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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (PARTE SECONDA)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DECÓ”

(parte seconda) 

“Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”:

l’infanzia a San Pietroburgo, gli esordi parigini

e il primo soggiorno negli State.

 (1910-1929)

di Filippo Musumeci

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L’anno è il 1910 e il luogo San Pietroburgo. Questo l’anno e questo l’insigne palcoscenico, custode dell’Ermitage e dell’Accademia Imperiale russa di Belle Arti, ove l’appena dodicenne Tamara Rosalia Gurwik-Gorska mosse i primi passi del suo precoce talento artistico, documentato da quel “diario figurato” di deliziosi acquerelli adolescenziali con nature morte floreali (di cui si dirà nel quarto articolo dedicato all’artista).

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Ospite, assieme alla madre Malvina e alla sorella Adrienne, della zia materna Stefa e del marito Maurice Stifter, direttore di una succursale del Crédit Lyonnais, Tamara conduce una vita mondana tra feste in maschera e cene con i membri della famiglia reale Poniatowski. E fu proprio in una di queste feste aperte all’alta società russa che la giovane artista (per l’occasione vestita da contadina polacca con oca al guinzaglio) conobbe nel 1911 il nobile avvocato polacco, Tadeusz Lempicki Junozsa, che cinque anni più tardi, nel 1916, avrebbe sposato in prime nozze nella Cappella dei Cavalieri di Malta della stessa città, ribattezzata nel 1914 Pietrogrado. Appena pochi mesi dopo il matrimonio la nascita in quel 16 settembre della loro unica figlia, Marie Christine, detta Kizette (di cui si dirà nel quinto articolo).

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A seguito della Rivoluzione d’Ottobre nel febbraio 1917 e la caduta dell’Impero zarista, la famiglia di Tamara si rifugia nella capitale danese, Copenhagen, mentre la donna e il marito restano a San Pietroburgo fino all’anno seguente. Nel 1918, Tadeusz, accusato dalla Ceka di far parte della polizia segreta dello zar, viene condannato a sei mesi di prigionia, durante i quali Tamara ottiene dal console svedese il lasciapassare con il quale raggiungere la famiglia in Danimarca, attraverso la Finlandia, e poi Parigi, ove il marito la seguirà dopo lo sconto della pena in patria.

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Finalmente Parigi, finalmente Montmatre, finalmente Montparnasse!!

Eppure gli esordi parigini non furono dei più felici e da esule russa, una fra tante, visse nella città scenario di rifugiati politici e sopravvissuti: generali senza più plotone, militari senza più uniforme, se non quella delle catene di montaggio, governatori senza potere e improvvisatisi fotografi, granduchesse adesso declassate al rango di ricamatrici e cucitrici di abiti per bambole destinate al mercato borghese. Lo stesso Tadeusz deve inventarsi una nuova professione come commerciante di tesori fuoriusciti dalla Russia, tra cui una serie di tappezzerie Beauvais e Gobelins, già di proprietà di nobili storici. E così sarà fino al 1924, anno in cui l’uomo accetterà un impiego presso la Banque de Commerce.

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La capitale francese era rifugio anche del popolo della provincia russa, artisti ebrei dell’Est sfuggiti ai Pogrom (sollevazione violenta popolare, dalle finalità antisemite, contro le comunità ebraiche), i quali avevano ricreato uno shtetl (insediamento ebraico) in un unico e disperato falansterio, La Ruche, nata dallo smantellamento dell’Esposizione Universale del 1900, poco distante dai macelli di Vaugirard. Qui, ove ognuno dei residenti aveva una piccola stanza chiamata “bara”, nel 1910 approdò Marc Chagall e nel 1912 Soutine. Non furono i soli! Tanti gli artisti ivi installati, come il russo Archipenko, Zadkine, Mané-Katz da Kiev e la scultrice Chana Orloff, amici di Tamara.

Una nuova esistenza, dunque, tutta da reinventare e pianificare nell’affollato e palpitante teatro de “la vie moderne”.

Tamara e Tadeusz non possiedono ancora una fissa dimora e per due anni (1918-20) vivono stanze di modesti alberghi di periferia sbarcando il lunario con la vendita dei gioielli della donna. Ma la polacca è tenace e determinata a restare a galla e non lasciarsi inghiottire da fame e miseria.

Ella vuol dar voce al suo talento, vuole che la gente la conosca, che la critica si accorga di lei; vuole, insomma, diventare un’icona della modernità. E ci riuscirà presto!

