Archivi tag: Lettura opere

CLAUDE MONET E LA GENESI DI UN NUOVO SOGGETTO DI PAESAGGIO: “LA PROMENADE” (LA PASSEGGIATA), “SAGGIO DI FIGURA ALL’ARIA APERTA VERSO DESTRA” (ESSAI DE FIGURE EN PLEIN AIR VERS LA DROITE) E “SAGGIO DI FIGURA ALL’ARIA APERTA VERSO SINISTRA” (ESSAI DE FIGURE EN PLEIN AIR VERS LA GAUCHE)

CLAUDE MONET E LA GENESI DI UN NUOVO SOGGETTO DI PAESAGGIO:

“LA PROMENADE” (LA PASSEGGIATA),

“SAGGIO DI FIGURA ALL’ARIA APERTA VERSO DESTRA”

(ESSAI DE FIGURE EN PLEIN AIR VERS LA DROITE)

E

“SAGGIO DI FIGURA ALL’ARIA APERTA VERSO SINISTRA”

(ESSAI DE FIGURE EN PLEIN AIR VERS LA GAUCHE)

26

di Filippo Musumeci

  • OPERA: “La Promenade” (La Passeggiata) o “Woman with a Parasol – Madame Monet and Her Son” (Donna con un parasole – Madame Monet e suo figlio)
  • Anno: 1875
  • Tecnica: olio su tela
  • Misure: 100 x 81 cm.
  • Luogo di ubicazione: Washington, National Gallery of Art. Collection of Mr. and Mrs. Paul Mellon

20

–        OPERA: “Essai de figure en plein air vers la droite”

                      (Saggio di figura all’aria aperta verso destra)                  

–        Anno: 1886

–        Tecnica: olio su tela

–        Misure: 131 x 88 cm.

–        Luogo di ubicazione: Parigi, Musée d’Orsay

 1 (11)

  • OPERA: “Essai de figure en plein air vers la gauche”

            (Saggio di figura all’aria aperta verso sinistra)

–        Anno: 1886

–        Tecnica: olio su tela

–        Misure: 131 x 88 cm.

–        Luogo di ubicazione: Parigi, Musée d’Orsay

1 (10)

Il 2 ottobre scorso è stata inaugurata alla GAM di Torino l’antologica “Monet. Dalle collezione del Musée d’Orsay”, curata da Guy Cogeval e Xavier Rey, rispettivamente direttore e curatore dell’istituzione parigina. Quarantuno opere esposte fino al 31 gennaio 2016 per ripercorrere le tappe principali della produzione artistica del grande maestro impressionista, con dei prestiti d’eccezione. Uno fra tutti: “Essai de figure en plein air vers la droite” (Saggio di figura all’aria aperta verso destra), il quale non faceva ritorno in Italia dalla Biennale di Venezia del 1932.

È tra i soggetti di paesaggio celeberrimi della nutrita e rivoluzionaria produzione pittorica di Claude Oscar Monet: quello tanto amato da pubblico e critica da essere entrato a pieno diritto nell’immaginario collettivo; lo stesso per cui basterebbe mostrarne una riproduzione a chicchessia per lasciarsi rispondere alacremente: “Ah, sì! Ma dai, questo lo conosco. È famoso!!”. E ciononostante senza conoscerne necessariamente il titolo dell’opera, né, tantomeno, il suo autore, seppur “gigante”.

1 (2)

La genesi di quella giovane donna con parasole in eleganti abiti borghesi per i campi di Argenteuil, così come l’adozione da parte del pittore dei soggetti di paesaggio, è tutta da attribuire ai preziosi consigli elargiti generosamente negli anni Cinquanta dell’Ottocento al quindicenne Oscar (così firmava i suoi primi lavori) agli inizi della sua carriera come caricaturista a Le Havre dal già affermato artista e precursore tra i più sinceri dell’Impressionismo Eugéne Boudin, che il futuro Monet riconoscerà come suo primo maestro:

«A quindici anni ero conosciuto in tutta Le Havre come caricaturista. La mia reputazione era così consolidata che mi sollecitavano da tutte le parti per avere un ritratto satirico. L’abbondanza delle commissioni e l’insufficienza dei sussidi che la generosità materna elargiva mi ispirarono una decisione audace, che ovviamente scandalizzò la mia famiglia: mi feci pagare i ritratti. […] In un mese la mia clientela raddoppiò. […]. Se avessi continuato, oggi sarei milionario.

1 (13)

1 (12)

La considerazione di cui godevo in tal modo crebbe, e ben presto divenni un personaggio in città. Nella vetrina dell’unico corniciaio che faceva i suoi affari a Le Havre le mie caricature erano insolentemente messe in mostra, cinque o sei affiancate, in cornici d’oro e con il vetro, come opere altamente artistiche; […]. Nella stessa vetrina, proprio sopra i miei lavori, vedevo spesso appese delle marine che consideravo, come la maggior parte degli abitanti di Le Havre, disgustose. In cuor mio ero offesissimo di dover subire quella vicinanza e non risparmiavo imprecazione contro quell’idiota che, credendosi un artista, aveva avuto l’impudenza di firmare, contro quel ‘mascalzone’ di Boudin. Ai miei occhi, abituati alle marine di Gudin, alle colorazioni arbitrarie, alle note false e agli estrosi arrangiamenti dei pittori alla moda, le piccole composizioni così sincere di Boudin, i suoi piccoli personaggi così veri, le sue barche così ben attrezzate, il suo cielo e le sue acque così esatti, disegnati e dipinti d’après nature, non avevano niente di artistico e la fedeltà mi sembrava più che sospetta. Per questo la sua pittura m’ispirava un’avversione spaventosa e, pur senza conoscere Boudin, l’avevo preso in forte antipatia. Spesso il corniciaio mi diceva: “Lei dovrebbe fare la conoscenza di Monsieur Boudin. Qualsiasi cosa si dica di lui, conosce il suo mestiere. Ha studiato a Parigi, nelle aule dell’École des Beaux-Arts. Potrebbe darle qualche buon consiglio”.

1 (5)

Resistevo, facevo il prezioso. Che cosa avrebbe potuto insegnarmi un uomo talmente ridicolo? Ma giunse il giorno, il giorno fatale, in cui il caso mi mise, mio malgrado, al cospetto di Boudin. Era in fondo al negozio, non mi accorsi della sua presenza, entrai. Il corniciaio coglie al volo l’occasione e mi presenta, senza consultarmi: “Ecco, Monsieur Boudin, questo è il giovane che ha tanto talento per la caricatura!” Boudin immediatamente mi raggiunse, e complimentandosi gentilmente con la sua voce dolce mi disse: “Li guardo sempre con piacere i suoi schizzi; sono divertenti, disinvolti, brillanti. Lei è dotato, lo si vede subito. Ma mi auguro che non vorrà fermarsi a questo. Come inizio è ottimo, ma non tarderà ad averne abbastanza di caricature. Studi, impari a vedere e a dipingere, disegni, faccia paesaggi. È già tutto così bello, il mare, il cielo, gli animali, la gente, gli alberi così come la natura li ha fatti, con tutto il loro carattere, il loro autentico modo di essere, nella luce, nell’aria, così come sono”.

