Guillaume
  • Acquisizione: lo Stato francese nel 1959 con il contributo della Sociéte des Amis du Louvre
  • Firmato in basso a destra: «Renoir».

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Ne era passata di acqua sotto i ponti della Senna da quelle otto mostre temerarie allestite tra il 1874 e il 1886 da quegli artisti squattrinati, “intransigenti e pazzi”, proprio lì, lungo l’Île de la Cité, al fine di consacrare l’Impressionismo come nascente movimento parigino, il quale, seppur a suon di feroci critiche lanciate a cadenza regolare dagli scranni accademici, aveva saputo imporsi e far proseliti tra le giovani generazioni anticlassiciste, sedimentatosi, infine, nel tessuto culturale francese di fine XIX.

Ognuno faceva ormai da sé e in solitaria portava avanti la propria ricerca artistica senza, tuttavia, rinnegare esordi e ideali comuni, affinità e divergenze, tradizione e modernità: per aggregazione spontanea impressionisti nacquero e per inclinazione formativa impressionisti rimasero. Eppure agli inizi degli anni novanta dell’Ottocento nessun’opera impressionista figurava ancora nelle collezioni statali parigine, come nessuna commessa era stata avanzata dalle istituzioni culturali a chicchessia pittore dell’ “attimo fuggente”.

Ci volle l’intercessione e tutta l’autorità di uno Stéphane Mallarmé, coadiuvato da Roger Marx, per svecchiare il costume governativo e persuadere il Ministero delle Belle Arti, nella persona di Henri Roujon, per la commissione di un dipinto da destinare alle blasonate sale del Musée du Luxembourg: istituzione pubblica riservata alla consacrazione degli artisti contemporanei viventi più accreditati.

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Spettò a Pierre-Auguste Renoir essere ambasciatore della “nuova arte” e onorarla con una creazione degna di cotanto prestigio istituzionale, ovvero riqualificarla come emblema di un decantato riscatto sociale fortemente ambito, eppure non ancora riconosciuto ufficialmente. L’anno è il 1892 e l’ormai cinquantunenne pittore di Limoges non è nuovo alle sfide, dalle quali, si sa, non è solito tirarsi indietro, nonostante la portata della commessa avrebbe messo in allarme, lo si deve ammettere, anche un animo “consolidato” come il suo. Eccome! Ciò è documentato dal tormentato lavoro preparatorio che portò l’artista a ideare più versioni dello stesso soggetto, per un totale di un pastello e cinque oli su tela, tra cui quella ufficiale custodita all’Orsay: una nella Robert Lehman Collection del Metropolitan Museum di New York, una nella Collezione Niarchos di Zurigo, una terza, già appartenuta a Gustave Caillebotte perché a questi regalata dallo stesso Renoir, e una alla Collezione Walter-Guillaume dell’Orangerie di Parigi.

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Al pari di Monet, come di qualsiasi artista profondamente legato alla sua arte, la pianificazione del processo creativo di un’opera era preceduto da un instancabile iter propedeutico al risultato ultimo sperato e tale da giustificare i pentimenti e le ridefinizioni del soggetto nelle sue repliche, mai fino ad allora così numerose nell’intero repertorio produttivo renoiriano.

Si badi però, non è in alcun modo una “serie” di stampo monettiano quella del soggetto musicale in questione: Renoir non è interessato alle sperimentazioni di vedute ripetute in serie, messe a punto dall’amico e collega sin dagli anni sessanta dell’Ottocento e chiaramente esplicitate in quelle divenute ormai celebri nell’immaginario collettivo: “La Gare di Saint-Lazare” (1877), i “Covoni” e i “Pioppi” (1891), la “Cattedrale di Rouen” (1892-93), le “Vedute del Tamigi a Londra” (1899-04), “Venezia” (1908), le “Ninfee” (1899-1909), e le “Grandi decorazioni delle Ninfee” (1914-26). Il fine specifico di Renoir, piuttosto, va ricercato nella volontà di riaggiornare e idealizzare allo stesso tempo un tema classico tanto caro ai pittori fiamminghi del XVII secolo, come Vermeer, e francesi del XVIII, come Fragonard, riducendo il campo d’azione a scene di genere in interni leggiadramente animati da aggraziate fanciulle della borghesia parigina, ma «con un respiro più ampio e suggestioni tratte, probabilmente, dalla coeva poesia simbolista» (Ilaria Cicali, 2008)

Renoir si cimenta nella restituzione di interni moderni in cui fanciulle borghesi si abbandonano al piacere della musica o della lettura (come per “La Liseuse” del 1874-76, di cui abbiamo discusso qualche tempo fa QUI), dando vita a «composizioni idilliache e idealizzate a metà strada tra il doppio ritratto e la scena di genere» (Sylvie Patry, 2013).

“Opere da vendita”, le definiva lo stesso pittore, perché facili da piazzare sul mercato, ma ove è facile cogliere, nella rilettura della quiete domestica d’insieme, l’essenza stessa dell’evoluzione stilistica renoiriana, la quale, a seguito del viaggio in Italia negli anni 1881-82 con l’illuminante riscoperta della lezione raffaellesca, appare adesso più lucidamente incline alla solidità della struttura compositiva dal tratto deciso e dalla compatta stesura cromatica dal morbido lirismo.

Sarà Arséne Alexandre a rimembrare dopo la morte di Renoir quei giorni che accompagnarono quel frenetico lavorio creativo del pittore con tutto il suo carico di dubbi e perplessità, non placatosi neppure a seguito della scelta finale del dipinto da parte del Ministro, credendo invero fosse stata selezionata da Roujon la versione meno riuscita fra quelle realizzate per la commessa: «Ricordo le infinite pene che egli ebbe nell’eseguire la commissione ufficiale che un noto amico gli aveva procurato. Si trattava di “Fanciulle al piano”, un dipinto dall’esecuzione morbida e delicata […]. Renoir lo iniziò cinque o sei volte, ogni volta quasi nella stessa maniera. L’idea di una commissione era sufficiente a paralizzarlo e a minare la fiducia nelle sue capacità. Stanco della battaglia, finì per lasciare alle Belle Arti il quadro che oggi è al museo, e che giudicò, immediatamente dopo, il meno riuscito dei cinque o sei».

La rivelazione post-mortem di Alexandre fu preceduta (e non tardò neppure tanto a farsi sentire) dalla sempre sterile ondata di polemiche da parte della critica conservatrice, la quale storceva il naso all’idea di assistere all’ingresso di quella pittura di “imbrattatori”, tanto screditata e respinta, nell’Olimpo dell’arte ufficiale francese, che era, come detto, il Musée du Luxembourg. Appena due anni prima, nel 1890, quelle stesse sale museali avevano assistito a un “miracolo” culturale di portata collettiva, vedendosi costrette a forza a ospitare permanentemente le forme sinuose e provocanti di Victorine-Louise Meurent, meglio conosciuta come l’Olympia del precursore dell’Impressionismo, Edouard Manet. Allora l’artefice era stato Claude Oscar Monet, il quale in occasione dell’Esposizione Universale parigina del 1889 aveva lanciato una sottoscrizione per donare allo Stato il dipinto “scandaloso”, presente in mostra, dell’amico e collega deceduto tre anni prima, nel 1886. Lo scontro tra modernisti e classicisti, ricordano le cronache, fu agguerritamente epocale, con l’agognata vittoria dei primi, guidati da Monet, e la frustrante delusione dei secondi, obbligati (una volta tanto) a incassare l’amara sconfitta. Ma del resto, Vox populi, vox Dei!

L’amore di Renoir per la musica classica è nota fin dagli anni sessanta dell’Ottocento, quando grazie agli amici Edmond Mâitre e Fréderic Bazille si avvicina ai drammi di Richard Wagner, del quale eseguirà tra il 15 e il 17 gennaio 1882 a Palermo il celebre ritratto, oggi all’Orsay, ma dimostrando pure di possedere doti canore notevoli e una non indifferente conoscenza di Mozart e Bach, nonché dei Balletti russi.

Il figlio Jean ricorda: «Era molto bravo nel solfeggio e aveva una ella voce di baritono leggero. I suoi maestri non volevano che un simile dono del Cielo andasse perduto. Lo fecero persino entrare nel celebre coro della chiesa di Saint-Eustache, il cui maestro di cappella era un giovane compositore sconosciuto che si chiamava Charles Gounod.  […]. Gounod fu preso da una specie di passione per mio padre. Gli dette delle lezioni private, gli insegnò gli elementi della composizione musicale, e gli fece cantare degli assolo. […]. Renoir amava il canto, ma come ho già detto, non sopportava di mostrarsi in pubblico, non perché fosse timido, ma perché era consapevole che “non era cosa per lui”».

Paul Durand-Ruel, amico e mercante di Renoir e compagni, non si lasciò sfuggire l’occasione di aggiudicarsi due delle versioni del soggetto musicale e di piazzarle sul mercato nell’ambito di una retrospettiva di centodieci opere dell’artista allestita nella sua galleria parigina. Il pittore tenne per sé la prima versione in ordine temporale, lasciata allo stato di abbozzo e oggi alla Collezione Walter-Guillaume dell’Orangerie, nella quale, comunque, sono già indicati i termini della composizione con le due fanciulle al piano, una seduta e l’altra stante, poste al centro della scena ed entrambe rivolte verso lo spartito. Mancano ancora alcuni dettagli: il vaso di ceramica a motivi floreali in stile «barocco», i tre libri posti sul ripiano dello strumento musicale e i due candelabri in ottone dorato per pianoforte in stile classico affiancanti il leggio; la poltrona in velluto rosso-arancio sul margine destro inferiore e i tre spartiti posti a ventaglio sulla stessa; i tendaggi in verde adorni di nappe con sfumature di giallo e rosso-arancio alle spalle delle due fanciulle e i quadretti che s’intravedono sul margine sinistro superiore. Una diversa impostazione della fanciulla eretta, con il gomito adagiato sul ripiano dello strumento stesso e la mano sinistra portata alla guancia, come pure i decori degli abiti immaginati entrambi a pois, particolare poi scomparso nella versione destinata al Musée du Luxembourg e oggi all’Orsay.