Come già detto nel precedente articolo, sarà la sorella Adrienne a svolgere un ruolo determinante per la carriera di Tamara; lei a stimolarla e persuaderla a frequentare i corsi di pittura del simbolista Maurice Denis presso l’Académie Ranson sin dal 1920. Sarà solo l’inizio!

L’anno seguente, il 1921, è quello della svolta: diventa allieva del franco-cubista André Lhote, l’artista che ricorderà come suo unico maestro, e debutta nel mondo della moda parigina, disegnando cappelli e toque neri per le stiliste Camille Roger e Marie Crozer. Questa svolta comporta di conseguenza, sempre nello stesso anno, l’abbandono della precarietà degli alberghi periferici per un più dignitoso domicilio presso l’uguale periferia di Place Wagram, 1, 17° arrodissement, ove risiederà col marito fino alla metà del 1923.

E il 1921 sarà anche l’anno di un’altra svolta nella vita “privata” dell’artista, ossia la scoperta della propria bisessualità e l’inizio della relazione con la vicina di Place Wagram, Ira Perrot, amante, musa e modella, almeno fino al 1932, di alcune tra le più celebri tele della pittrice.

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Lo studio-abitazione di Place Wagram,1, fu documentato in un servizio fotografico del 1923 da Costantin Stifter (cugino della Lempicka, figlio degli zii materni di questa, Stefa Decler e Maurice Stifter), per il numero del 15 gennaio 1924 della rivista “Arlequin” – il quindicinale fondato da Max Viterbo, direttore del locale “Le Cigale”, tra i cui collaboratori comparivano nomi come Capiello, Van Dongen, Larionov, Foujita e il grande Picasso – dal titolo Les envois de Mne Sempitzky aux Indépendants.

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Questi spazi interni sono restituiti in tutta la loro fedeltà dalla stessa Tamara nel dipinto “Angolo d’atelier” (1924 circa; olio su tela, 73 x 50 cm. Collezione Yves e Françoise Plantin), ove i ricordi dei modelli cubisti lhotiani sono giocati sui toni del blu dell’angolo scarno della stanza, composto solamente dalla minimale cassapanca lignea e da tre ripiani, altrettanto lignei, occupati da pochi oggetti utili, per lo più, alla resa di nature morte: otto libri, variamente disposti, un portacandela (anch’esso blu) e una bottiglia di vino rosso (per metà vuota). E la scelta di una semplificazione cromatica è rappresentata dal netto contratto tra le tonalità di blu e quelle grigiastre della parete accanto, con l’ampia apertura verso i tetti della piazza sottostante, e dall’ocra del parquet, diligentemente riprodotto.

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In quell’occasione l’obiettivo fotografico di Costantin Stifter immortalò diversi lavori della cugina: “Il cinese” (1921 circa; olio su tela, 35 x 27 cm. Le Havre, Musée d’Art moderne André Malraux), presentata al Salon d’Automne del 1922 e “numero 1” del suo catalogo generale, in cui la pittrice combina modelli espressionistici e cubisti lhotiani; e “Strade nella notte” (1923 circa; olio su catone, 50 x 33,5 cm. Stati Uniti, collezione Richard e Anne Paddy), anch’esso composto sui modelli lhotiani ed espressionistici a cui si sommano le rimembranze degli amici futuristi. Il buio della città è schiarito dalle luci artificiali dei lampioni tradotti dall’artista come paralumi dai riflessi conici su uno scorcio notturno dal profilo tagliente e dinamico, tutti giocati sui colori terrosi.

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A proposito di futuristi, con Filippo Tommaso Martinetti la Lempicka fu legata da un’intensa amicizia e comunanza di ideali, come quella volta in cui i due si lasciarono andare a una moralitè lègendaire. La donna narrò quell’aneddoto notturno a La Coupole di Montparnasse quando Martinetti la invitò con altri del gruppo a sedersi al tavolo del locale per pianificare l’incendio del Louvre, visto come mausoleo dell’arte ritenuta, ormai, morta. Ma l’autovettura della Lempicka, scelta come mezzo di trasporto, non fu più trovata ove la donna ricordava di averla posteggiata. E fu così che anziché appiccare il fuoco al museo  si ritrovarono in commissariato a denunciare il furto dell’auto, esaurendo, in tal modo, l’istintiva sregolatezza bohème, esplosa, come tante, nel fervore delle notti parigine.