Le esortazioni di Boudin però non fecero presa. L’uomo, tutto sommato, mi piaceva. Era risoluto, sincero, lo sentivo, ma non sopportavo la sua pittura, e quando mi proponeva di andare a disegnare con lui in aperta campagna trovavo sempre un pretesto per declinare l’invito educatamente. Venne l’estate, ero pressoché libero da impegni, e non avevo più valide ragione da opporre; mi arresi, stanco di quella guerra. E Boudin, con un’inesauribile bontà, intraprese la mia educazione. I miei occhi, alla fine, si aprirono: compresi veramente la natura e contemporaneamente imparai ad amarla».

L’ascendente esercitato da Boudin sulla formazione di Monet è lucidamente espresso in opere come La Plage de Trouville (La spiaggia di Trouville, 1864, olio su tela, 26 x 46 cm. Parigi, Musée d’Orsay), ove la capacità di catturare gli aspetti transitori della realtà naturale si traduce in squisite marine della costa normanna, animate da eleganti figure borghesi con parasole realizzate a macchie indefinite di colore e dagli atteggiamenti mutevoli al pari degli effetti di luce del paesaggio en plein air.

1 (7)

Nel 1862, dopo due anni di servizio militare in Algeria, Monet è rimpatriato per malattia e ritorna a La Havre nella residenza di famiglia. Qui, nell’autunno dello stesso anno l’artista farà la conoscenza di Johan Barthold Jongkind (Lattrop, 3 giugno 1819 – La Côte-Saint-André, 9 febbraio 1891), il maestro olandese la cui visione paesaggistica di matrice fiamminga eserciterà una profonda e riconosciuta influenza sui giovani artisti impressionisti, fra tutti lo stesso Monet, il quale, anni dopo, ricorderà quel felice incontro, lasciandoci un’altra preziosa testimonianza della sua formazione: «La sua pittura era troppo nuova e di una tendenza di gran lunga troppo artistica per essere apprezzata già allora, nel 1862, per quello che si meritava. Non esisteva persona più modesta. Era un uomo semplice, di buon cuore, che storpiava il francese in modo atroce, e molto timido. Quel giorno fu molto loquace. Chiese di vedere i miei schizzi, mi invitò a lavorare con lui. Da allora in poi fu il mio vero maestro ed è a lui che debbo l’educazione finale del mio occhio».

22

23

24

È il 1874 e il 15 maggio si è appena conclusa, con esiti disastrosi, la prima ufficiale mostra del giovane Gruppo di Batignolles (riunitosi il 17 gennaio dello stesso anno nella “Société Anonyme Coopérative d’Artistes Peintres, Sculpteurs, Graveurs: “Società Anonima Cooperativa di pittori, scultori, incisori e litografi”), inaugurata il 15 aprile al n. 35 di Boulevard des Capucines presso i locali gentilmente offerti dal fotografo Gaspard-Felìx Tournachon detto Nadar, amico degli artisti.

1 (6)

1 (4)

Monet ha 34 anni e in estate decide di trasferirsi con la famiglia ad Argenteuil, comune della Val-d’Oise nella regione dell’Île-de-France, in un alloggio preso in affitto di proprietà di Madame Aubry, ove risiederà fino al febbraio 1878. Qui sarà raggiunto nello stesso anno dagli amici   Édouard Manet e Pierre-Auguste Renoir per dar vita a quelle “pitture comuni” di marine en plein air, ossia quegli scambi reciproci di vedute dal punto di vista ravvicinato in cui le pennellate si fanno maggiormente frammentate nella giustapposizione dei colori complementari.

1 (9)

Del resto, il bacino di Argenteuil è ideale per sperimentare le tonalità argentate e le sfumature cangianti della superficie acquatica su cui riflettono le vele delle barche da diporto. L’anno seguente, cioè il 1875, Monet realizza opere dal respiro poeticamente intimo per le quali fa posare, come un tempo, la moglie Camille-Léonie Doncieux accanto al primogenito Jean, nato l’8 agosto 1867. Conosciuta a Parigi nel 1865, la donna sarà la prima modella del pittore, dalla quale avrà anche il secondogenito Michel, nato il 17 marzo del 1878. I due si uniranno in matrimonio con rito civile il 28 luglio 1870 a Parigi e, per soddisfare il desiderio di lei, con rito religioso in extremis soltanto il 31 agosto 1879, appena sei giorni prima della morte della moglie, avvenuta il 5 settembre a Vetheuil a causa di male incurabile. Aveva solo trentadue anni.

1 (3)

“La Promenade” (La passeggiata) prese forma proprio nel 1875 durante una delle piacevoli passeggiate primaverili del pittore con la famiglia lungo i prati nei pressi di Argenteuil e fu tra i soggetti più originali presentati alla seconda mostra parigina degli impressionisti, allestita alla Galleria di Paul Durant-Ruel al n. 11 di rue Le Peletier presso Boulevard Haussmann.