Eppure, vi è già una resa cromatica tersa giocata sul rapporto tra toni caldi e freddi, immersa in uno sfavillio dorato che riscalda le tonalità e attenua i contrasti, ma ove, tuttavia, non viene meno quell’armonia accorta e ritmica di forme e colori, comune a tutte le sei versioni, specie in quella più dell’Orsay. In quest’ultima, poi, la stesura cromatica è più soffusa e vellutata in alcuni punti, mentre in altri è decisamente più fluida, con lunghe pennellate che accompagnano i drappeggi e i contorni delle figure, nonché con una conduzione più vigile al particolare analitico e al decoro degli arredi.

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«Opera definitiva, fresca e libera. Un’opera della maturità», fu, giustamente, elogiata da Mallarmé. Un’idea armoniosa sul potere evocativo della musica, veicolato per mezzo dell’intimità transitoria dell’ambiente borghese, forse una sala dello stesso appartamento di Renoir al 13 di rue de Girardon, a Montmartre, noto come Château ds Brouillards (Castello delle Nebbie), occupato dal pittore e dalla famiglia alla fine del 1890. Si è ipotizzato il pianoforte del dipinto possa essere quello regalato da Renoir come dono di nozze alla moglie Alice Charigot, conosciuta nel 1880 e sposata a Parigi il 14 aprile di dieci dopo. Ma non avendo elementi a supporto di questo dato aneddotico, il beneficio del dubbio resta. In occasione di un piacevole viaggio a New York nell’estate 2010 (quanti bei ricordi!), ebbi modo di ammirare una delle sei versioni delle “Jeunes filles au piano” e, sempre dello stesso Renoir, “Le figlie di Catulle Mendès, Huguette, Claudine e Helyonne” (1888), rispettivamente della Robert Lehman e Walther H. and Leonore Annenberg Collection, entrambe ospitate al Metropolitan Museum. Tra i due dipinti corre un arco cronologico di quattro anni, ma se si osservano attentamente ci si accorge come in entrambi, al di là della medesima tematica, il modello di pianoforte verticale sia simile, forse lo stesso? Non è dato saperlo. Renoir era solito dipingere le scene di interni, il più delle volte, in atelier, ma non è da escludere del tutto la possibilità abbia potuto realizzare soggetti musicali direttamente negli appartamenti borghesi dei suoi committenti, difficilmente provvisti di pianoforte verticale e particolarmente in voga a fine Ottocento.

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Come, del resto, non va dimenticato, come detto, l’amore di Renoir per la musica classica e gli studi di solfeggio condotti presso il maestro Charles Gounod, per via dei quali è ipotizzabile la presenza dello strumento a corde nei diversi domicili abitati dal pittore negli anni precedenti le nozze con Alice nell’aprile 1890. Ma sono inezie, suvvia, che lasciano il tempo che trovano e che nulla tolgono alla poesia dell’opera. Questa è espressa, piuttosto, per l’iridescenza diffusa che addolcisce ogni angolosità o durezza del tratto e fonde armoniosamente i colori dalle tonalità pastello in un felice accordo. Le forme delle due fanciulle, dalle ignote identità, sono definite dal disegno delicato ma deciso con il quale è restituito anche il loro moto fisico, colto nella sua elegante fugacità, e l’atmosfera di piacevole serenità domestica vissuto nella Parigi di fine Ottocento. Il primo piano è occupato dal roseo profilo della giovane pianista dalla lunga chioma bionda che siede al piano, dilettandosi in un accompagnamento musicale eseguito per mezzo di una leggera pressione esercitata con la mano destra sui tasti bianchi dei toni e tenendo fermo il bordo inferiore dello spartito con la sinistra. Le sta accanto, in posizione eretta e inarcata, la fanciulla dai capelli bruni, la quale trova appoggio assicurando la mano destra allo schienale della sedia della pianista e il gomito della sinistra al ripiano della cassa verticale dello strumento. Entrambe seguitano con lo sguardo la lettura delle singole note, abbandonandosi, così, al suono melodioso di cui, immaginiamo, la camera è già serenamente satura e intrisa del reverbero, enfatizzato, questo, dai caldi fasci di luce diurna che rischiarano e avvolgono la scena di profondo respiro.

Lo stesso respiro di modernità venne rimodulato dal pittore cinque anni dopo le “Fanciulle al piano” nel doppio ritratto di Yvonne e Christine Lerolle al pianoforte” del 1897, oggi alla Collezione Walter-Guillaume dell’Orangerie di Parigi.  Le due sorelle, di età compresa tra i diciotto e venti anni, furono le figlie del pittore e collezionista Henry Lerolle (1848-1929), nonché mogli di Eugene e Louis Rouart, figli, a loro, volta, dell’industriale, pittore e collezionista Henri Rouart.

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Henry Lerolle fu, inoltre, amico di Monet, Renoir, Degas, Maurice Denis e Pierre Bonnard e nella sua abitazione parigina era solito dare serate a tema e ospitare, oltre agli amici pittori, compositori di rinomata levatura come Claude Debussy (1862-1918) e Ernest Chausson, o letterati come Mallarmé e André Gide. Quest’ultimo, poi, trasse spunto dai matrimoni delle due sorelle Lerolle con i fratelli Rouart per la stesura della trilogia “La scuola delle mogli”, “Roberto” e “Geneviève”, pubblicata negli anni 1929-36.

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Chrstine, inoltre, posò ancora per Renoir nei ritratti “Christine Lerolle” (1897; olio su tela, 57,5 x 53,5 cm. Collezione privata) e “Christine Lerolle ricamo” (1895 ca.; olio su tela, 82,6 x 65,8 cm. Columbus, Ohio, Museum of Art; mentre Yvonne fu immortalata da Maurice Denis nel ritratto “Yvonne Lerolle in tre aspetti” (1897; olio su tela, 170 x 110 cm. Parigi, Musée d’Orsay).

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Ciononostante, la tela in questione con le due sorelle al piano non venne commissionata né da Lerolle né tanto meno da un altro amico o collezionista, bensì fu eseguita da Renoir più semplicemente per puro diletto, tant’è fu trovata nel suo atelier di Cagnes al momento della morte in quel 3 dicembre 1919 e fu esposto per la prima volta alla Galerie Bernheim-Jeune di Parigi solo nel 1926. Acquistato in un’asta pubblica nel 1937 dal mercante Paul Durand-Ruel e dalla collezionista Juliette Lacaze (passata alla storia come Domenica Walter-Guillaume, 1898-1977, per aver sposato in prime nozze Paul Guillaume nel 1920 e in seconde nozze l’architetto Jean Walter nel 1938, di cui acquisì, oltre alle collezioni, anche i rispettivi cognomi), il dipinto fu particolarmente amato da Domenica Walter, tanto da tenerlo esposto nella sala da pranzo del suo appartamento in rue de Cirque, vicino l’Eliseo. Successivamente acquistato dallo Stato francese nel 1959 con il contributo della Sociéte des Amis du Louvre, confluì nel 1960 nella Collezione Jean Walter e Paul Guillaume, ospitata presso il  Musée de l’Orangerie.

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In questo doppio ritratto le sorelle Lerolle siedono al pianoforte in abiti elegantemente borghesi: Yvonne è impegnata nell’esecuzione della partitura e Christine collabora all’esercizio affiancando la prima nella lettura dello spartito. Entrambe, similmente alle “Fanciulle al piano”, seguitano con gli occhi la sequenza sinfonica: Yvonne esegue le note di un’ultima riga del pentagramma e Christine è già prossima a voltar pagina, agevolando, in tal modo, il reverbero sonoro lungo le pareti del salotto, senza soluzione di continuità. L’impianto compositivo del dipinto fu a lungo meditato per una soluzione inedita nel taglio, qui orizzontale, quanto nella parete di fondo che, include le due figure in uno spazio compresso e aggettante, simile a un bassorilievo. Alle estremità del fondo, inoltre, è possibile scorgere le porzioni di due celebri dipinti di Edgar Degas, “Fantini alla partenza” (1882) sulla sinistra e “La classe di danza” (1873) sulla destra, di cui Henry Lerolle fu, come succitato, amico e collezionista.

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Renoir ha saputo restituire l’atmosfera colta e raffinata del salotto parigino della famiglia Lerolle attraverso citazioni figurative contemporanee degli arredi interni e la messa a fuoco dello status sociale delle due donne, rese maggiormente credibili dai gesti armoniosi della loro azione educativa. Il lirismo della scena è evidenziato dalle pennellate carezzevoli e fluide che corrono lungo i volumi, definendone i contorni in un accordo cromatico di rossi e bianchi cui fa da base il verde pastello del fondale.

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Una riuscita fusione, dunque, tra ritrattistica e scena di genere, ancora una volta, memore della pittura olandese di Vermeer – delle cui affinità si dirà nella seconda parte di questo scritto – ammirato a Dresda nel luglio dell’anno precedente, 1896, alla quale Renoir aveva già guardato e continuerà a fare per altri lavori a soggetto musicale, e no, ove la donna, amata, omaggiata, cantata, resterà, comunque l’indiscussa protagonista del suo racconto visivo, poiché come lo stesso pittore ebbe modo di dichiarare il 5 giugno 1879 sulle pagine del n. 9 de “La vie moderne”, il giornale con cui collaborava: «Sì, voglio dipingere […] la vera regina della vita moderna, la Parigina».

N.B. Vi diamo appuntamento per la seconda parte di questo nostro omaggio ai soggetti musicale di Renoir.

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GUCCIONE – IUDICE, TRA DESIDERIUM ET DILIGENTIA GIOVANNI IUDICE. “DENTRO IL MARE” (PARTE SECONDA)

GUCCIONE – IUDICE, TRA DESIDERIUM ET DILIGENTIA

 GIOVANNI IUDICE. “DENTRO IL MARE”

(PARTE SECONDA)

di Filippo Musumeci

Antico, sono ubriacato dalla voce

ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono

come verdi campane e si ributtano

indietro e si disciolgono.

La casa delle mie estati lontane,

t’era accanto, lo sai,

là nel paese dove il sole cuoce

e annuvolano l’aria le zanzare.