E le notti parigine, con la poesia dei suoi scorci e l’eterogeneità dei suoi abitanti, ispirò, come oggi, rinomati fotografi dell’Est e tedeschi come Mario von Bucovich, Germaine Krull, Moï Ver, Ilja Ehrenburg e degli ungheresi André Ketész e Gyula Halsz, che nel 1932 assumerà lo pseudonimo di Brassaï. Questi giunge nella capitale francese nel 1924 come pittore e giornalista, ma a seguito dell’incontro con Ketész si dà alla fotografia, documentando nel volume illustrato “Paris de nuit” (1933) alcuni degli angoli più noti della città, svuotati, però, del loro caotico ritmo diurno e assopiti nel loro lirico silenzio. Stessa operazione sarà ripetuta dallo stesso André Ketész nel suo volume illustrato “Paris vu par André Ketész” (1934), il quale sin dal 1925, anno del suo arrivo a Parigi, immortala affinità elettive stabilite con i tanti volti della città.

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Del 1923 è anche “Il fondo rosa” (“Ritratto di Bibi Zogbè”; olio su tela, 47 x 38,7 cm. Collezione privata), ove Tamara continua a sperimentale i modelli cubisti lhotiani ed espressionistici verso una ricomposizione geometrica della struttura anatomica della modella Bibi Zogbè, ovvero la pittrice e amica argentino-libanese specializzata in natura morte floreali, «della quale la Lempicka coglie la fisionomia, ma anche la particolare gestualità: i grandi occhi sbarrati, il naso  importante e, atteggiamento che doveva esserle abituale, la mano portata al volto» (Gioia Mori).

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Nello stesso anno espone al Salon des Indépendants (10 febbraio – 11 marzo) e al Salon d’Automne (1 novembre – 16 dicembre) di Parigi, ove è presentato per la prima volta la tela che le darà i primi consensi critici, “Prospettiva” (“Le due amiche”, 1923; olio su tela, 130 x 160 cm. Ginevra, Association des Amis du Petit Palais), in vendita alla considerevole cifra di 15000 franchi (di cui si dirà nell’ottavo articolo).

Tra aprile e ottobre dello stesso 1923 la Lempicka si trasferisce con Tadeusz al numero 5 di rue Guy de Maupassant, 17° arrondissement, nel cuore di Montparnasse, appartamento che occuperà fino al 1930.

Sono anni di frenetica attività creativa in cui realizzerà gran parte dei soggetti che la renderanno immortale già presso i contemporanei, di viaggi tra Roma, Firenze e Venezia, di esposizioni personali e collettive, di riconoscimenti e onori. Ma tutto ciò è accompagnato da altrettanti frenetici eccessi di frivolezza e spensieratezze mondane che il paziente marito riesce a stento a tollerare: gli incontri extraconiugali e la solida relazione con Ira Perrot; l’abuso di cocaina, le notti bianche tra night e bordelli, nonché le lunghe sedute di lavoro fino all’alba in compagnia delle sinfonie di Wagner a volume insostenibile. Intanto, intraprende nuove relazioni omosessuali, senza, comunque, interrompere quella con la Perrot: con Rafaëla nel 1927 e la cantante-attrice Susy Rocher Solidor nel 1932, entrambe muse e modelle della Lempicka.

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Il marito sopporta ancora per qualche anno: cinque per l’esattezza, fino al 1928. Poi la rottura! Partito l’anno prima per lavoro alla volta della Polonia, Tadeusz conosce Irene Spiess, che sposerà cinque anni più tardi a Lodz, il 19 marzo del 1932. Tamara subisce il colpo ed è costretta ad accettare il nuovo legame dell’ormai ex marito, ma seguito del quale vivrà un profondo stato depressivo, che l’affliggerà fino alla fine degli anni Trenta.

Tuttavia, un’artista come lei non può darsi certo per vinta! Nonostante tutto, non si lascia soffocare dalle vicende personali e continua a dipingere con maggiore enfasi e ardente ricerca.

Il 1928 è ricordato non solo per il divorzio da Tadeusz, ma anche per l’incontro con il barone ebreo austro-ungarico Raoul Kuffner de Dioszegh, che sposerà nel 1934 a seguito della morte della moglie di questi, la viennese Cara Carolina von Haebler. Nonostante fosse sposato e padre di due figli, Peter e Louisianne, Kuffner conduceva a Parigi una vita piuttosto libertina, ove era nota la sua relazione con la ballerina spagnola Nana de Herera, per la quale il barone commissionò alla polacca un ritratto, diventandone, poi, anche uno dei maggiori collezionisti.