33

Camille e Jean, in abiti borghesi alla moda, volgono lo sguardo verso l’osservatore e sono fissati sulla tela mediante un taglio prospettico sotto in su, decisamente insolito nelle opere dell’artista, per il quale ne risulta accentuato lo sviluppo longilineo dei loro profili che si stagliano sullo sfondo azzurro dello spazio aperto e percorso da nubi biancastre rese con rapide e larghe pennellate dall’impasto denso. Monet osserva la scena come disteso sul prato o, magari, posto su un pianoro arretrato rispetto a quello su cui agiscono la moglie e il figlio: una folata di vento smuove e rimodella in un moto spiraliforme la lunga gonna a balze in organza e la velina del cappello alla canottiera della donna. Spiegato per tutta la sua ampiezza e simile a una cupola ombrelliforme, il parasole dalle tinte verdastri stretto tra le mani di Camille funge da filtro per le sfumature azzurro-lilla-ocra distribuite a larghe pennellate lungo l’abito della stessa. L’abolizione del tradizionale acromatico nero è dimostrata dalle ombre portate dal corpo di Camille e dal parasole sulla distesa indefinita del prato, e ottenute, piuttosto, giocando sulle tonalità scure dei verdi, cui fanno contrasto le macchie del giallo primario. Completa la scena, il busto di Jean in camicia azzurra dai riflessi solari lungo le spalle, cravattino e cappello di paglia, posto in secondo piano: anch’egli fissa il padre con tutta la disarmante innocenza impressa sulle gote di un bambino di otto anni. La sua statica postura scorciata contrasta con quella più spiccatamente dinamica della madre: stasi e ritmo rappresentano i due poli di questa tranche de vie moderne, ove l’urgenza di cogliere la transitorietà della vita e i suoi infiniti fuggevoli aspetti si traduce, poi, nell’eternità dell’attimo. Come ha giustamente notato Virginia Spate, quello di Monet vuole essere un ritratto familiare dal tono privato, contrariamente alle creazioni in cui ero solito indagare attitudini e inclinazioni della classe borghese parigina della quale egli stesso era parte integrante e attento interprete. Il pittore, dunque, non indugia sui particolare fisionomici delle due figure a lui care, bensì ne rende solo l’idea per mezzo della giustapposizione dei complementari e del loro contrasto simultaneo, nonché dell’assenza del disegno definito, affinché l’indeterminatezza dei tratti somatici sia in perfetta simbiosi con l’inarrestabile divenire della natura.

Il soggetto di paesaggio della donna con parasole elaborato ne “La Promenade” venne replicato undici anni più tardi, nel 1886, in due studi speculari di figura all’aria aperta costituenti un celebre “dittico-remake” conservato all’Orsay e noto come “Saggio di figura all’aria aperta verso destra” (Essai de figure en plein air vers la droite) e “Saggio di figura all’aria aperta verso sinistra” (Essai de figure en plein air vers la gauche), in cui Monet ripropone la medesima scena en plein air dal taglio prospettico sotto in su e lo sviluppo longilineo dei corpi. Camille Monet è scomparsa sette anni prima, ma il ricordo della donna amata rivive ancora nella persona della modella Suzanne Hoschedé, nata nell’aprile 1868, la preferita dal pittore delle tre figlie del mecenate Ernest Hoschedé e della norvegese Alice Raingo-Hoschedé, nuova compagna del pittore dal 1881 e seconda moglie di questi nel luglio 1892, a seguito della morte di Ernst nel marzo dell’anno precedente.

1 (14)

Il 29 aprile 1883 Monet compie l’ennesimo trasloco in quella che sarà, tuttavia, la sua ultima dimora, Giverny: una località, oggi, con poco più di 500 abitanti (ma appena 279 nel 1883), sita nel dipartimento dell’Eure nella regione dell’Alta Normandia, nella confluenza del fiume Epte con la Senna. Sedotto dal giardino della nuova residenza presa in affitto in località Pressoir, il piccolo villaggio diverrà il rifugio dell’artista tanto cercato e finalmente scovato. Addossato alle colline della riva destra della Senna, a cinque chilometri da Vernon, da cui lo separa il fiume. Qui sarà raggiunto l’indomani, il 30 aprile 1883, dalla nuova compagna Alice Hoschedé e figli; qui compirà gli studi della fase matura; qui la “Grande decorazione” del Ciclo delle Ninfee (1899-1925); e sempre qui si spegnerà alle ore 13 di domenica 5 dicembre 1926 all’età di ottantasei anni. Poiché la Senna dista circa un chilometro dalla nuova residenza, Monet decide di comperare una punta della riva, bordata da una scarpata contro le inondazioni alla foce dell’Epte, al fine di farvi costruire un capannone come deposito delle sue imbarcazioni leggere, ormeggiando, invece, le più pesanti, come la barca-atelier, e dando vita, in tal modo, al primo nucleo di quella che verrà chiamata “isola delle Ortiche”. E qui si compì l’accaduto!

Fu Jean-Pierre Hoschedé, fratello di Suzanne, a ricordare nella biografia del patrigno Monet la causa alla base dell’elaborazione del soggetto nel 1886. Di ritorno da un giro di lavoro a bordo di una sua imbarcazione, l’artista scorse Suzanne, allora diciottenne, scalare una collina dell’Île aux Orties in un elegante e leggero abito borghese, la cui sagoma si stagliava sul blu del cielo: «Ma è come Camille ad Argenteuil! Ebbene! Domani torneremo e tu poserai là», esclamò il pittore.

Era dalla fine degli anni Settanta che Monet non affrontava il tema della figura umana che tanto avevano caratterizzato la sua produzione giovanile.

Suzanne come Camille!

Monet non andò poi tanto lontano dalla verità! Le donne furono accomunate dalla triste sorte di spegnersi prematuramente: la giovane Hoschedé sposerà il pittore americano Théodore Butler, ma già deceduta nel 1899 all’età di trentun’anni.

1 (15)

Fu Germaine Hoschedé ad intercedere presso la sorella Suzanne, persuadendola a posare per le estenuanti sedute, protrattesi per ore sotto il sole, a cui la sottomise il maestro fino allo svenimento.

Il critico Mrs. Lilla Cabot-Perry sostiene che Monet avesse denominato le due tele, rispettivamente, Ascensione (Suzanne verso destra) e Assunzione (Suzanne verso sinistra, in cui le forme più mature della modella sembrerebbero quelle di una vergine moderna) e che, tuttavia insoddisfatto della resa pittorica sperata e avvinto da un profondo sconforto, avesse colpito con lo zoccolo uno dei due dipinti, producendo una lacerazione nella parte centrale, seppur nascosta ben presto da una riuscita riparazione. Osservando attentamente i due dipinti si comprende la volontà di Monet di dar forma a una figura anonima priva di particolari riconoscibili e identificabili, spersonalizzando, in tal modo, la modella, anziché restituirne fedelmente i tratti somatici, qui appena abbozzati. Non può definirsi un “ritratto personale” nel senso classico del termine, bensì una “presenza impersonale”: una visione effimera di una sagoma fuggevole all’aria aperta, in linea con i dettami della poetica impressionista.

1 (11)

1 (10)

L’atmosfera che ne deriva è quella di una giornata primaverile animata da leggeri soffi di vento che accarezzano il manto erboso in fiore della collina dell’Île aux Orties e l’aggraziata figura di Suzanne, il cui sviluppo longilineo per mezzo dell’inquadratura sotto in su amplifica la levità del suo profilo, irto contro l’azzurro del cielo alle sue spalle. Come ne “La Promenade” (La passeggiata), il contrasto simultaneo dei colori complementari e l’abolizione del disegno permettono al pittore di distribuire la gamma cromatica mediante pennellate virgolettate al fine di rendere la sensazione di leggerezza e la luminosità diffusa che pervade la scena. Lo scorcio della figura nelle due varianti è modellato dal lungo abito bianco in tessuto leggero, dal foulard azzurro dai riflessi verdastri e dal cappello alla canottiera con nastrino e velina, a cui si accompagnano alcuni accessori come i guanti in stoffa, il fiore rosso all’altezza del ventre e il parasole, questo del tutto simile a quello di Madame Monet.