Come allora oggi la tua presenza impietro,

mare, ma non più degno

mi credo del solenne ammonimento

del tuo respiro. Tu m’hai detto primo

che il piccino fermento

del mio cuore non era che un momento

del tuo; che mi era in fondo

la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso

e svuotarsi così d’ogni lordura

come tu fai che sbatti sulle sponde

tra sugheri alghe asterie

le inutili macerie del tuo abisso.

(Eugenio Montale – Mediterraneo, in Ossi di seppia, 1924)

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Nella prima parte di questo viaggio nelle marine dei due maestri siciliani, si è evidenziato quanto anche Iudice, al pari di Guccione, sia pioniere di una nuova visibilità; l’uomo che mi fregia di esserne sinceramente amico, l’artista che non fa “gruppo” perché la solitudine gli è necessaria come urgenza di verità, il maestro divenuto presto adulto e “dentro il mare”. Distanza e vicinanza, esterno e interno, impalpabile e tattile si equivalgono e completano come cielo e mare, giustapposti appena da quella sottile linea orizzontale che non ne segna affatto la fine, bensì solo il punto di partenza.

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Nulla di più cerebralmente lontano dalle marine Guccione quelle del più giovane maestro Iudice, perché alle prime queste sono opposte, giammai contrarie: la chiara traduzione e restituzione più autentica di un mare non solo respirato e indagato, come quello di Guccione, bensì ‘vissuto’, spiato, assaporato avidamente come necessità suprema dell’io, con impetuosa e vorace brama.

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Inebriarsi del venerabile suono aperto delle onde rotte sulla battigia, in quel lembo di costa ove finisce il borgo natio e ove nasce quell’infinito azzurro, inviolabile sepolcro di umili vite di cui essere un vibrante frammento, un versatile riflesso, come carne tremula perché mossa da un pulsante nucleo.

1 (11)In una delle nostre piacevoli conversazioni, il pittore confessava: «Il mio lavoro non parla di marine, ma dell’uomo in tutti quegli aspetti che interferiscono». Non sono riduttivamente vedute marine, s’intenda, bensì tranche de vie, scene di genere in calda stagione, abitate, animate, modellate da plastici corpi vestiti di sole, la cui concreta e vociante presenza riscrive la spazialità ove sono ubicati in coordinate metriche credibili: evasione dall’infinito (più felice, seppur alieno), per il finito (più crudo, seppur più schietto).

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1 (27)

Iudice non fugge il contemporaneo; vi s’immerge pienamente per viverlo e dar soffio alla forma, che del suo contenuto possiede pari dignità; non rifugge l’effimero in quanto contingente, bensì ne fissa i contorni e, per sempre, ne definisce i limiti. Quella presenza, negata e privata dal maestro di Scicli, diviene la cifra figurativa dell’indagine lenticolare del maestro gelese. Perché Gela, a guardarla bene, non è Sampieri, né, tanto meno, Donnalucata: troppo diversi per conformazione urbanistica, troppo lontani per retaggio sociale. Non è la medesima striscia insulare in cui sono adagiati, giù, sull’estremo dorso sud-est dirimpetto al continente nero, a uniformare i tre nuclei urbani in una fonte sola: Sampieri e Donnalucata dormono ancora romantici, in una sospensione spazio-temporale, il loro idillio bucolico teso tra cielo e terra, nonostante il tentativo destabilizzante della mano dell’uomo, là, oltre quei muri a secco, discreti testimoni di un racconto ancestrale.

Gela, piuttosto, è stretta dalla morsa febbrile della sua attività produttiva, ove, tra navi cargo e ciminiere fumanti, le tracce di quella gloriosa eredità ellenica stentano a imporsi, nonostante tutto, sulla collettività. Ed è qui, allora, che quell’affaccio sul Mediterraneo, su quell’immensa mobile distesa azzurra che ivi trova sponda, non è che il rovescio della medaglia, ciò che fu e che è, quella più autentica perché al mare ritorna come da questi nacque. Non una fuga, si è detto, bensì una pausa, breve, perché transitoria: un lasciarsi alle spalle l’ordinario divenire senza illusione alcuna, consapevoli, al più, di un riposo sabatico, per virtù concesse o dovute, purché sia!

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Se Guccione sta a Friedrich, come a Cézanne, Monet, Munch, Hopper e Bacon, Iudice, piuttosto, sta a Velazquez, Goya, Courbet, come a Loperz Garcìa, Gianfranco Ferroni e Guttuso – vi ho sempre visto un richiamo indiretto, quasi inconscio, anche a Gericault, Monet, Seurat e Schiele – con una non trascurabile predilezione per il cinema neorealista felliniano e pasoliniano. La cornice, non è un caso, scompare e perde cesura, il formato si espande oltre i limiti stessi consentiti, invade lo spazio sensibile ed è qui! Si è nel quadro e questi s’innesta nello sguardo: non più sterile osservatore, non più esterno all’azione.

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Iperrealismo, si direbbe, ma solo per comodità terminologica, quando questi in Iudice è, per sua stessa ammissione, sintesi del veduto, essenza del vissuto, ricomposizione dell’accaduto. Gli occhi registrano il dato oggettivo, la mente lo ridefinisce nella posa e nei gesti più consoni a crederlo ‘vero’, dunque, “vivo”. Iperrealismo, si direbbe, ma di superficie, quando, in sostanza, c’è di più! C’è l’anima, anche qui!

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Dalla terrazza di Iudice non si vede il mare e i muri a secco sono un pallido ricordo; non lo si ode neppure il mare, a dire il vero! I figli del “kaos” l’hanno soffocato per trenta denari, sabotando abilmente i decibel in nome di un’omologata era digitale. Lo si avverte, però, il mare! Lì, in prospettica distanza, e in dinamica danza lo si comprende per quel che è, come atto di fede, per il sale che porta in grembo; e al suo cospetto si è ogni qualvolta esseri rigenerati, nuovi.

1 (26)Come dichiara Elena Pontiggia: «Iudice racconta una realtà dimessa e, tutto sommato, dolorosa. Una realtà senza maschere e senza illusioni» (“Giovanni Iudice. Il senso del disegno”).

Il suo resta un decantato impegno sociale attraverso i mezzi figurativi che gli sono più consoni: osservare per comprendere, trasporre per registrare, fissare per ricordare. Operazioni, queste, che necessitano di una profonda introspezione psicologica, senza la quale l’opera risulterebbe sterile, svuotata della sua insita fertilità e contagiosa freschezza. Imitazione è un termine “freddo” e la freddezza è un carattere sensoriale del tutto assente in Iudice, per il quale, al più, si dovrebbe parlare di reinterpretazione storica del transitorio, poiché reinterpretare presuppone l’afflato soggettivo, dunque, il “caldo”, ovvero il calore dell’azione. In Guccione la veduta si è plasmata in visione e da questo in ricordo del “già vissuto”; in Iudice, invece, la visione possiede i connotati della veduta che si sta compiendo sotto lo sguardo dell’osservatore: i contorni definiti, i volumi plastici rilevati, il dettaglio analitico e le trasparenza leggibili, devono ancora essere assorbiti dalla memoria e divenire ricordo, come un presente ancora troppo vivo per esser già passato.

Intervistato da Andrea Guastella, il pittore rispose: «Non è solo un istinto, quello del mistero. È un carico che mi sobbarco spesso con grande sofferenza. La mia aspirazione è racchiudere in ogni immagine la massima densità possibile di senso, e questa aspirazione può essere soddisfatta solo da una visione anonima, non caratterizzata. Osservando tutto, ma proprio tutto quello che mi circonda, giungo a trovare la vita in cose che la gente, comunemente, non osserva. Diciamo allora che quello che tu chiami coraggio dell’indifferenza è soprattutto un modo di fissare le cose, di lasciarsi soggiogare da esse. Una tipologia di sguardo che oggi sembra, per lo più, dimenticata».

Mi sovvengono alcuni versi di Maurizio Sciaccalunga, per il quale «nelle immagini del pittore ci sono quell’orgoglio e quella riservatezza, del tutto siciliani, tipici di un mondo dove l’essere non è stato ancora sopraffatto dall’apparire: come a dire, mi mostro ma non mi arrendo, sopporto ma non accetto» (“Il mondo in un angolo”).

È, a mio modesto dire, una sintesi chiara e priva di ampollose deviazioni per descrivere il pensiero del pittore, poiché la sua ricerca esistenziale prosegue nell’amara consapevolezza che “Nemo profeta in patria”, perché l’uomo assetato di verità, che non teme di apparire banale nella disarmante restituzione della visione, resta, il più delle volte, scomodo da gestire, e schivarne la presenza risulta essere la mossa illusoria più vincente, seppur più codarda. Iudice non ha bisogno affatto di Gela, semmai il contrario, per rinascere dalle sue ceneri e riappropriarsi di cui è stata brutalmente derubata: la “bellezza”. La “bellezza”, oggi più che mai, è un’ambizione quasi utopica, ma verso la quale l’artista deve tendere come fine supremo della propria esistenza. È qui, allora, che l’ambizione massima del pittore è: «racchiudere in ogni immagine la massima densità possibile di senso. E questa aspirazione può essere soddisfatta solo da una visione anonima, non caratterizzata».

Rimembro lietamente quel martedì mattina di agosto, quando le vacanze estive divennero lo scenario ideale per incontrare il maestro nel suo atelier di provincia. Contro il vento di scirocco, si compì la marcia sull’asfalto rovente e martoriato della statale 417, masticandone voracemente i Km tra le rapide distese verso la piana di Catania e lasciandosi alle spalle la magia tardo-barocca di Caltagirone, supina come una perla incastonata tra le alture degli Erei e Iblei.

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Una sospirata attesa pienamente ripagata dall’umile animo e dallo sguardo sottile di questo “lupo solitario”, che declina vincoli e, lungi da scopi meramente propagandistici, opera sul campo per la formazione di giovani artisti talentuosi, finalmente stanchi di un sistema corrosivo quanto clientelistico, e senza sconto alcuno innalza la pittura come orgoglioso stendardo della propria dignità socio-intellettiva. Quella dignità che si offre per mezzo del disegno nella sua più limpida nudità.