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Fu, questa, l’occasione che fece “scoccare la scintilla” tra i due, uniti per oltre un trentennio, fino alla morte dell’uomo in quel 3 novembre 1961 durante la traversata oceanica dall’Europa agli State.

Il continente americano accolse con entusiasmo la prima visita ufficiale della Lempicka, approdata nella Grande Mela il 3 aprile 1929 a bordo del transatlantico “Paris” con un permesso di soli sessanta giorni, presto prorogato di due anni, nei quali l’artista si divise tra New York, Chicago, Santa Fe e Detroit, contesa da milionari, collezionisti e galleristi, le cui commesse le frutteranno, pare, un milione di dollari.

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Ma anche due anni di nuovi stimoli e ispirazioni, scaturiti dall’ammirazione per i profili avanguardistici dei grattacieli, deputati quale sfondo urbano ideale per i suoi nudi seducenti e “metanatomici”.

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P.S. Appuntamento con la Terza Parte del nostro viaggio nell’arte di Tamara de Lempicka.

BIBLIOGRAFIA

Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (Prima parte)

 “LA REGINA DELL’ART DÉCO”

di Filippo Musumeci

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Ho provato le febbricitanti passioni, le spasmodiche pulsioni, le indomabili trepidazioni. E tutto ciò per una creatura nobile, una donna eccentrica, un’artista sublime.

Invaghirsi di una “Gran Dama” di vocazione internazionalistica e di labile identità; di colei che incarnò la raffinatezza blasonata dell’Art Déco, la fece propria e la riscrisse con l’inconfondibile charme del suo glamour, fino a divenirne la rappresentazione iconica più autentica. Non è un azzardo dichiarare come l’Art Déco sia nata con lei e in lei dimorò per tutto il corso della sua costellata e osannata esistenza, lunga un ottantennio.

Una russo-polacca bianca “anticomunista” che della sua dichiarata bisessualità, della sua natura trasgressiva, del suo dandysmo declinato al femminile ne fece l’anticonformistico vanto della propria libertà intellettuale, creativa e socio-culturale. Nessuno seppe sottrarsi all’incantesimo della sua eleganza: Imperatori, zaristi, nobili magnati, collezionisti e galleristi fecero a gara per aggiudicarsi una sua creazione, e senza badare troppo alle vertiginose quotazioni di cui godeva già in vita. In un articolo della rivista “Donna” dell’aprile 1930, Luigi Chiarelli la descrisse in questi termini:

“Alta, morbida ed armoniosa, nelle movenze, tutta accesa di vita, col volto illuminato dai grandi occhi un poco artificiali, con la bocca facile al sorriso e rossa dei più rari rouges parigini, ella fa convergere sulla sua persona tutti gli sguardi e tutte le curiosità. Che passi inosservata non è possibile tanto splende nei colori dei suoi abiti, nei toni della pelle, nella femminilità raggiante da tutta la persona”.

Fu lei la “Regina” di una fede avanguardistica vissuta fra decadenze e ricercatezze, lustri e debolezze, ambizioni e contraddizioni per il fine ultimo “d’imprimere l’impronta dei tempi moderni”.

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Tamara Rosalia Gurwik Gorska, passata alla gloria come Tamara de Lempicka Junozsa, Baronessa Kuffner de Dioszegh, per via dei due titoli nobiliari acquisiti dai due matrimoni: il primo con il nobile avvocato polacco Tadeusz Lempicki Junozsa (1916-28); il secondo con il barone ebreo austro-ungarico Raoul Kuffner de Dioszegh (1934-61).

Luogo e data di nascita restano avvolti nel mistero alimentato dalla stessa e mai svelato: Varsavia, Mosca o San Pietroburgo? E, soprattutto, quando tra il 1895 e 1898? Improbabile il 1902, anno erroneamente riportato sul certificato di morte. Solo su quest’ultima, tuttavia, non si hanno dubbi: il 18 marzo 1980 a Cuernavaca (Messico), località scelta nel 1976 da Tamara come suo ultimo rifugio.

E il luogo di sepoltura? Neppure questo esiste! Il 27 marzo dello stesso anno, a seguito della solenne celebrazione funebre in Cattedrale, la figlia Marie Christine detta Kizette, nata dal primo matrimonio (1916-2001) e l’ultimo giovane compagno della Lempicka, Victor Manuel Contreras, prendono posto su di un elicottero portando con sé l’urna contenente le ceneri della “dama polacca” per il loro ultimo solenne viaggio: il vulcano Popocatepetl, sopra il quale verranno sparse.