Nella cornice di una calda luce dorata che avvolge e assorbe ogni cosa e resa maggiormente vibrante dal moto ventoso che agita i volumi plastici e dissolse quelli spaziali, i contorni indefiniti e il sapiente bilanciamento dei colori permettono una totale integrazione tra figura e paesaggio: le nuvole mosse dal vento mutano, inarrestabili, l’immateriale fondale azzurrognolo-madreperlaceo su cui è inscritto il profilo di Suzanne; il foulard, rapito nel suo volo leggiadro senza peso, segue la rotta dei fili d’erba in fiore lanciati nella corale danza; il parasole, con il suo divertito gioco di luci e ombre, proietta tenui riflessi verdastri lungo tutta la figura, l’abito e il foulard.

E come ne “La Promenade”, quel parasole aperto sul capo di Suzanne non svolge la sola funzione protettiva per cui è stato brevettato dalle industrie ottocentesche, bensì ne ricopre un’altra, di maggior prestigio: è l’emblema della modernità, l’attributo identitario della moda del secolo, un’onorificenza da esibire in società e, in questo caso, una guida percettiva. Senza la sua presenza nei dipinti fin qui indagati le figure apparirebbero detronizzate, prive di un accessorio dietro il quale le donne borghesi hanno costruito quell’alone di mistero e di riservatezza dall’indubbio fascino, cantato da poeti e intellettuali come Edmond Duranty, Théodore Duret, Marcel Proust e Émile Zola, nonché da colleghi impressionisti come Manet e Renoir.

Il primo fu autore di Les Hirondelles” (“Le Rondini”) del 1874 ove il sapore dell’attimo fuggente si sposa armoniosamente con l’eleganza delle due donne impegnate in due attività opposte: la donna in nero,  supina sul prato, è intenta nella piacevole lettura di un romanzo del quale tiene delicatamente ferme le pagine con la mano destra coperta dal guanto nero in tinta con l’abito; la donna in abito bianco, invece, siede sul prato rapita dai suoi pensieri volgendo le spalle alla compagna di passeggio (la madre? un’amica?). Un parasole appena dimesso sul manto erboso mostra la sua copertura interna in porpora ed è trattenuto per la sua asta da entrambe le mani della donna, protette anch’esse da guanti di tessuto giallo, in accordo con la bordatura stessa dell’accessorio di costume.

27

Renoir, invece, realizzò nello stesso 1874 un delizioso olio su tela,custodito oggi a Boston, dal titolo “Femme à l’ombrelle et endant dans la campagne” (“Donna con parasole e bambino nel prato”), il quale rimanda direttamente al tema, allo stile e all’impianto strutturale de “La Promenade”.

L’opera risale alle sedute comuni en plein air che i tre pittori realizzarono durante il soggiorno ispirato ad Argenteuil e i cui aneddoti di quello storico sodalizio artistico saranno narrati più tardi da Monet in persona a Marc Elder.

25

Appena un anno prima, nel 1873, nella prefazione al catalogo della raccolta Durand-Ruel, il poeta Armand Silvestre affermò i valori destinati a sancire la fortuna del nuovo stile:

«La prima impressione che dà questa pittura è una carezza per l’occhio: è una pittura soprattutto armoniosa. […] Ciò che promette di affrettare il successo di questi artisti nuovi è il timbro singolarmente ridente della loro pittura. Bagnata da una luce bionda, essa è tutta gioia, chiarezza, festa primaverile…».

Nei due Studi di figura all’aria aperta di Monet l’inclinazione del suo manico traccia una diagonale che guida il nostro sguardo verso il volto rarefatto di Suzanne, punto focale della composizione, segnando l’incedere del passo sul paesaggio circostante. Anche in questo caso, l’abolizione del neutro nero permette al pittore di proiettare le ombre portate ricorrendo a una scala cromatica di tinte terrose verde oliva-bruno-ora dall’impasto denso, correlate da linguette arancio-violetto date a tratti rapidi.

Le sperimentazioni messe a punto in questi due “studi di figura” si traducono in una sequenza temporale governata dalla mobilità degli effetti luministici che Monet porterà alle estreme conseguenze nelle riproduzioni seriali degli anni Novanta e inizi del Novecento. I due dipinti furono esposti per la prima volta al pubblico alla Galleria Paul Durand-Ruel nel 1891 con il titolo, voluto dallo stesso Monet, di “Essai de figure en plein air” (Saggi di figura all’aperto), ma non vennero mai messi in vendita per volere dello stesso pittore e, si crede, di Alice Hoschedé, la quale, dopo la morte prematura di Suzanne nel 1899, vedrà in essi l’indelebile e sincero ritratto della figlia. Quanto detto è documentato da una foto del primo atelier nella residenza di Giverny scattata nel 1905-06, in cui il “dittico” compare ricomposto sulla parete dietro due vasi di fiori bianchi, forse i clematis del giardino curato personalmente dall’artista.

21

A seguito della morte di Monet nel dicembre 1926, le due tele “speculari” passarono in eredità al secondogenito Michel, il quale, a sua volta, le donerà l’anno successivo al Musée du Louvre ed esposte nelle Galleria della Pallacorda, prima di giungere nel 1986 alla sede definitiva dell’Orsay e divenire, quindi, due icone di fine Ottocento della pittura moderna di paesaggio.

In una lettera del 13 agosto 1887 all’amico Théodore Duret, Monet confessa:

«Lavoro come non mai, e a delle prove nuove, delle figure en plein air come le intendo, fatte come paesaggi. È un vecchio sogno che mi tormenta di continuo e che vorrei una volta realizzare; ma è cosa difficile!»

© RIPRODUZIONE RISERVATA

GIOVANNI IUDICE. IL LIRICO RESPIRO DELL’INTIMITÁ

GIOVANNI IUDICE. IL LIRICO RESPIRO DELL’INTIMITÁ

 di Filippo Musumeci

-Autore: Giovanni Iudice

-Opera: Seduta di fronte 

-Anno: 2004

-Tecnica: olio su tela

-Dimensioni: 60 x 30 cm.