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È ancora Elena Pontiggia ad aver compreso come: «Nel caso di Giovanni Iudice, effettivamente, il disegno sembra testimoniare una vocazione espressiva autentica e senza trucchi. Le sue opere si reggono soprattutto sui valori del disegno. Sembrano istantanee scattate con la matita». E le matite di Iudice compiono l’inganno dell’occhio, il miracolo della tecnica, l’illusione della verità, ove non occorrono più neppure le larghe campiture piatte e i passaggi tonali per definire i contrasti chiaroscurali sulle masse strutturali, poiché gli acromatici bianco e nero, fusi in un perfetto accordo sinfonico, indicano la totalità della tavolozza.  Eccoli, dunque, su quei corpi olivastri adagiati sulla calda spiaggia affacciata sul Mediterraneo, gli incarnati rosei e lattiginosi stagliati sulla mobile distesa azzurra all’orizzonte; eccoli prender vita dai ritmi variegati delle loro membra assolate contro la leggera brezza del mattino; eccoli, sono vivi, come vive sono le pulsioni lungo le umide epidermidi baciate dalla salsedine. Iudice, all’occorrenza, licenzia ogni accorgimento ulteriore, poiché a lui basta il solo estro, e quando impiega i colori non è per una maggiore aderenza al reale, bensì per concessione data, ovvero per agevolare e mettere a proprio agio l’osservatore dinanzi al soggetto creato.

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Il miracolo si compie lì, entro una mansarda di periferia, trasformata in uno scrigno di creatività: ivi ho respirato l’odore dei solventi, scrutato le filamentose stesure a olio della tela sui tratti preparatori, già minuziosamente compiuti, e avvertito i fasci di luce che avrebbero, di lì a poco, definito la spazialità e i volumi plastici in essa contenuti.

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L’eco delle parole dell’artista accompagnavano quell’impetuosa esplorazione cardiaca in cui lo sguardo stesso si plasmava in materia per divenire parte integrante della visione, testimone oculare della gestazione, mediatore improvvisato tra reale e figurativo: «Credo in una pittura come impegno sociale. Dipingo per il pubblico, non per assecondarne i gusti. Che una mia opera piaccia o meno, importa poco. Ho però, in quanto artista, la responsabilità di mostrare a chi frequenta il mio lavoro il mondo per come lo vedo io».

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Ma come vede Iudice il suo mare? Come un aggetto in alto rilievo, un’invasione dello spazio concreto, reale, umano: un’osmosi tra realtà e finzione, tra visibile e immaginifico, tra “il dentro e fuori dal quadro”.

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In Guccione (come è stato ribadito nella prima parte di questo saggio) l’impianto prospettico è affidato sovente a uno sviluppo longitudinale, avente la funzione di dilatare massimamente la spazialità oltre la sottile orizzontalità dello sfondo, geometricamente scisso in due sezioni speculari, e solo di rado ci si apre alla veduta a volo d’uccello, ove il punto di vista, particolarmente alto, riduce la porzione inconsistente del cielo e accentua, per effetto, quella della distesa acquatica. In Iudice, invece, nonostante si faccia ricorso al tradizionale punto di fuga verso la linea d’orizzonte, la prospettiva a volo di uccello è sovente conditio sine qua non per innescare quel processo ottico-sensoriale legato all’osservazione diretta, eppure distaccata e in sordina allo stesso tempo, della superficie marina nella sua trasparente profondità, resa maggiormente immobile ed enfatizzata dal moto fisico instabile dei bagnanti, ivi immersi. Sarò banale (e chi se ne frega!!!), ma questo mare è imperituramente “estivo” e magnetico: più si osserva, più la tentazione di tuffarvisi e lasciarvisi trasportare.

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Rispetto a Guccione, dunque, le vedute marine del maestro gelese, nella loro apparente e insignificante ordinarietà, si caricano di una forza misteriosa tale da saturare l’animo di un inquietante presagio: la consapevole impotenza dinanzi l’immensità che ci precede e sovrasta, c’investe e trascina al pari di quei “vinti” verghiani «che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù». (Giovanni Verga, Prefazione a “I Malavoglia”, Milano, 19 gennaio 1881).

I versi del padre del Verismo risuonano ancor oggi nella loro più schietta attualità se associate al “Ciclo dei clandestini”, concepito dal pittore negli anni 2005-12 come disinteressato documento storico e dinanzi al quale, eludendo il facile costume della denuncia, è arduo restare inerti: «Ho scelto di dipingerli per intima necessità, perché mi sono sentito in dovere di farlo. Credo che la figura del clandestino sia una delle icone più rappresentative del contemporaneo. Il clandestino spera, immagina la terra promessa con la morte nel cuore per la patria che ha lasciato. Ma davanti ai suoi occhi, oltre l’oblò, c’è solo il vuoto. In un’accezione molto ampia, che travalica la denuncia sociale – la quale non è difatti il mio principale obiettivo – siamo tutti clandestini».

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“Umanità” (olio su tela cm 235 x 290 cm.), presentata nel 2011 al Padiglione Italia della 52^ Biennale di Venezia e definito dalla critica il «Quinto Stato», delucida in modo puntuale la valenza simbolica di cui è portatrice e il pensiero ideologico del suo autore dinanzi al «nuovo esodo» biblico verso la “Terra promessa”. Ma non è un azzardo leggere “Umanità” come il sequel della “Zattera della Medusa”, perché in fondo, come ricordava lo storico Jules Michelet nel 1847, «è la nostra società intera che s’imbarca su quella zattera». Il germe di Gericault riaffiora sui volti dei sopravvissuti, riemersi come fantasmi dalle tenebre di un fondale notturno, ove nessuna prospettiva spazio-temporale è strutturabile, poiché il respiro “sublimato” di memoria romantica è stato gelato da un grido strozzato di miserabile speme.

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E nonostante Iudice non sia «né romantico né troppo necrofilo. Il mio è realismo», e la sua resti ancora una pittura lontana dalla tormentata ossessione fatta di carne e morte del pittore francese, egli getta uno sguardo storico sul dramma esistenziale che scuote il micro come il macrocosmo, in cui «per me c’è anche stupore e meraviglia della natura come forza ed energia, per la quale mi ritrovo più vicino a Courbet».

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E come Courbet, Iudice lavora più per esser uomo che semplice pittore e con il primo condivide il motto di questi: «realista significa amico sincero della verità vera». Perché questa verità del “vissuto” risiede nella natura delle rosee carni nude entro le umili pareti che le racchiudono, quanto nella trasparente nudità di quelle acque azzurrognole che, translucide, s’infrangono sulla riva rendendo umido e fecondo ciò che priva era asciutto e sterile. Quella stessa trasparente verità che vidi dapprima schiudersi nella profondità di quelle iridi di cui divenni prigioniero e che cantai controvento con ardore al petto (QUI).

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«Il bello – aggiunge Courbetè nella natura e si incontra nella realtà sotto le forme più diverse. Quando lo si è trovato, appartiene all’artista o piuttosto all’artista che sa vederlo». Il “bello”, in definitiva, lo stesso definito da Stendhal «la promessa della felicità». Ma questa felicità non fu scorta da subito neppure da un fuoriclasse come Delacroix, il quale la detestò piuttosto quando recensì le “Bagnanti” al Salon parigino del 1853, vedendovi, erroneamente, «La volgarità delle forme non sarebbe niente; è la volgarità del pensiero che sono abominevoli». 

Eppure sarebbe bastato davvero poco all’animo romantico, “che seppe guidare il popolo verso la libertà”, per scorgerla, invece, questa felicità, e senza bisogno di andare, poi, così lontano, ma abbandonandosi sinceramente alla cruda oggettività della cosa veduta. In Iudice è ciò che avviene: il suo pensiero non si dà come volgare crudezza delle apparenze, bensì come ricerca di quel “bello” che nel pittore è possibile ritrovare solo nella fedele restituzione di un reale veduto e “vissuto” come propria urgenza di felicità.

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Vi è tanto di Courbet nella pittura del maestro gelese, specie se si riflette su alcuni versi del Manifesto del Realismo del 1855: «Ho studiato, al di fuori di ogni spirito di sistema e senza partito preso, l’arte degli antichi e l’arte dei moderni. Non ho voluto né imitare gli uni né copiare gli altri: il mio proposito non è stato neppure quello di arrivare allo scopo ozioso dell’arte per l’arte. No! Ho voluto semplicemente attingere all’intera conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della mia individualità. Sapere per potere, questo e il mio pensiero. Essere in grado di tradurre i costumi, le idee, l’aspetto della mia epoca, secondo lamia opinione e il mio giudizio, essere non solo un pittore ma anche un uomo, in una parola fare dell’arte vivente, questo è il mio scopo».

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Iudice mi confidava ancora pochi giorni fa, in tutta franchezza: «Le mie sono marine, ma riflettono l’inferno dantesco. La carne dei bagnanti e dei clandestini è putrida. Ho messo insieme le spiagge delle donne nude con l’arrivo dei migranti, come chiara contaminazione di culture: “Les demoiselles d’Avignon” di Picasso, un secolo dopo. Le mie spiagge sono rappresentazioni drammatiche: indicano una visione della carne sotto al sole cocente di Sicilia. Un inferno all’aperto, in cui vedo quello che vedrebbe Pasolini nei sassi di Matera: una solitudine e moltitudine di forze».

Una corporeità spasmodica e catartica insieme, ove quel sentimento disincantato, eppure temerario, si ritrova cristallino e memore di reverberi iconografici dati, ma in un’oggettività coerentemente figlia del suo tempo e legata al territorio genetico. Ergo, Repetita iuvant: l’urgenza di fissare il “vissuto” come realismo di profondità e non di superficie.

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Perché non è nella superficiale similitudine di pose e modelli che si scorge un possibile e sterile omaggio all’antico, bensì nella profonda assonanza concettuale che si fa canone che si coglie la rivisitazione stilistica dell’umano sentire, riaggiornata e resa contemporanea e prossima all’eternità.

Egon Schiele affermava che «l’arte non è moderna. L’arte è eterna!».