Volgeva così al termine l’avventura terrena di un’artista “pura” e di una donna “unica”. Tuttavia, ciò non segnò la nascita del suo mito, come sovente accadde (e accade tutt’oggi, ahimè!) per numerosi artisti. Il mito della Lempicka nacque prima, … parecchi decenni prima! Quando la sua aurea splendeva e illuminava lo stile, il gusto e la moda degli anni Venti e Trenta dei due continenti, Europa e America, in cui dimorò e regnò incontrastata e sovrana.

E quel mito rivive oggi più che mai per l’eco dell’antologica italiana fortemente voluta dalla più accreditata studiosa vivente della Lempicka, la storica d’arte Gioia Mori, la quale ha curato e coordinato egregiamente le due tappe nostrane di Palazzo Chiablese di Torino, prima, (19 marzo – 06 settembre 2015) e Palazzo Forti di Verona, poi, (20 settembre 2015 al 31 gennaio 2016).

Un archivio pari a 2168 documenti, capillarmente visionati dalla Mori (e per la quale non ancora del tutto completo!), al fine di ricostruire le 114 tappe espositive della baronessa Kuffner:

  • 42 presenze ai Salon parigini: (14 al Salon d’Automne; 12 al Salon des Indépendants; 8 al Salon des Tuileries; 7 al Salon FAM; 1 al Salon des femmes peintres et sculpteurs).
  • 16 mostre personali: 7 a Parigi (1930, 31, 32, 55, 61, 72, 80); 3 a New York (1939, 41, 61); 2 in Italia (Milano, 1925; Roma, 1957); 1 a Vichy (1961); 1 a Los Angeles (1941); 1 a San Francisco (1941); 1 a Milwaukee (1942).
  • 56 mostre collettive: 29 in Francia, 14 negli Stati Uniti, 4 in Gran Bretagna, 2 in Italia, 2 in Polonia, 1 in Canada, 1 in Germania, 1 in Svezia, 1 in Belgio, 1 in Cecoslovacchia.

Ma cosa fece scattare la scintilla tra la baronessa e il mondo fatato dell’Arte? Chi fu artefice di cotanta riuscita simbiosi? Chi (mi si perdoni l’anglicismo), il suo talent scout?

La Lempicka nacque da Boris Gurwik-Gorska, di origini russe, e da Malvina Decler, polacca di origini francesi. Ebbe n fratello maggiore, Stanczyk, e una sorella minore, Adrienne (1899-1969), futuro e celebre architetto, insignita della Legion d’Onore nel 1939, nonché futura moglie dell’altrettanto celebre collega Pierre de Montaut.

Ebbene, si deve proprio ad Adrienne il merito di aver scoperto il talento innato della sorella maggiore, incoraggiandola nel 1920 a frequentare i corsi di pittura tenuti dal simbolista Maurice Denis presso l’Académie Ranson di Parigi, ma già abbandonati l’anno dopo, nel 1921, a favore delle lezioni franco-cubiste di André Lhote, artista che la Lempicka riconoscerà come suo unico maestro. E sempre ad Adrienne si deve l’influenza esercitata su Tamara nel persuaderla per il suo primo debutto pubblico al Salon d’Automne del 1922.

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Tuttavia, gli anni della formazione presso Denis e Lhote sono preceduti, già dal 1907 – vale a dire all’età di circa 9-10 anni? Probabile, considerando il 1898 come anno di nascita – da una timida e intima attività figurativa ad acquerello, documentata da un giovanile diario figurato di fogli da disegno con nature morte floreali: primo genere pittorico su cui l’artista testa la sua abilità nell’indagine di oggetti “messi in posa” alla maniera fiamminga (e di cui si dirà nei prossimi articoli, già in cantiere).

E poi, come dimenticare gli esordi nell’universo stellato della moda come illustratrice e indossatrice a partire dal 1921? Collabora con le celebri stiliste Camille Roger e Marie Crozet, per le quali disegna, rispettivamente, capelli e toque, con Rose Descat, Le Monnier, Lucien Lelong e Marcel Rochas. O ancora, le affinità con la “Settima arte” e gli scatti fotografici di André Ketèsz, Brassai, Francois Kollar e Laure Albin Guillot.

Dunque, una personalità poliedrica, capace di spaziare da un campo creativo all’altro con assoluta disinvoltura e padronanza di competenze stilistiche.

“Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”, per dirla alla Gioia Mori! Che è, poi, il leitmotiv dell’esposizione italiana suddivisa in sette sezioni (1. “Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”, 2. Madame le Baronesse, Modern Medievalist, 3. The Artist’s Daughter, 4. Sacre Visioni, 5. Dandy déco, 6. Scandalosa Tamara, 7. Le “Visioni amorose”), per mezzo delle quali al visitare è dato modo di esplorare le variopinte sfaccettature di quella che D’Annunzio soprannominò “la donna d’oro”: «Un affresco a tutto tondo di una sensibilità femminile piena di contraddizioni e aspirazioni, che con freddezza e volontà aveva trovato spazio nell’affollato mondo artistico di Montparnasse, e con sapienza, reticenze, bugie, oscuramenti e strategia aveva creato l’immagine affascinate e seduttiva di un’artista in cui frivolezza e leggerezza opportunamente celavano fatiche, studio, delusioni. La profondità, insomma» (Gioia Mori).

Giancarlo Marmori nel suo storico saggio del 1977 dedicato alla pittrice polacca scrive che nei dipinti di questa “le iperboli sulla bravura della pittrice vanno a mescolarsi all’esaltazione della sua bellezza ed eleganza impareggiabili”.

Ed è questo lo spirito che ha dato linfa e forma a questo progetto di Sul Parnaso, strutturato in dieci articoli in cui si racconterà del percorso iconografico pianificato e proposto nella mostra appena conclusasi in quel di Torino e ora diretta in quel di Verona. Otto articoli per raccontarvi e rimembrare quelle che non sono state semplici visite (ripetute regolarmente), bensì, suggestioni, emozioni, visioni cerebrali dall’inguaribile carica seduttiva e generate da un’artista “divina”.

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La figlia Kizette fornisce un quadro completo del carattere della madre nella biografia “Passion by Design: The Art and Times of Tamare de Lempicka”, redatta con Charles Phillips ed edita nel 1987:

«Aveva le sue leggi, ed erano quelle degli anni Venti. Le interessavano soltanto quelle persone che lei chiamava “le migliori”: gli aristocratici, i ricchi e l’élite intellettuale. Come qualunque persona di talento, anche mia madre era convinta di meritarsi tutto ciò che il mondo poteva offrire e questo le dava la libertà di frequentare solo chi poteva aiutarla o contribuire a sviluppare il suo ego. Viveva sulla Rive Gauche, dove dovevano vivere gli artisti e detestava tutto ciò che era borghese, mediocre e “carino”. Indossava solo abiti di lusso per accecare il pubblico e creare un’aura di mistero attorno al suo passato, alla su età, alla sua vita in Polonia e in Russia, e perfino sulla sua stessa famiglia. La ragazza polacca di buona famiglia, la sposa bambina, l’emigrante, la madre giovanissima furono inghiottite dai suoi dipinti come paraventi del camerino di un diva. Al loro posto comparve la bellezza moderna, affascinante, raffinata e persino decadente del celebre autoritratto che pochi anni dopo avrebbe dipinto per la copertina della rivista di moda Die Dame. “Io vivo ai margini della società, diceva Tamara. “Per quelli come me le regole comuni non valgono”. Fin dal principio, mia madre aveva puntato tutto sullo stile».

Vi diamo appuntamento al prossimo articolo sulla “Regina dell’Art Déco”.

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“QUEL CIAK CHE SA DI QUADRO”. EDWARD HOPPER E LA SETTIMA ARTE.

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“QUEL CIAK CHE SA DI QUADRO”. EDWARD HOPPER E LA SETTIMA ARTE

di Filippo Musumeci

Dei rapporti tra le opere di Edward Hopper e la “settima arte” – non necessariemente di matrice statunitense – s’indaga e discute, oggi più di ieri, in modo sistematico e, di volta in volta, con maggior respiro.
Per la critica italiana l’occasione ghiotta si concretizzò a monte della doppia e fortunata esposizione antologica hopperiana milanese (Palazzo Reale, 14 ottobre 2009 – 31 gennaio 2010) e romana (Fondazione Roma Museo, 16 febbraio – 13 giugno 2010).
Il ricordo della visita in quel di Milano è ancora lucidissimo e serbo soprattutto l’immagine delle ripetute ed estasiate soste dinanzi a Moning Sun (Sole del mattino, 1962; olio su tela. Columbus Museum of Art, Ohio) e Second Story Sunlight (Secondo piano al sole, 1960; olio su tela. Whitney Museum of American Art, New York).