-Ubicazione: Liguria, collezione privata

CARLA 2

«Dipingo per il pubblico, non per assecondarne i gusti. Che una mia opera piaccia o meno, importa poco. Ho però, in quanto artista, la responsabilità di mostrare a chi frequenta il mio lavoro il mondo per come lo vedo io». (Giovanni Iudice)

E io quel mondo l’ho visto, indagato, compreso. Ne ho assaporato ogni salmastra sfumatura, la ciclica matrice della sua natura; dei soggetti la forza evocativa, dei contenuti l’etica partitura. Dai disegni agli oli su tela, passando dalle dimesse scene di interni agli scorci dei paesaggi urbani, dalle intime sensualità dei nudi alle suggestive marine mediterranee, dai bagnanti del litorale gelese agli immigrati clandestini approdati sull’isola con tutto il carico del loro triste dramma. Eleggerne una piuttosto che un’altra, in un ventennio e oltre di attività figurativa, è una facoltà di cui non intendo avvalermi pur di non arrecar torto a nessuna delle opere partorite dal pennello del pittore siciliano.

Tuttavia, Iudice è inconsapevolmente artefice di un tormento che non mi dà pace.

Egli afferma che: «le opere sono come finestre, squarci aperti sul reale. Sono anzi delle realtà nuove, delle creature autonome paragonabili alle nostre fantasie».

5  4

2  3

E dalla sua fantasia nacque un’incantevole creatura che divorò da principio il mio sguardo e su di sé riversò devote attenzioni. Musa e modella di altri squisiti lavori, la figura è trasfigurata dallo stesso autore in una forma chiusa di struttura plastica, abilmente levigata e resa angelica da macchie di luce ambrate entro una cubatura spaziale maiolicata di cui avverto al tatto la sua lucida freddezza.
Il suo ripiegamento intimistico mi riporta ai nudi mitologici di Hippolyte Flandrin, allo spirito romantico in cui l’io si estrinseca e rivela senza indugi la propria identità.

6 7
Ma il languore melanconico di metà Ottocento è riletto da Iudice con nuova linfa mediante la frontalità proposta del soggetto, il quale si mostra agli sguardi altrui per fuggire l’oblio, componendo ciò che si attende: il lirico respiro dell’intimità.
A ciascuno la sua “Monnalisa!” Poiché di vivida ossessione si tratta e d’ignota vocazione si narra.

1

Per ignote vie un’opera, a dispetto d’una sua simile, s’impone e si annida nell’umano ventre; lo colonizza e certa ne traccia l’umore come in un campo il suo fertile seme.

E del suo soggetto s’ignara la scintilla primordiale che ne diede forma; l’idea ancestrale che ne segnò l’ora.

Nulla so di Lei: il nome, la mente, il cuore; la voce, l’epidermide, l’odore.

Eppur di Lei ne percepisco ogni leggiadro sibilo, ogni sospiro effimero.

Lei non sa d’esser spiata furtiva e che al dì memore resto ancora della sua lunga scia.

Lei non sa della brama ardente che commossa si muove in petto; dell’ermetico sigillo che serafico non confesso.

Lei non sa d’essere amata per quel roseo viso, che è il mio diletto, e per il quale silente compongo ogni lirico pensiero.

Iudice ebbe il dono della grafia; forgiò le tue membra dando loro vita.

Iudice definì il tuo corpo senza inganno; lo modellò con tocco velato fissando ogni più fedele dettaglio.

Entro un virginale ventre la tua posa, che di gaudiosa essenza n’è l’eterna dimora; entro geometrica ellisse sei sospesa, pura e nobile come una perla.

Non ti neghi, non ti nascondi, invero ti offri e t’imponi.

E l’umido ambiente ove sei ospitata nell’intimo maniero in mia visione si plasma, e ivi regni qual amata sovrana.

Iudice ponderò tinte cangianti per rilevarti in volume; ti accarezzò col tepore del suo particolare lume.

Iudice fissò l’estro del suo genio nei tuoi occhi; ne accese le oscure iridi come abissi profondi.

Prigioniero di cotanta alchimia, dunque, sono affetto e vergogna alcuna non desto al decantato tuo cospetto.

Fosti mia per labili attimi, fui tuo per cadenzati palpiti.

Mi lasciasti nudo d’ogni speme, ti lasciai contrito come atto di fede.

Non fui vittima di sterile ira, non fosti rea d’innocente pena.

Iudice già previde della sua arte l’effetto; la sostanza manifesta d’ogni vibrante zelo.

L’intimità che si apre al suo lirico respiro è, in cuor mio, “Seduta di fronte”: ne avverto come in quell’acerbo tempo il carezzevole battito sotto l’incarnata cromia e per una volta soltanto ancora desisto e torna ad esser mia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

“L’ASSUNTA” SVELATA.

L’ASSUNTA “SVELATA”