Con lo stesso animo Iudice s’impegna nell’infondere eterno respiro alle sue creazioni, le quali, una volta compiute, si svincolano dall’azione del suo autore, dall’idea, dal gesto, e acquistano vita propria e valore collettivo. Diventano di tutti, insomma! Diventano mie, tue, nostre. In esse possiamo specchiarci e guardarci dentro senza filtri, poiché potremmo mentire ai simili, quello sì, giammai a noi stessi. Una sera, di ritorno da un viaggio d’istruzione a Vienna, ove accompagnai le classi quinte per il secondo anno consecutivo, ebbi piacere di scrivere al maestro per fare il punto della situazione, e con tutta la franchezza che riuscii a raccogliere in quell’istante, aggiunsi: «A proposito di Schiele, i tuoi lavori, non so perché, mi ricordano il suo tratto! Sono lame affilate al pari della linea disegnativa del maestro austriaco e paralizzano lo sguardo». E la risposta concisa e inconfutabile fu: «Hai ragione! Sono molto legato ai nordici».

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Prima di allora, non aveva avuto modo di confessarmi il suo trasporto per la pittura espressionista nord-europea, ma lo si poteva cogliere, in effetti, ponendosi dirimpetto a quella linea sinuosa che racchiude e avvolte la materia tutta. Tra i suoi bagnanti e i profughi vi è una sorta di cordone ombelicale, una netta linea di continuità che li unisce in un inesorabile destino, di cui l’umanità è vittima e carnefice in egual misura, poiché: «anche i bagnanti sulle spiagge sono smarriti in un mondo sconosciuto, se non proprio ostile».

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In questo senso trovo Iudice vicino a Schiele: in quel dolore che si fa latente nel segno che solca i volumi e riflette il demone che li agita e tormenta; in quella condizione incontrovertibile che si accetta come unica alternativa possibile a cui appigliarsi nell’abisso; in quella rassegnata speranza che logora recondita come meditata e sofferta scelta, da cui ne varrà della dignità umana stessa.

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Quella speranza che in Guccione si annida in ciò che fu e che diviene decantato “desiderio” di una natura ritornata al grembo del suo primario splendore, in Iudice assume il volto di una “scelta” aristotelica, intesa come «intelletto che desidera o desiderio che ragiona, e tale principio è l’uomo». (“Etica Nicomachea”, IV sec. a.C.)

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E adesso, caro maestro?

«Adesso sto lavorando sulla corporeità tra l’acqua come elemento immutevole e la carne dei bagnanti. Una fisicità dell’osmosi, fusione è materia univoca. L’uomo ha solo il privilegio di tornare parte dell’acqua. Il dipinto “Il mare di Gela” rappresenta la risacca di un’onda bianca come purificazione e rivoluzione di qualcosa di nuovo, che nasce dalla sabbia turbolenta dell’acqua sporca; la spiaggia è il luogo sociale della libertà».

L’uomo…, sempre lui, in tutte le sue infinite sfaccettature!

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CONCLUSIONI

 Il caso o fato ha voluto incontrassi entrambi i maestri e da questi ereditassi oltre ogni più generosa aspettativa: una finestra aperta sul genio da loro concepito e maturato come spettatore privilegiato di questa piece visivo-sensoriale. Con Iudice, poi, alla decennale intensa ammirazione per la sua arte si è affiancata una disinteressata e viva amicizia per la quale gli sono riconoscente, oggi più di ieri.

La rosa delle affinità elettive potrebbe estendersi ampiamente e ben più in là dei termini fin qui ingenuamente tracciati. Ma non sono tanto i richiami diretti a questo o a quell’altro artista del passato a qualificare l’operato, già discusso e accreditato dalla critica, dei due maestri mediterranei, quanto, piuttosto, l’urgente e inoffensivo confronto tra due realtà figurative post-moderne che hanno saputo imporsi nell’affollata scena contemporanea semplicemente, e non è poco, attraverso la genuina estrinsecazione del proprio carico intimista: “dalla terra salpati e al mare approdati”.

“Padronanza della tecnica ed estro creativo nella trasposizione del pensiero”: un’espressione convenzionale che suole dire tutto e niente, benché se associata a questi due maestri della nostra contemporaneità, votati al naturale, assume tutt’altro sapore! Sapore di salsedine e risacca, sapore di epidermide e bonaccia, di cielo e acqua.

Nessuna delle due realtà discriminata in virtù dell’altra, nessuna delle due anteposta all’altra. Semmai, le metà di un’unica matrice: Arte come desiderium, come nostalgia ciceroniana in Guccione, poiché “At memoria minuitur, nisi eam exerceas” (“Ma la memoria diminuisce se non la tieni in esercizio” – “De senectute”, 44 a.C.), e Arte come diligentia, come impegno etico in Iudice, poiché Mora cogitationis diligentia est.” (È triste essere obbligato a tacere quando desideri parlare!” – Publilio Siro, I secolo a.C.).

Tuttavia, i due maestri giungono all’essenza di quella medesima unica matrice, poiché per Guccione la vita (così come l’Arte): «è un continuo mistero e più si va avanti più il mistero si allarga. Così la realtà, che crediamo di frequentare ogni giorno con disinvolta certezza»; e per Iudice l’Arte (così come la vita) «è vicenda dell’uomo e, in quanto tale, inesplicabile».

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L’INCANTO DI “S. VITALE” A RAVENNA

IL SOLENNE INCANTO DI “SAN VITALE” A  RAVENNA

di Lucrezia Bettas (classe IIˆ Liceo Artistico)

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 Appena pochi giorni or sono ho avuto modo di visitare la città romagnola di Ravenna, partecipando al viaggio d’istruzione organizzato annualmente dal Liceo Artistico presso il quale frequento la classe seconda. I professori-accompagnatori di Storia dell’Arte hanno accompagnato e guidato le classi alla scoperta dei monumenti simbolo della città, tra i quali a catturare maggiormente la mia attenzione è stata la Basilica di SanVitale.

Sulla soglia del portale d’ingresso posto sull’àrdica a forcipe non mi sarei mai potuta immaginare lo spazio espanso degli interni, nonostante l’analisi descrittiva preventivamente compiuta a lezione dal mio prof di Storia dell’Arte. È stata una grande scoperta! Solitamente negli ambienti religiosi non mi sento a mio agio, ma lì è stato esattamente il contrario! Non avrei più voluto abbandonare quel luogo, anzi avrei passato ore e ore a guardarmi intorno e a imbambolarmi. Quando si accede nel sito l’occhio cade istintivamente sui mosaici per mezzo delle tessere dorate, le quali trasmettono ricchezza e sobrietà. E persino un ateo rimarrebbe “inchinato” di fronte a cotanta bellezza. Ho provato grande gioia e un particolare interesse nel comprendere dal vivo le tecniche esecutive dei pannelli musivi, dinanzi ai quali mi sono lasciata rapire dai colori intensi e luminosi.

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San Vitale è stata iniziata nel 525 d.C. dal vescovo Ecclesio, continuata nel 535 d.C. dal vescovo Vittore e terminata tra il 540 e il 548 d.C. dall’arcivescovo Massimiano, esarca dell’Imperatore Giustiniano.

La pianta della basilica è ottagonale con esonartece a fòrcipe (a testate semicircolari) obliquo e tangente a un angolo del solido geometrico (in aria bizantina e ravennate detto “àrdica”, il cui significato etimologico è  sinonimo di “nartece”, cioè “recinto”) e abside poligonale all’esterno, ma semicircolare all’interno.

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L’esterno è sobrio, presentando una veste povera per mezzo della struttura nuda in cotto, in netto contrasto con la ricchezza decorativa e ornamentale degli spazi interni dalla luminosità diffusa: una similitudine per indicare la caducità del corpo umano, fragile e imperfetto in quanto mortale, dunque, costretto a subire gli effetti inesorabili del tempo, e l’eternità dell’anima, la quale entro il luogo sacro riscopre la luce e da questi è purificata e, di conseguenza, salvata. Sono due gli ingressi: il principale con sviluppo assiale, perché in asse con l’abside, e l’ingresso secondario con sviluppo non assiale, perché laterale e ricavato sul fianco anteriore dell’àrdica a fòrcipe.

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Varcata l’ingresso si approda al deambulatorio, per del quale si accede, poi, all’ottagono centrale successivo e ai cui lati sono otto esedre simile ad altrettante absidi. Ai lati dell’area presbiteriale si aprono due locali circolari, ovvero la pròtesis e il diacònicon: all’interno del primo era abitudine conservare il pane e il vino per l’eucarestia, mentre nel secondo erano custodite le suppellettili e i paramenti sacri degli officianti. L’intero spazio interno è delimitato da colonne bizantine proveniente da Costantinopoli, caratterizzate da capitelli a cesto o d’imposta al di sopra dei quali sono posti i celebri pulvini con decorazioni policrome a rilievo e traforo, aventi la funzione di donare maggiore slancio verticale alle colonne stesse. Al primo registro dell’ottagono di base si somma quello superiore ove sono i matronei, vale a dire le gallerie aperte riservate fin dall’età paleocristiana all’assemblea femminile, sorretti anch’essi dalle medesime colonne citate.

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La cupola è alleggerita da tubi fittili disposti su filari concentrici, tecnica sperimentata dagli architetti bizantini e da questi importata in Italia, mentre il tiburio posto esternamente a protezione della stessa presenta anch’esso una forma ottagonale.

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L’arco trionfale absidale ha un chiaro significato simbolico legato al potere imperiale d’Oriente, poiché due aquile sorreggono il clipeo entro il quale è il monogramma cristologico stilizzato.

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Il catino absidale presenta il mosaico con il tema del Cristo globocratore: seduto sul globo, simbolo del creato, e affiancato da due angeli, il Redentore porge la corona del martirio a San Vitale (a sinistra), titolare della Basilica omonima, mentre il vescovo San Ecclesio (a destra), primo committente della stessa basilica, offre il modellino della stessa alla Maestrà Divina.

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Sulle due pareti presbiteriale di varco al catino absidale spiccano i due celeberrimi pannelli musivi del corteo imperiale di Giustiniano e della moglie Teodora”.

Questi, commissionato dall’esarca Massimiano a testimonianza del potere politico-spirituale del quale fu investito direttamente dall’imperatore d’Oriente, rappresenta in due scene il corteo imperiale per l’inaugurazione della Basilica ravennate nel 548 d.C. alla presenza degli stessi regnanti dell’Impero, nonostante questi, in realtà, non fecero mai visita a Ravenna, né tanto meno nel giorno inaugurale. Tuttavia, la scelta di rappresentarne i ritratti dev’essere interpretata dai fedeli e dal visitatore come l’onnipresenza spirituale di Giustiniano e di Teodora nei domini dell’esarcato come vicari di Cristo in terra.