 

Il catalogo della mostra Edward Hopper (a cura di Carter E. Foster. Skira editore), offrì preziosi spunti di riflessione per comprendere più dettagliatamente la produzione figurativa del pittore realista e il suo sguardo indagatore sulla società americana tra gli anni Dieci e Sessanta del Novecento.
Tra i saggi proposti, quello di Goffredo Fofi, “Hopper e il cinema”, più di altri contribuisce a ricostruire le influenze largamente esercitate dall’artista sul processo creativo di celebri cineasti: Howard Hawks (The Big sleep), Billy Wilder (The lost weekend), Win Wenders (Non bussare alla mia porta, Paris e Texas), Jim Jamusch (Broken flowers), Todd Hayner (Far from Heaven), Michelangelo Antonioni (Deserto rosso e Il grido), Dario Argento (Deep Red), Brian De Palma (Gli intoccabili), John Huston (Il mistero del falco), Herbert Ross (Pennies from heaven), Woody Allen (Manhattan), Terrence Malick (Days of Heaven) e, non ultimo, Alfred Hitchcock (Psycho, La finestra sul cortile, Vertigo e Intrigo internazionale).

4  Sono questi i maggiori e dichiarati debitori dell’arte di Hopper: coloro che hanno volutamente ridipingere in pellicola le inquadrature paesaggistiche e gli scorci urbani immortalati dal pittore sulla tela. Tuttavia l’elenco è più nutrito di quanto si possa credere e non sarebbe difficile, attraverso un lavoro di confronto e fermo immagine, riscontrare rimandi visivi alle opere di Hopper, reinterpretate in singoli fotogrammi sin dagli anni Quaranta del secolo scorso.
Ma questa non è la sede più specificatamente idonea per un’operazione così certosina. Qui, al più, si vuole attenzionare, senza pretesa alcuna, il palese e incontrovertibile rapporto tra due generi artistici, pittura e cinema, apparentemente diversi, ma profondamente affini.
Basti pensare ad alcune scene di Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) di Hitchcock, ove il “genio del brivido” scruta l’intimità (oggi diremmo la privacy) degli appartamenti dirimpettai del fotoreporter L.B. “Jeff” Jeffries servendosi proprio dell’occhio “esterno” di quest’ultimo e ricreando la stessa silente sensuale atmosfera contenuta negli innumerevoli interni metropolitani di Hopper, come Night Windows (1928), da cui il regista prende in prestito perfino il particolare del dorso inclinato dell’ignota donna in abito rosa del dipinto, ripetuto da Miss Torse, la procace ballerina della pellicola.

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Anche Woody Allen rese omaggio al pittore in una scena di Manhattan (1979) in cui Isaac Davis e Mary Wilke, seduti di spalle su di una panchina di fronte all’East River, fissano l’orizzonte riprendendo lo scorcio prospettico di Queensborough Bridge (1913).

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Ancora, Billy Wilder cita la serie dedicata da Hopper agli “interni di caffè”, Automat (1927), Clop Suey (1929) e il celeberrimo Nightawks (1942), in più scene di The Lost weekend (1945) in cui Ray Milland – nel ruolo che nel 1946 gli valse l’oscar come miglior attore protagonista – , ormai schiacciato dall’alcolismo, vive l’epilogo tragico dei tanti “giorni perduti” occupando in solitaria i freddi tavoli dei locali newyorkesi, nella disperata ricerca di un precario appiglio per il quale archiviare una carriera costellata di insucessi letterari.
Sono dipinti, questi, che attraggono il nostro sguardo perché costruiti con diagonali che esaltano l’immobilità autoreferenziale dei personaggi e la loro realtà materica oltre il moltiplicarsi delle fonti luminose e i densi spessori volumetrici della città.

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Si è accennato a Nightawks (Nottambuli, 1942) con il bar Phillies, forse il più celebre dell’intera produzione pittorica hopperiana, ma indubbiamente il più “ridipinto” in celluloide nell’arco di oltre un sessantennio da maestri della cinepresa succitati e per il quale lo stesso pittore disse: «Inconsciamente, forse, ho dipinto la solitudine di una grande città».

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In una scena di The maltese falcon (Il mistero del falco 1941) di John Huston, Humphrey Bogart attente due loschi personaggi all’interno di un locale di San Francisco del tutto simile a quello creato da Hopper. Ma, al di là di questi espliciti adattamenti scenografici di location, basterebbe soffermarsi sulla coppia seduta al bancone del locale per scorgerne attinenze estetiche tra l’uomo col borsalino e sigaretta in mano e l’archetipa immagine costruita da Humphrey Bogart nelle sue storiche performance.