di Filippo Musumeci

PALADINI 1

Con buona pace di par condicio, verrebbe da dire «per un’Assunta “negata” un’Assunta “svelata”!!»
Quando il fato ci mette lo zampino e ti è amico nel concederti l’onore di “risostare” in estasi dinanzi una pala d’altare datata 1610, tanto amata (da pochi) quanto snobbata (da troppi).
Sottili innesti messi a punto da quell’ “invisibile carezza”…, per dirla alla Battiato, in quel di Modica tra i primi, e già incisivi, raggi di sole di un martedì post-ferragosto.
Sonnecchia ancora, nell’arioso mattino, l’abitato che un tempo fu detto “la Venezia del Sud”, prima di quella tragica notte del 26 settembre 1902, quando venti minuti furono sufficienti per scatenare la furia devastante dei torrenti Pozzo dei Pruni e Jannimauro, trascinando via con sé sogni, paure e speranze di 112 vittime.
Triste pagina locale, ahimè, i cui segni restano incisi, a perenne memoria, sulle lastre marmoree commemorative del centro storico, confondendosi con quelle più convenzionalmente celebrative di questa ridente cittadina di vallata, accarezzata dal vento e agghindata di carrubi festosi lungo tutta la sterminata contea, che, più o meno da un quindicennio, vive un esponenziale boom turistico dettato, indubbiamente, dal suo scenografico abito tardobarocco, insignito dell’onorificenza UNESCO nel 2002 (come le altre otto città del distretto insulare sud-est del Val di Noto: Noto, Siracusa, Palazzolo Acreide, Catania, Militello in Val di Catania, Caltagirone, Ragusa e Scicli). Ma masticando direttamente questi luoghi da decenni or sono, si comprende più chiaramente come l’approdo nazionale e (soprattutto) estero sia ampiamente stimolato non tanto (o almeno non solo), dall’unicità del cioccolato modicano o dai “museo-casa” di due erudite personalità che ivi ebbero i natali, Tommaso Campailla e Salvatore Quasimodo, quanto, piuttosto, dall’eco di quel “Montalbano sono!!”.
Per chi non lo sapesse ancora, sono questi gli scorci scelti dal regista Alberto Sironi fin dal 1999 come ideale location per alcune scene della fortunatissima serie TV “Il Commissario Montalbano”, liberamente tratta dalla penna dello scrittore agrigentino Andrea Camilleri. Non solo Modica, s’intenda!
Nel progetto “cine-letterario” è coinvolto l’intero Val di Noto, toccando anche borghi marittimi ragusani come Santa Croce Camerina o paesini dell’entroterra di provincia come Ispica: se il primo deve la sua “recente” fama per la contrada “Punta Secca”, ove è ubicata la terrazza con affaccio sul mare del “Commissario più amato d’Italia”, il secondo “dovrebbe” (ma così non è!!) la sua “storica” fama ai deliziosi gioielli, anch’essi tardobarocchi, mostrati orgogliosamente al timido visitatore, ma ignorati da questi perché affetto dalla sindrome del “mordi e fuggi”.
Caro visitatore,
sapessi quanto talmente poco basterebbe per ricrederti!
Se ti trovi a bazzicare dalle parti di Ispica, fai volentieri un salto alla Basilica di Santa Maria Maggiore, originalissima creazione degli architetti netini Rosario Gagliardi e Vincenzo Sinatra, già autori della Cattedrale di San Nicolò a Noto (Non so se mi spiego!!). Ammirane l’armonia planimetrica d’insieme; poi varca il portale d’ingresso, alza gli occhi e….godi!! Il ciclo di affreschi di Olivio Sozzi e Vito D’Anna faranno il resto, credimi!
Come dici? Non hai mai sentito parlare di questo monumento! Ma scusa, dove starebbe la novità? Credi che al Bel Paese manchino meraviglie nascoste come questa, in attesa solo di un’agognata “riscoperta”?
Eppure, sai, restando in tema di “settima arte”, e se apprezzi il vecchio cinema italiano, dovresti ricordare “Divorzio all’italiana” del 1961 per la regia di Pietro Germi, con protagonisti Marcello Mastroianni e una giovanissima Stefania Sandrelli. Ricordi il nome del paese ove si svolge la trama?
Esatto! Agramonte, bravo!
Ebbene, sappi che quell’Agramonte lì altro non è che la stessa Ispica.
Dunque, non si tratterebbe affatto di un misconosciuto centro urbano di vocazione agricola, bensì di una location che ha varcato i confini del globo per via dei prestigiosi premi (Oscar incluso) incassati dal lungometraggio menzionato.
Tuttavia, “non tutte le ciambelle vengono col buco” e qualche frammento del puzzle mnemonico collettivo si perde nei meandri inesplicati della storia.
Portiamo pazienza”, direbbe un’amica!!
Chiusa parentesi, torniamo al nocciolo della questione: il viaggio!
Che, per quel mal di “prestiti linguistici” di cui siamo cronici, siamo soliti chiamare alla francese “tour”. Suvvia, suona meglio e fa più fichi!
E se il viaggio (o tour, fate voi!!) più vero avviene, in fondo, dentro ognuno di noi, quello a cui si dà vita verso una meta sconosciuta o familiare è pur sempre una nuova e salutare “riscoperta”.
“C’è chi viaggia per perdersi, c’è chi viaggia per trovarsi”, recitava Gesualdo Bufalino, figlio illustre di Comiso e profondo interprete della calda luce giallastra riflessa dai sassi porosi di questo lembo di terra baciato dalla risacca del Mediterraneo.
Dicevamo il viaggio, quello sentito perché intimamente cerebrale; voluto perché urgente di nuova ninfa vitale; vissuto perché irreversibilmente sentimentale.
E il viaggio compiuto in sé non è altro che l’atto dell’attesa: ne pianifichi il percorso in sessioni per mezzo di comprovate motivazioni e ne aspetti ansiosamente il suo compimento. Metti in conto possibili variazioni all’itinerario tracciato per impreviste evenienze, seppur restano punti fermi, dunque di “non ritorno”. La tappa conclusiva, che riassume in sé la causa del moto psicofisico, è conditio sine qua non! Essa non può subire alcuna errata corrige. Pegno, la vanificazione in toto della causa primordiale da cui la forma dell’impulso ebbe origine.
E la meta ultima fu fissata in quella visione ciclicamente assorbita, consumata, rigenerata. Varcando la soglia dell’imponente prospetto di San Giorgio si vira diritto a destra e si atterra al secondo ignoto altare, quasi a voler emarginare in azzardo lo sviluppo longitudinale della navata centrale conclusa in quella fuga che è il sontuoso Polittico di quell’altro pittore manierista, “oscurato” come da prassi, Bernardino Niger.
È come se da “lei” non mi fossi giammai allontanato, non avessi distolto lo sguardo dal suo formato, non avessi smesso di scrutarne il più timido dettaglio.
Per te, solo per te, citando Quasimodo:
“Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura,
per restare solo a ricordarti”
(“Ora che sale il giorno” in Ed è subito sera, 1942).
E di “lei” ricordo ogni solitario incontro, là, tra il passo svelto e la frecciatina perplessa del milite passante, per istinto, curioso del mio sguardo: lo segue, si volta, la osserva furtivo e furtivo lascia sede. Nuovamente soli, io e “lei”, privi di presenza altrui, odo appena il soffio irregolare del mio respiro, perso nel riverbero sacrale dello spazio cruciforme.
Si “svela” L’Assunta di quel Filippo Paladini: magistrale artista tardo-manierista fiorentino, fieramente stimato in terra maltese per meriti acquisiti e talento mostrato, nel soggiorno presiculo, quanto, piuttosto snobbato dalla critica elitaria nostrana per superficialità scientifica, ma su cui si è indagato, comunque, e di cui si continuerà a narrare.
-Oltre un cinquantennio fa, gli storici Venturi e Bernini – quest’ultimo ricordato per aver curato nel 1964 la prima (e anche ultima) antologica palermitana del Paladini presso Palazzo dei Normanni – notavano come questa Assunzione mariana ripetesse il modello già proposto dal pittore stesso ne “L’Immacolata con S. Francesco d’Assisi che intercede per le anime purganti” del 1606 per l’omonima chiesa di Mazzarino (AG): operazione iconografica nuovamente compiuta nel 1612 -13 nelle due pale con l’ “Assunzione della Vergine”, rispettivamente per la Cattedrale di Piazza Armerina e di Enna.
La ripresa di un modello precedente è fra le peculiarità più consuete del pittore, ma ogni volta con un rinnovato valore stilistico. La materia cromatica acquista un vigore maggiormente solido e compatto, «su cui la luce scivola, tornendo, sbalzando i piani, incavando profonde nicchie d’ombra nelle stoffe lapidee» (Bernini). Pontormo e Andrea del Sarto restano i due modelli ideali a cui attingere per la definizione della profondità celeste, ove lo squarcio delle dense nuvole crea la mandorla, di arcaica tradizione, entro cui si inscrive l’elegante moto centrifugo della Vergine.