Nel pannello di destra è “Teodora e la sua corte” : l’imperatrice, posta al centro entro una nicchia con catino mosaicato a conchiglia, porta come offertorio il calice del vino affiancata da due donne, identificate rispettivamente con la moglie e figlia del generale dell’Impero, Belisario, seguite, a loro volta, da cinque ancelle. La processione è aperta da due dignitari di corte, uno dei quali scosta la tenda dello stipite per facilitarne l’entrata in basilica. Ciò è indice dell’ambientazione esterna, sottolineata ulteriormente dal fondale verde, simbolo dei giardini del Paradiso, e dalla fontana all’estrema sinistra dinanzi l’ingresso, a testimonianza dell’antico quadriportico che lì sorgeva, prima che venisse abbattuto per far spazio all’àrdica a fòrcipe di cui si è detto sopra.

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Teodora indossa la corona imperiale tempestata di gioielli, pietre preziose incastonate e perle al pari della lunga collana con pendenti che le attraversa il busto, e veste un pesante mantello porpora, simbolo del potere imperiale, sul cui bordo inferiore sono rappresentati i Re Magi che, come l’imperatrice, offrono i loro doni, oro, incenso e mirra al Salvatore.

A sinistra, invece, è “Giustiniano e il suo seguito” : l’imperatore porta una patèna d’oro con il pane eucaristico fiancheggiato a sinistra dai soldati in armature e scudo con il Chrismon, e da tre dignitari di corte, uno dei quali barbuto e identificato con il generale Belisario, che riuscì a scacciare definitamente gli Ostrogoti da Ravenna nel 553 d.C. Il clero, invece, è rappresentato alla destra di Giustiniano nei tre uomini in vesti liturgiche: il turiferario, ovvero colui che tiene in mano il turìbolo, cioè l’incensiere, il secondo con il messale e il terzo con pallio, velo omerale dorato e croce gemmata, facilmente identificabile con l’esarca Massimiano grazie alla scritta latina “Maximianus”.

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Contrariamente al corteo di Teodora, la processione dell’Imperatore si compie all’interno della basilica, riconoscibile dal soffitto a capriate lignee riprodotto sulla fascia superiore del pannello musivo.

In entrambi le scene è proposto il fenomeno dell’isocefalia, in quanto le figure presentano la stessa altezza e queste, inoltre, appaiono bidimensionali con volti atarassici, vale a dire inespressivi. Ciò perché gli ignoti maestri mosaicisti bizantini, anziché curare la forma e il volume, hanno tentato di focalizzare l’attenzione sulla preziosità dei tessuti, sulla solennità e ieraticità dell’evento celebrativo. Attraverso il ribaltamento del piano permette ai regnanti di esser posti in posizione centrale privilegiata, anziché a inizio corteo, e la loro importanza socio-spirituale è contrassegnata dalle aureole che ne circondano il capo. Nella concezione bizantina, infatti, l’imperatore è il tramite tra Dio e gli uomini, quindi, la sua dignità, così come quella della moglie Teodora, sono simili a quelle dei Santi.

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Infine il fondo luminoso privo d’impianto prospettico e ottenuto con foglie d’oro tenuto insieme da tessere di pasta vitrea determina un’assenza spazio-temporale come simbolo della dimensione ultraterrena in cui le stesse figure appaiono quasi sospese e senza peso nella loro rigidità e ripetitività di gesti.

L’esperienza vissuta è servita alla mia formazione perché ho potuto godere attraverso gli occhi, arricchendo mente e cuore allo stesso tempo. Dunque, credo fermamente nella frase “Mi affascina solo chi mi sa stupire, tutto il resto è noia”.

GUCCIONE – IUDICE, TRA DESIDERIUM ET DILIGENTIA. PIERO GUCCIONE. “IL MARE DENTRO” (PARTE PRIMA)

GUCCIONE – IUDICE, TRA DESIDERIUM ET DILIGENTIA.

 PIERO GUCCIONE. “IL MARE DENTRO”

(PARTE PRIMA)

di Filippo Musumeci

 Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord.

La spiaggia. E il mare.

Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.

  • Thomas: È uno specchio, questo mare. Qui, nel suo ventre, ho visto me stesso. Ho visto davvero. (Alessandro Baricco, “Oceano mare”, 2007)

M_guccione_0074Lì, lungo quel lembo di terra baciato dalle onde; lì, in quell’infinita distesa azzurra, resa mobile dal vento di scirocco e vestita dal sole di vibranti dorature, due maestri danno vita al canto del mare. Sì, al canto! Perché è melodioso suono quello che trasuda la tela vestita di morbidi pigmenti che si danno alla luce come messi a nudo, come due amanti nell’unione dell’amplesso. E cos’altro se no! Piero Guccione e Giovanni Iudice: non certo i primi, eppure, credo, pochi sono riusciti ad assorbire e racchiudere nel quadro l’elemento “mare” al pari dei due maestri siciliani. Ciascuno a suo modo, ma, tesi tra evasione e immersione, tracciano una scia come la prua di una barca laggiù, persa all’orizzonte come un sentimento gelosamente taciuto.

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Li amo entrambi, passionalmente, come parti di un’unica matrice; ne seguo le sorti discretamente come un amante per la cortese amata. Non saprei preferirne l’uno all’altro, ecco! Compirei un sacrilegio impossibile da esorcizzare, rinnegherei ciò che mi fu gratuitamente elargito in termini di ritrovata “libertà”. “Libertà” di sguardo e spirito, di fiato e d’infinito. Nella produzione figurativa dei due pittori, le marine sono uno dei molteplici campi esplorati, non il solo esclusivo, e come gli altri soggetti indagati esso nasce da inclinazioni interiori che da estemporanee tendenze estetiche.

Avere l’ambizione di ricostruire l’intera opera di Guccione e Iudice è un’impresa titanica di cui non intendo in alcun modo investirmi, almeno in codesta sede (magari un domani, chissà!), non solo per la vastità del loro corpus figurativo, ma per un limite oggettivo di battute, credo improponibile per un blog. Tuttavia, questo vuole essere un sincero omaggio a due grandi uomini fra i più rappresentativi dell’arte post-moderna e dei quali si vuole presentare la personalissima visione circa l’approccio al tema del “mare”, dinanzi alla cui magniloquenza non si può che esser trasparenti.

Friedrich scriveva: «Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito. In seguito, dai alla luce ciò che hai visto durante la notte affinché la sua azione si eserciti di rimando sugli altri esseri dall’esterno verso l’interno». Sia Guccione che Iudice hanno saputo guardare e tradurre il loro mondo, così vicino e lontano allo stesso tempo, con gli occhi dello spirito, giungendo, infine, a soluzioni diverse perché diversa è la loro interiorità e diverso il loro vivere nel mondo.

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Guccione è il pioniere di una nuova figuratività, l’amico di Renato Guttuso, il fondatore del Gruppo di Scicli, l’anziano maestro rimasto fanciullo con “il mare dentro”; Iudice, anche lui pioniere di una nuova visibilità, l’uomo che mi fregia di esserne sinceramente amico, l’artista che non fa “gruppo” perché la solitudine gli è necessaria come urgenza di verità, il maestro divenuto presto adulto e “dentro il mare”. Distanza e vicinanza, esterno e interno, impalpabile e tattile si equivalgono e completano come cielo e mare, giustapposti appena da quella sottile linea orizzontale che non ne segna affatto la fine, bensì solo il punto di partenza. Le vedute marine di Guccione rappresentano una costante ricerca concepita sul finire degli anni Sessanta e ancora in evoluzione per via di quell’eterno inappagamento dello stesso per il percorso fin qui tracciato. Sono, in realtà, la vivida trasfigurazione di un mare respirato, indagato, sognato, melanconicamente solitario e silenzioso perché depurato dal corrosivo agire dell’uomo, e ove ogni bieco fine non lascia di sé alcun solco.

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Un rifugio incontaminato, atemporale, come esplicito omaggio allo spirito romantico di sapore nordico di Friedrich – io vi ho sempre visto anche tanto di Turner –, un rigore geometrico verso la fissità della visione come in Cézanne (vertice d’ispirazione della sua maniera), una fuga espressionista come terapia esistenziale in Edvard Munch; un’eterna attesa senza tempo come nelle distese oceaniche di Edward Hopper, un’intensa pulsione verso la felicità oltre il tormento come nei lavori dell’amico Francis Bacon e di cui Guccione dirà: «A me piace molto che egli abbia detto che la bocca del papa avrebbe voluto dipingerla come un tramonto di Monet. Si capisce perché parli con ammirazione di Monet. Ci sono anche in Bacon le grandi campiture di colore, ed in quelle campiture un’intesa felicità».

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Ancora affermerà: «Ebbi un colpo di fulmine per Friedrich, non so perché. Poi ho scoperto quanto Munch venisse da Friedrich. Erano per me quadri di natura che avevano una fragranza e la verità che in essi determinava il senso dell’ora e del tempo, ma erano anche quadri profondamente soggettivati. E tuttavia senza l’intenzione di fare il bel quadro. Quello di Friedrich era un occhio freddo e incandescente assieme».

Il passo riportato è significativo del forte ascendente esercitato dalla pittura dell’artista di Greifswald su quella dell’artista siciliano fin dal 1977, anno della mostra parigina del primo ammirata dal secondo, nonché causa diretta dei celebri d’après “Viandante che guarda il mare da Friedrich” (1982-83; pastello su carta, 65 x 50 cm. Collezione privata), “Le bianche scogliere di Rügen, da Friedrich” (1983, pastello. Collezione privata), “Le età dell’uomo III, da Friedrich”, 1983; tecnica mista, 50 x 64 cm. Collezione privata), “Le nebbie di Friedrich” (2007; pastello, 15,5 x 23 cm. Collezione privata).