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Goffredo Fofi scrive nel suo, già, citato saggio che l’opera di Hopper è: «contenuta, controllata, apparentemente distante, fredda, attenta alle solitudini e non alle folle di una società in movimento, alle sue agitazioni scomposte e spesso frenetiche».
Sempre Fofi scrive: «Nell’opera di Hopper c’è un doppio movimento dell’occhio non – selvaggio, anzi educatissimo: quello che va da fuori il quadro a dentro, e il suo contrario. C’è l’occhio che guarda dall’esterno dentro le stanze, i bar, gli uffici, come da cinematrografiche gru o da carrelli immobilizzati al punto giusto, il punto geometrico che solo l’intuito del regista sa fissare (si vede il regista, dicevano i grandi registi hollywoodiani, da dove piazza la macchina da presa), ed è qui che l’occhio della macchina diventa quello dello spettatore».
Quindi l’occhio dell’artista è simile a quello di un regista o di un fotografo, in quanto è questi a fornire massimo valore al rapporto tra personaggi e ambiente, decidendone pose e atteggiamenti, l’intensità più adatta delle sue luci e la disposizione dei vari volumi nella scena.
Pittura paesaggistica, ma soprattutto metropolitana e marcatamente americana, quella di Hopper. Eppure, le sue storie si muovono su sfondi scenografici privi di automobili e di folle vocianti, nonostante il crescente boom economico a stelle e strisce, in cui esterni e interni si compenetrano e si conseguono in un’unica indissolubile soluzione.
Gli scatti decisi dal pittore, infatti, sono dei “ciak” ove poche figure in pose composte, provvisorie e bloccate, guardano fuori dall’inquadratura verso ampie distese di praterie o ristretti scorci urbani, come fossero in pausa, in sosta o in perenne attesa. E quest’eterna attesa altro non è che “solitudine”: il male che non si debella, la condanna infertile del loro vissuto, quella che non porterà nulla di nuovo nelle loro esistenze e che lascerà tutto com’era e come dovrà essere.
Queste figure, a loro volte, sono osservate dallo spettatore con occhio attento e a “distanza”, oltre le vetrate, le finestre, le porte: figure che occupano strade e vie della metropoli; oppure gli interni di stanze d’albergo, caffè notturni, sale d’attesa, uffici,verande o semplicemente camere dei propri solitari appartamenti, delle proprie abitazioni, alla ricerca di un rifugio di pacifico silenzio.
Ed è la casa, intesa come dimora della “solitudine”, tra le scenografie più accuratamente indagate dal pennello di Hopper, come House by the Railboard (La casa sulla ferrovia, 1925: il primo dipinto dell’artista entrato nelle collezioni del Moma di New York), fonte d’ispirazione per Days of Heaven di Terrence Malick e Psycho di Hitchcock. In quest’ultimo, soprattutto, l’immagine della casa “vittoriana” come dimora della “solitudine” muta, piuttosto, in luogo di mistero e condanna ove si consuma il male abilmente architettato dallo psicopatico Norman Bates, soltanto sul finale svelato.

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Come ricorda la storica d’arte Orietta Rossi Pinelli, il quadro di Hopper ben di prestava al soggetto hitchcockiano per la collocazione solitaria e misteriosa; «unica presenza, ma neppure in primo piano; per quella possibilità di una vita all’interno che si presume solo da qualche persiana alzata; per quella sospensione del tempo che esclude ogni possibilità di azione».
Paradigma della pittura americana oggettivistica, House by the Railboard, in quanto segno della civiltà, ha caratteri antropomorfi, a cui sono contrapposti i binari della ferrovia, aventi la funzione di una linea d’orizzonte posta in primo piano. Secondo lo storico d’arte tedesco Ivo kranzfelder, «Hitchcock ha ripreso la tecnica di Hopper della visuale dal basso e dei piani inclinati nel film Psycho. […] Il dipinto ha l’effetto di un’istantanea presa da un treno in corsa, ma sono le stesse rotaie, sulle quali il treno dovrebbe muoversi, a scorrere nel quadro. Il movimento è congelato, esso non si attua nel dipinto, nella realtà dell’immagine».

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E dopo Hichcock è tutto un continuo remake di quella casa “vittoriana” dal carattere “gotico”, cioè sinistro, che sfocia fino a risultati più “commercialmente” intesi e di qualità opinabile, seppur di magnetica presa sugli amanti del genere horror e conseguenti facili guadagni al botteghino.

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Ma il mondo è bello perché vario e questa, per concludere, è fortunatamente un’altra storia!

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