PALADINI 3
Non si “nega” languidamente perché costretta da un oblio scellerato come quella del Monrealese; si offre nobilmente perché l’ingresso al sito non è (ancora) negato da alcun veto. Il suo volto persevera a mostrare L’Assunta, in quell’ascesa corporale di una donna che fu moglie e fu madre al par di altre. Ciò che la rende, poi, tanto lontana, tanto vicina all’elemosina esistenziale.
Ma il volto del suo creatore no! Si sconosce il suo aspetto e i pochi documenti in possesso restano poca cosa per dare una plausibile definizione alle fattezze di quel “Philippus Paladinus Florentinus”, poiché l’uomo sorridente riconoscibile all’estrema destra di chi guarda, in abiti d’epoca e non partecipe all’azione, lo si è voluto riconoscere come il ritratto dell’ignoto committente, anziché come quello (altrettanto ignoto) dell’artista. Di lui resta solo, come in altre creazioni, la vistosa firma: PH. PALADIN. PINGEBAT – MDCX., apposta sul sarcofago, al di sotto della stemma nobiliare del donatore.

PALADINI 7
Peccato!! Sarebbe stata un’altra analogia con il Monrealese, secondo alcuni non totalmente estraneo alla “maniera” paladiniana: stesso soggetto, stessa ambientazione, stesso orchestrazione della scena, stesso particolare di quel volto indagatore fisso sullo spettatore e stesso raggio d’azione. Ibla per il Monrealese, Modica per il Paladini: due indiscussi “Maestri” in suolo ragusano che a distanza di un trentennio l’un dall’altro hanno lasciato la testimonianza alta del loro genio.
Ibla e Modica: due città in costante competizione di primato, ma che non potrebbero andare più fiere di esser eterna dimora di cotanta vicinanza di “saperi”.
Ho dilatato i tempi di permanenza dinanzi alla pala, stavolta più delle altre precedenti e foss’anche per sdebitarmi con i cari ex liceali dello Juvarra che in maggio scorso (e su mio assillante sollecito) ho guidato virtualmente al suo cospetto per il solo scopo di omaggiarla e renderla pubblica a occhi che non fossero soltanto i miei. L’effetto fu quello sperato e gli apprezzamenti ,a fine visita, non mancarono copiosi via etere.
E al suo cospetto ho fatto ritorno per rinnovarle il mio incondizionato trasporto. Trasporto per lo slancio longilineo degli increduli apostoli affollanti la scena, per i calibratissimi trapassi chiaroscurali che ne rinvigoriscono i volumi e la varietà di atteggiamenti, per le panneggiate trasparenze rosate e bluastre aderenti all’epidermide, per il plasticismo corale intriso di solennità devozionale, per la duplice sorgente di luce, umana e divina, a cui si deve l’aurea mistica emanata dal mistero dogmatico, per il rigore geometrico dello schema strutturale, per la cornice ovoidale formata dal coro angelico in giubilo, per quel marmoreo sarcofago vuoto, se non di floreale presenza, per quel trionfo di squisita grazia, infine, che accompagna il più singolare tratto.

PALADINI11
Una lezione, quella del Paladini, come già ripetuto in altre occasioni, memore della lezione realistica caravaggesca, ma depurata dagli accenti più drammaticamente popolari a favore di un “realismo umanizzato”.
Resta L’Assunta paladiniana, oggi come ieri, “svelata”: un’eccellenza in terra modicana, per spessore stilistico e forza espressiva.

PALADINI 5
Incamminarsi verso la via d’uscita non è mai banale e al lento congedo fa repentinamente seguito la promessa di un ennesimo incontro su benevolenza del fato amico e di ciò che verrà.
La città si desta e solare si riveste; l’ordinario sterile brusio del contemporaneo si riattiva, flagellando qualsivoglia stasi sensoriale. Si desta, lo so! E io mi sospendo! A capo chino e muto, paro la fiumana immateriale che in petto m’assale nel lieve tepore che crescente in corpo avverto. Arrestarsi solo un instante, uno soltanto! Un ultimo e più sintetico scatto ottico a quel San Giorgio che maestoso di erge in vetta al colle. Un ultimo, ho detto, entro il quale vi è già il “tutto”.
Il timore di apparir patetico non sfiora neppure il più labile dei pensieri e nel silenzio del mio io, di tergo, mi confondo e amalgamo nella stereotipata attualità di cui mi sento figlio illegittimo, come tanti, dando voce agli innumerevoli interrogativi di cui non so disfarmi per quella consapevole insicurezza che, indomabile, mi rode dentro… “Ed è subito sera!”
Ma lei resterà lì! E ciò basta a consolarmi! Lì, ove il suo creatore la immaginò, in quel tempio sfarzoso nato dalla fantasia del Gagliardi, nella secolare attesa di un nuovo e rinnovato amplesso con chi l’amò in imperitura brama, senza niego alcuno di legame.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA PAURA DELLA VERITÀ IN QUEL “GRIDO” DI DOLORE. (PARTE PRIMA)

di Filippo Musumeci

MUNCH 2
“Non è precisamente mia intenzione ricostruire la mia vita. Piuttosto è mia intenzione cercare le forze segrete della vita, per tirarle fuori, riorganizzarle intensificarle allo scopo di dimostrare il più chiaramente possibile gli effetti di queste forze sul meccanismo che è conosciuto come vita umana, e nei suoi conflitti con altre vite umane”. (Munch)