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Nel “Viandante”  la cortina di nebbia da cui emergono le vette montuose del Kaiserkrone in Sassonia è sostituita da una piatta e calda distesa del Mediterraneo, in calce al quale Guccione annota una massima dello stesso Friedrich: «Il pittore non deve soltanto dipingere ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede in sé. Se però non vede nulla, tralasci pure di dipingere ciò che vede davanti a sé». Nel suo omaggio, Guccione permette al viandante di integrarsi con il paesaggio all’orizzonte liricamente trasfigurato, verso cui guarda e i cui caldi toni degli azzurri e dei gialli alludono alle insenature di quella spiaggia ragusano ove ora sosta, in un eterno scambio tra il vicino del piano comprensibile e il lontano del fondo, ormai, irraggiungibile. E come in Friedrich, anche qui è continua vibrazione di superficie, benché non sia semplice citazionismo, quanto, piuttosto, il fedele tentativo di superare il puro naturalismo della tradizione per sconfinare, come ricorda Andrea Guastella «nella vastità del cosmo, nella solitudine dell’uomo, nel miracolo in quieto e perturbante di un sogno illuminato» (“Lontananza di Guccione”, 2015).

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Nel 1830 Friedrich ricordava come: «il compito dell’artista non è la rappresentazione fedele dell’aria, dell’acqua, delle rocce, degli alberi. La sua anima e la sua sensibilità devono rispecchiarsi nella sua opera. Il compito di un ‘opera d’arte è di riconoscere lo spirito della natura, comprenderlo, registrarlo e renderlo con tutto il cuore e il sentimento». Nella stessa misura, il cuore e il sentimento sono la chiave per comprendere la poetica guccioniana sul ruolo dell’artista e sul rapporto di questi con la natura. Un ritorno ancestrale all’amata Itaca, dopo un lungo peregrinare formativo, di questo “Ulisse sciclitano”, che riapproda alla natura natia e ivi dimora, assorto in una lenta contemplazione onirica di quel paesaggio, sono sue parole, «guardato e goduto nell’infanzia», lo stesso in cui, chissà quante volte, vi nuotava fanciullo in compagnia dei genitori nelle calde giornate estive. Carl Gustav Carus, allievo di Friedrich, scrisse che: «Chi contempla la meravigliosa armonia di un paesaggio reale, diviene consapevole della propria piccolezza e sente che in ogni cosa è partecipe del Divino: si perde allora in quell’infinito, rinunciando in un certo senso alla propria esistenza individuale. Annullarsi in tal modo non è distruggersi: è potenziarsi. Quanto normalmente è possibile concepire soltanto attraverso lo spirito, si rivela allora quasi naturalmente all’occhio fisico, il quale coglie appieno l’unità dell’universo infinito».

Ma qual è il pensiero di Guccione circa l’infinito? Egli stesso lo indica: «L’infinito ha una connotazione diversa dall’eternità perché è qualcosa di misurabile poeticamente, esteticamente, sentimentalmente. Non è una possibilità di misura reale, ma poetica sì».

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Una distesa azzurrognolo-violacea ovattata che tende alla monocromia seppur intrisa di sfumature delicatamente variegate, come se l’infinito potesse esprimersi nell’unità a lui più congeniale anziché nella varietà più convenzionale. L’azzurro si fonde col cielo in una ritrovata ampiezza spaziale, ove le esile onde, da queste germogliate, si trasfigurano in cadenzate e solitarie sonorità incise dalla risacca. Queste emettono il loro primo gemito vitale all’orizzonte, che l’occhio languido e sognante scruta navigando tra indeterminate e calde sfumature intrise di riflessi, rifrazioni, rimandi: carezzevole moto che dalla natura giunge all’anima e da questa ancora all’infinito. È un abisso, dunque, dalla profondità velata di cui non si fa sfoggio alcuno del suo fondale sabbioso e di cui non se ne percepisce il moto sotto la sua piatta superficie. In questa, i soli punti di orientamento sono ridotti a poche linee dall’andamento spezzato, quale traccia di un passaggio compiuto e distante, eppure già depositaria di un’eco antica, carezzevole come il molle respiro delle sue increspature.

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In un’altra sua riflessione confesserà: «Il mare? Cerco di farlo muovere per incontrare il cielo. Ma il senso del cielo è quello dell’immobilità, mentre il mare è la mobilità. Il mare è la fissità mobile, il cielo la fissità assoluta. Inconsciamente mi adopero per farli incontrare».

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A tal proposito, Elena Pontiggia dirà: «Quando Guccione dipinge il cielo e il mare dipinge due cose: la prima è il cielo e il mare, la seconda è tutto il resto».

Il mare di Guccione si presenta agli occhi del fruitore nella sua inoffensiva evidenza: non turba i sensi, non si teme di esserne travolti e trascinati alla deriva, di esserne risucchiati e dimenticati. Una silente quiete di rassegnato disincanto o, ancor più, di ritrovato equilibrio, regna sovrana e persino “il naufragar mi è dolce in questo mare”. Un rinvigorito sentimento del “sublime” per cui “l’orrore” ha ceduto il posto al “dilettevole”, in un affresco corale ove una possibile sinistra minaccia è, almeno per il momento, reclusa. Dunque, una profondità spaziale estesa, una distanza prospettica verso l’orizzonte lontano come evasione dal piano, come celebrata catarsi, poiché per il pittore: «dare forma, dare spazio, è dare vita alla meraviglia del mondo».

E la sua pittura, per la quale l’amico Guttuso parlò nel 1965 di «un concreto lavoro alla cui base è il bisogno di partire dalle cose», darà davvero forma, spazio e vita alla meraviglia del creato, ma tale nobile causa implicava un distacco dalla “cosa” amata. Era necessario che Guccione lasciasse il borgo natio, che viaggiasse e dimorasse altrove, che vivesse le frenesie e le mode della Città Eterna in quel soggiorno lungo ventisette anni e, soprattutto, che provasse nostalgia per i luoghi vissuti nell’infanzia e adolescenza, quando il genio era ancora in erba; che tutto ciò divenisse “melanconia” nella sua accezione etimologica di “bile nera”, di acuta tristezza per quanto lasciatosi alle spalle.

Per Guccione: «La malinconia non può esserci estranea, perché in fondo è uno dei sentimenti che accompagna in maniera non violenta la nostra vita. Perciò è un sentimento da privilegiare. La malinconia è importante».

Era dovuto l’abbandono di quell’amore, ora distante, che lo ripensasse con quello “sguardo da lontano” così consimile a quello dei tanti figli illustri di una terra fertile e ostile, complice e rivale, madre e adultera. Il ritorno in patria alla fine degli anni Settanta è documentato da una produzione spasmodica, che per il pittore vale come «l’unica valida testimonianza che si può dare della mia vita». 

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È il 1968-69 quando fa edificare l’abitazione di Punta Corvo sulla costa tra Sampieri e Cava d’Aliga (poi lasciata negli anni ’80 per la nuova residenza di Contrada Quartarella nella campagna ragusana tra Scicli e Modica), da cui la riscoperta dell’azzurro, ove «ha ritrovato in quel sentimento di aria e di luce mediterraneo il baluginio della fata Morgana della poesia» (Enzo Siciliano, 1971).

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Ma non un miraggio, bensì una nuova e concreta forma di bellezza progressivamente ritrovata spiegando appena, come un sipario, le ante della finestra e lo sguardo perduto in quella desolata immensità mobile. Ed è già il quadro nella sua stilizzata essenzialità: il muro di cinta di Punta di Corvo come base del dipinto, l’orizzonte come punto di fuga, le linee del mare come direttrice, l’azzurro come spazio. C’è tutto e non occorre altro! E quando c’è dell’altro, come plastica e tralicci di alta tensione, questo è il soverchio storicizzato che avanza e deturpa inesorabilmente la poesia.

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Alberto Moravia dirà che: «Guccione si è messo fuori dalla storia, si è tenuto alla passione che è di tutti i temi e di tutti i luoghi e di quello soltanto».

Quel pittore, che nella Capitale riuscì a farsi strada nell’affollato panorama artistico, suscitando le lusinghiere attenzione della critica contemporanea, ma che visse pure anni di «paralizzante timidezza che mi portavo dentro e che non mi facilitava la vita», ritrova nell’isola il suo azzurro e questi ritrova il suo autore, stavolta riuniti in un sodalizio perfetto; ed è lo stesso azzurro a permettergli la riscoperta della lirica sospensione di Friedrich, in un accordo, come ricorda, «fra esterno ed interno, fra espressione ed impressione». Una riscoperta che ne comporta di conseguenza un’altra, ovvero Munch, poiché la visione guccioniana è, in effetti, più vicina di quanto una superficiale lettura possa far credere a quella munchiana, al punto da spingere nel 1973 il pittore sciclitano a compiere un viaggio a Oslo e ripercorrere i luoghi cari al maestro norvegese. Se da una parte, dunque, lo spirito romantico si mostra in tutta la sua chiarezza nella scelta del soggetto e nell’evanescenza sentimentale che ne consegue, dall’altra, invece, il germe espressionista s’insidia nel trattamento della materia filamentosa e rarefatta, quanto nel moto emotivo che dall’interno scuote e trasfigura l’esterno. Per Guccione, come per Iudice e per chi come loro è artista di “forme” oltre che di “contenuto”, vale la massima di Munch: «Io non dipingo ciò che vedo. Ma ciò che ho visto», perché, continua, la «Natura è lo sconfinato eterno regno che nutre l’arte. Natura è non solamente quel che agli occhi è visibile. Natura è le più profonde immagini della mente. Le immagini sul risvolto interno degli occhi».