In modo personalissimo ci si accosta al dolore, al malessere, all’angoscia esistenziale. A quello stridente logorio che consuma, dilania, umilia, lentamente, ineffabilmente, sadicamente.
Innumerevoli volte l’indomabile ha fatto capolino con il suo medesimo puntuale carico di terrore, tale da non poterlo più governare, saperlo più fronteggiare, volerlo più affrontare, comunque o nonostante, l’amara e recidiva convivenza con l’arcigno marionettista.
Se ne percepisce la presenza senza necessità di metterlo a nudo; se ne avverte l’avvento come di profetica missione e si raggela all’apparir del gemito epidermico quando la repentina ansia strozza il vissuto in un flebile ricordo.
Non ci si illude più e non ci si riconcilia con l’umano lignaggio perché è questi a manovrare le sfibrate fila di un atto unico privo di finale, ove il tragico non ha principio né fine e l’incombere della morte è lì dietro l’angolo, ossuta e dura, inumana e scura.
Ci sono opere che ti folgorano, ti ammaliano, ti ossessionano senza scampo; ti rendono vile prigioniero senza via d’uscita di quel gioco perverso tra vittima e carnefice. È un vincolo strettamente connesso al messaggio criptato in seno alla violenza del tratto e della rifrazione dell’immagine, dolente, inquieta, terrificante, vuole sovente il caso!
Quel “Grido”, che trasuda agonia, che travalica i confini più reconditi dell’animo, che lesiona le cavità tristemente inagibili della psiche, si plasma nel greve, ultimo, estremo strazio di un’esistenza furiosamente segnata da quell’ineccepibile sordità ordinaria votata al disincanto. I primari rossi, blu e gialli, intervallati dai verdi e dai terrosi, per la prima volta (forse l’unica) non si contrastano (paradossalmente) secondo le leggi della percezione visiva, bensì, mediante una sinistra alleanza, reciprocamente si fondono in una sola sostanza più profonda per divenire complici di quel processo di smaterializzazione e rarefazione della forma a limite con la pura astrazione. Quel “Grido”, manifesto sincero e audace di Munch artista e uomo (nonché di chi in egual misura ne sente la vicinanza di umore e tensione), non è altro dal mal comune…e dal suo mezzo gaudio!!
Vittime non lo siamo, poi, tutti? Al bivio ci si arriva d’impeto e d’impeto si fa ritorno, con in corpo la frivola illusione che sia stata o debba essere necessariamente l’ultima. Illusione…..appunto!!
E se non fosse un “urlo” bensì un “grido”?
Non urla, nel senso di “ululare”, l’incorporea immagine frontale, bensì “grida”, nel senso di “invocare aiuto”. Il suo è un impotente e inascoltato monito all’umanità sofferente perché corrotta, muta e sorda; un disperato e alienato tentativo di salvezza da quell’ininterrotto e giammai fiacco ciclo che non permette opposizione alcuna né reazione possibile. Perché se dalle proprie ceneri si rinasce è pur vero che ogni rinascita implica una riscrittura di trama dall’epilogo inverso. È questo che viene a mancare e per il cui effetto non si produce nessuna rinascita ma soltanto una sopravvivenza disumanizzata.
Non s’imprime affatto il transitorio attimo nell’animo poiché è quest’ultimo a esprimersi, imponendo alla natura il proprio sentire: procedimenti cerebrali antitetici posti sull’univoca linea di stazione per tracciare, tuttavia, traiettorie prospettiche opposte. Non è la “luce” stavolta a primeggiare, ma il “cupo” a soffocare sul nascere ogni tagliente barlume, quale emblema di un’esanime speranza “ridicolizzata”, ormai, e svuotata del suo più limpido significato.
Il ricordo di quel tramonto infuocato che ispirò l’artista, e lucidamente riportato dallo stesso nel suo diario, resta l’eredità più veritiera sulla genesi dell’opera, ove quella maschera scheletrica senza più connotati fisionomici si trasfigura nell’autoritratto di un’anima tormentata, consumata dalla propria solitudine e riforgiata alla stregua di un pupazzo: “Mi ricordo benissimo, era l’estate del 1893. Una serata piacevole, con il bel tempo, insieme a due amici all’ora del tramonto. […] Cosa mai avrebbe potuto succedere? Il sole stava calando sul fiordo, le nuvole erano color rosso sangue. Improvvisamente, ho sentito un urlo che attraversava la natura. Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi. […] Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare… Ma nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori. Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io”.

MUNCH 1
“Urlo” e “grido” sono equiparati, quindi dallo stesso artista nel suo diario e i colori assolvono pienamente a questa funzione “espressionistica” quando nel cogliere i particolari di quel volto mummificato le pennellate nervose assumono la forma di linguette nette, ora verdastre, ora giallastre, per il fine ultimo di definire la conformità cranica attraverso un andamento curvilineo-ellittico informe, letto come disarmante indagine introspettiva del soggetto.
Tutto diviene gesto: nella figura come nel paesaggio, nella stesura cromatica dal ritmo ondulato come nella forza plastica dei colori. Gesto inteso come tensione emotiva messa a freno e irruentemente esplosa, infine, per folle paura di verità. Ma di quale verità si tratta in fondo? Quella di vivere!!
E questa verità è data dalla “visione”, che è altra cosa dalla “veduta”: “vedo con occhi, ma visiono con sentimento”. E il sentimento è figlio della varietà che prescinde dall’unità di genere, perché il singolo sperimenta in modo pienamente soggettivo le pulsioni attivatesi nell’io. Di processo inverso si tratta, dunque, all’impressione en plein air poiché il moto “emozionale” procede non più dall’esterno all’interno, bensì da questi all’esterno: è l’individuo-uomo a condizionare e trasfigurare forma e contenuto della natura, non più questa a persuadere le scelte del primo.
Munch affermò che: “La verità è che si vede con occhi diversi di volta in volta. Al mattino vediamo le cose in un modo, alla sera in un altro, e questo dipende dal nostro modo di essere. Uno stesso soggetto viene perciò percepito in tanti modi differenti ed è questo che rende l’arte tanto affascinante”.
Christian Krohg, pittore e amico di Munch, dichiarò: “Dipinge, o piuttosto, osserva le cose diversamente dagli altri artisti. Ha occhi solo per l’essenziale, e naturalmente dipinge solo questo. Ecco perché i quadri di Munch non sono di regola ‘finiti’ come la gente compiacerebbe di constatare. Ma certo che lo sono: la sua opera completa. L’arte è completa quando l’artista ha detto veramente tutto quanto aveva dentro di sé”.
E Munch possedeva al pari di Freud la giusta dialettica per dire, ma pittoricamente, ciò che sentiva agitarsi dentro il suo animo: “a guardarsi dentro……ho sentito parlare delle teorie sulla psiche umana sviluppate dal dottor Freud, a Vienna, lo avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere”.
Sottile il confine tra vita e morte annidato nell’arte del pittore norvegese quando in un altro dei suoi passi dichiara: “Adesso la vita porge la mano alla morte. Viene chiusa la catena che unisce mille generazioni di morti a mille generazioni future”.
E quel “Grido” non conoscerà “fine” perché ciclicamente amplificato dall’ignoto che in esso si rispecchierà, rifugerà e immedesimerà quando un’alba scura porterà con sé il suo tacito spasmo pronto a tuonare in un rito agognante intriso di sacralità.
Chiamatelo pure “mal di vivere”, se vi pare! Ma a ciascuno verrà dato dire in un probabile intermezzo riflessivo : “Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io!”

© RIPRODUZIONE RISERVATA