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Concludendo la questione attorno alla modernità di Friedrich e agli influssi esercitati su artisti posteri, da qualche tempo sostengo che se un’opera fosse capace di sintetizzare il pensiero di Guccione – e prima ancora dei vari Turner, Gericault, Frederic Edwin Church, Martin Johnson Heade, Winslow Homer, Courbet, Cézanne, Seurat, Signac, Van Gogh, Gauguin, Félix Vallotton, Munch, Matisse, Emil Nolde, De Chirico, Magritte, Dalì, Hopper, i contemporanei Franco Sarnari e Franco Polizzi (amici di vecchia di Guccione) e lo stesso Iudice, oltre, ovviamente, ad altri ancoraattorno al tema della natura e ai suoi diversificati sviluppi, credo, a mio modesto dire, che “Monaco in riva al mare” (1808, olio su tela, 98 x 128 cm. Berlino, Alte Nationalgalerie, di cui, come succitato, Guccione realizzò un d’après nel 1983, potrebbe esserne la summa, E ciò perché mi piace pensare (forse lo è davvero) che l’atteggiamento di muta contemplazione del monaco fissato dal pittore tedesco sia il medesimo vissuto nei meandri dell’animo dagli stessi artisti succitati, quale emblema della solitudine umana dinanzi a ciò che non si potrà mai domare. Ma ognuno di noi è, in fondo, quel monaco posto di tergo sulla spiaggia, muto e solitario in quell’intimo soliloquio in cui sono racchiuse le domande, sovente prive di risposte, sul segreto della nostra esistenza.

È stato detto più volte della distanza di Guccione dalla maniera di Monet; distanza che, a mio dire, può essere accettata limitatamente alla tecnica e al metodo compositivo en plein air, a cui il pittore siciliano preferisce, senza riserva alcuna, quello in atelier.

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In realtà, la presunta distanza assume i toni di una vicinanza di intenti circa il dialogo diretto instaurato con la natura nel processo di rarefazione dell’immagine. Basti pensare alla celeberrima “Impression, Soleil levant” (1872-73) o ai cicli monettiani della “Scogliera della Manneporte a Etretat” (anni ’60 e ’80 dell’Ottocento), di “Argenteuil” (1872-78), degli “Scogli di Belle-Ile – La costa selvaggia” (1886-91), del “Parlamento di Londra” (1900-04), di “Venezia, il Canal Grande” (1908) e, ovviamente, quello più celebre delle “Ninfee” (1899 – 1926) per intuire come la predisposizione a una visione evanescente dall’indeterminatezza spaziale, quindi priva di espedienti prospettici convenzionali, sia, verosimilmente comune a quella guccioniana.

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Anche la scelta di particolari sfumature violacee contribuiscono ad agitare le superfici dal piano all’orizzonte, amplificando l’intensità luministica e la limpidezza atmosferica, così come le tonalità chiare fondono in un tutt’uno unitario gli elementi aerei, minerali e liquidi. Dunque un sicuro controllo della visione, pienamente posseduta, in quel processo di fusione retinica della materia. E a proposito del violetto, Monet scriverà: «Ho finalmente scoperto il vero colore dell’atmosfera: è il violetto, l’aria fresca è violetta. Fra tre anni tutti lavoreranno col violetto» (primi anni ’90  dell’Ottocento). Non è un caso che anche Guccione sia giunto, ottant’anni dopo, alle medesime conclusioni, riconoscendo al colore il valore dell’immateriale inconsistenza.

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In Guccione l’impianto prospettico è affidato sovente a uno sviluppo longitudinale, avente la funzione di dilatare massimamente la spazialità oltre la sottile orizzontalità dello sfondo, geometricamente scisso in due sezioni speculari. Di rado, invece, ci si apre alla veduta a volo d’uccello, ove il punto di vista, particolarmente alto, riduce la porzione inconsistente del cielo e accentua, per effetto, quella della distesa acquatica.

11Come ebbi umilmente modo di scrivere in un precedente articolo dedicato al maestro, il tema del mare, presente nella produzione pittorica dell’artista sin dalla fine degli anni Sessanta, diventa paradigmatico, ovvero lirica contemplativa ed evocativa delle nude e modulate trasparenze di quelle che lo stesso maestro chiama “Linee del mare”, a metà fra il richiamo naturalistico e una griglia geometrica in funzione rigorosamente compositiva.

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E se nel dettaglio si coglie verosimilmente la carne, è nella sintesi che si coglie intuitivamente l’anima, senza filtri codificati, piuttosto, nell’invulnerabilità della sua memoria nel suo continuo denudarsi. Ed è in questa calda sinfonia di luce, ove la risacca dorme al pari del suo placito orizzonte, che si plasma quel lirico amplesso tra Sampieri e Donnalucata: due borghi tufacei baciati dalla salsedine, la quale, generosa, depone sulla spiaggia e lungo i loro vicoli stretti il suo ‘seme’, sospinta da una leggere brezza come la Venere botticelliana dal soffio di Zefiro e Flora.

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Quei muri bassi di tufo tirati su a secco delimitano la stretta via che dal litorale di Sampieri e Donnalucata conduce al “tempio” del pittore di Scicli sito in contrada Quartarella, a due passi dal centro di quella deliziosa cittadina tardo-barocca, che è Modica, e a circa 24 Km dalla costa, non sufficienti per offuscarne la visuale, per cancellarne la memoria. Dalla terrazza di Guccione il mare lo si vede ancora, eccome! Giù a valle, oltre quel tappeto variopinto di fichidindia e melograni, di ibischi e carrubi, dolcemente disteso a guisa di un drappo azzurro d’infinitesimi riflessi argentei su di un’epidermide levigata e trepida al sol tatto.

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Quante volte, quante, nella brezza del mattino, quando i timidi raggi del primo sole accarezzano gli eleganti profili tardo-barocchi del paese sulla collina, o nell’afa del pomeriggio, quando ci si abbandona al “dolce far niente” all’ombra del refrigerio, ho sostato dinanzi la sua casa come un fedele dinanzi a un santuario. Quante volte! Attraversare per incanto le grigie pareti esterne e discretamente spiare il suo giorno tra quiete e meditazione, tra oli e pastelli, alla ricerca di un azzurro, sempre lo stesso e mai lo stesso.

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E io quel drappo azzurro d’infinitesimi riflessi argentei, steso su quell’ultimo limitare, l’ho vissuto, respirato, toccato; ne ho assaporato il salmastro sapore sulle labbra, la cristallina leggerezza sul palmo della mano, il piacevole refrigerio sul colorito olivastro. Come me, come tutti coloro che hanno conosciuto quei luoghi, anche Guccione ha amato le passeggiate solitarie alle luci del primo mattino in quell’insenatura lunga 2 Km, che dalla spiaggetta di Sampieri conduce alla Fornace Penna di Capo Pisciotto, divenuta celebre come location del “Commissario Montalbano”.

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Ciò al fine di fotografare con occhio esperto, qual è il suo, lo scenario dipanatosi in quello stadio così profondamente contemplativo. Eppure non è un’operazione en plein air la sua; non è il fissaggio di un attimo fugace, quanto, piuttosto, un’immagine generata in atelier attraverso il lento filtraggio della memoria, scremata da ogni residuo di asprezza e spigolosità.

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Eppure non può esserci solo lirismo quando quello che fino a ieri era un paesaggio cristallino ora è brutalmente violato dalla presenza di piloni e tralicci, puntualmente rappresentati dal pittore in lavori come “Paesaggio a Punta Corvo” (1974-75), nel quale si può leggere il preambolo a ciò che di lì a poco si compirà tra abusivismo isterico e ostruzioni cementizie. Il mare è sempre quello, il contesto no! E lo si sa, al peggio non c’è mai fine quando l’uomo sa spingersi oltre l’autolesionismo più scellerato.

E quella fiabesca distesa azzurra sa tingersi, ahimè, anche plastica e catrame, imperdonabilmente depositati su quella stessa spiaggia dorata tra Sampieri e Donnalucata a fine estate, quale simbolo dello scempio perpetrato dall’incivile megalomania della razza umana… Ho detto umana?? Quello di “La fine dell’estate n. 2” (1987), “Paesaggio” (1994) e “Da Courbet, l’altra faccia del Mediterraneo” (2011) è un “mare nero” a cui il pittore dà forma fin dagli anni ’80 del Novecento come atto di accusa, di denuncia sociale all’ottusità senza ragione che divora vorace il perimetro intorno per alimentare il proprio ego.

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Guccione denuncia sottilmente e sottilmente torna al mare, incantevole, depurato, sublimato: il suo! Perché se una speranza è ancora possibile, questa non può che annidarsi in ciò che fu e che si vuole sia nuovamente. E cos’é la speranza se non desiderio? Come insegna Aristotele: «l’agire moralmente buono è un fine, e il desiderio è desiderio di questo fine». (“Etica Nicomachea”, IV sec. a.C.).

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Quindi un distaccarsi e allontanarsi fisico, mentale, ottico e sonoro dall’immensità dello scibile per un ritorno vertiginoso all’essenza stessa della visione strutturata, ove tutto acquista il sapore dell’evanescenza, dell’inafferrabile, vale a dire di senso del vuoto; quel vuoto insito nei due elementi complementari, mare e cielo fusi in un’osmosi indissolubile. E il Mediterraneo, con il suo corpo che cambia pelle al mutare del divenire, è sinonimo di questa evanescenza magistralmente simulata ed eternata da Guccione, quale testamento spirituale di una dedizione assoluta alla meraviglia del creato:

«È lo stupore, e uno sconfinato senso di meraviglia, di commozione per tanto e sublime ordine, oltre alla gratitudine verso la vita che ci offre questo alto e silenzioso spettacolo. Prima di finire, mi piacerebbe poter dire tutto questo con la pittura, più compiutamente di quanto abbia fatto fino a oggi, almeno tentato».

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Piero Guccione, bontà sua, forse non saprà mai di aver già detto tutto, ma proprio tutto, e compiutamente con la sincerità assorta del suo sguardo. Lui persevera nella missione con i mezzi che gli sono propri al fine di tradurre in immagini ciò che nell’idea nasce in astratto. Lo fa con occhio e pennello, non è una novità, e «tutta l’esperienza del vissuto sembra cancellarsi, mentre quella del lavoro è quasi percepibile unicamente collocata tra il pollice, l’indice e il medio della mano destra: vale a dire sull’alveo corporale dove il pennello si posa». E ciò per il fine ultimo di «rivelare la visibilità delle cose e il loro enigma. Che, in Sicilia, vuol dire soprattutto la visibilità inafferrabile della luce: ogni giorno più splendente di meraviglie come mai viste prima». (Piero Guccione, “Tra il pollice, l’indice e il medio della mano destra”, 2015)

N.B. Vi diamo appuntamento alla parte seconda del nostro viaggio, interamente dedicata alle marine di Giovanni Iudice.

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