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Ho sposato umilmente la causa della Storia dell'Arte per la primaria necessità di nobilitare il mio animo e conferirgli degnamente respiro. M'impegno quotidianamente, con i miei indiscussi limiti del caso, di trasmettere sentitamente ai miei simili, che la vita ha nominato miei interlocutori, non tanto il sapere, bensì l'amore per il sapere. E' l'unico patrimonio di cui dispongo al momento.

LETTURA OPERA: “IL BACIO” DI FRANCESCO HAYEZ

di Filippo Musumeci

► Opera: “Il bacio”
– Anno: 1859
– Tema: storico – allegorico
– Tecnica: olio su tela
– Dimensioni: 110 x 88 cm.
– Luogo di ubicazione: Pinacoteca di Brera – Milano.

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Lo spirito riformatore della nuova sensibilità romantica, sviluppatosi inizialmente nei territori d’oltralpe agli inizi del XIX sec., tardò ad attecchire nel suolo italiano per via del teso clima politico pre-unitario in cui versava la Penisola. Fu solo negli anni Venti dell’Ottocento che si compì un decisivo slancio verso l’orizzonte romantico, tradotto nel genere della pittura di storia, degna interpreta delle istanze civili e degli ideali patriottici risorgimentali. Attraverso la rievocazione storica di eventi medievali dal consolidato e attuale contenuto simbolico, nasceva, dunque, un forte sentimento nazionale quale erede della gloriosa età comunale, tenacemente coesa contro le invasioni straniere. È nella ricerca delle proprie radici storiche che il Medioevo diviene per l’uomo dell’Ottocento una seconda età della fanciullezza, ove rifugiarsi per ritrovare una coscienza, allo stesso tempo, individuale e collettiva, fondata su quei valori spirituali tanto professati dal Cristianesimo e tanto cari, non utime, ai liberi Comuni medievali.
La specificità della stagione romantica italiana risiede proprio in questo deciso impegno ideologico per l’Unificazione del paese, differenziandolo dai coevi movimenti europei ma con i quali condivide la rivalutazione della natura come immediata manifestazione del divino e degli affetti sociali, in uno stretto rapporto tra sentimento religioso e patriottismo.

Pittore veneziano di formazione neoclassica, caposcuola e maggior interprete del Romanticismo storico italiano, Francesco Hayez (Venezia, 10 febbraio 1791 – Milano, 21 dicembre 1882) seppe trasfondere la dimensione epica del dramma antico nelle rievocazioni medievaleggianti cariche di sentimentalismo. Alessandro Manzoni, sosteneva che la sua pittura romantica non nasceva da idee filosofiche, ma dal puro sentimento. In realtà le sue creazioni, dal disegno accademico di matrice neoclassica, ma dal colore caldo e dai toni appassionati, con una forte tensione comunicativa, rispecchiano esattamente gli ideali risorgimentali dell’epoca, Nei suoi dipinti seppe infondere una carica sentimentale che accentua la loro funzione ideale di interpretare le aspirazioni risorgimentali alla libertà e all’identità nazionali, già esaltati dalle liriche di Giuseppe Verdi e Gaetano Donizetti. I protagonisti delle sue tele celebrano i valori civili di fine Ottocento sotto le simboliche vesti medievali, presentando atmosfere artificiali e gli eventi storici che vi sono rappresentati sembrano svolgersi su un palcoscenico come una piece teatrale.
Scrivo poco, lo so!! Il tempo mi è ostile, sapete! Ma spero di farmi perdonare con  l’indagine che segue (spero non banale).

Opera celeberrima della pittura storica romantica italiana fra le più popolari nell’immaginario collettivo; prototipo di una lunga e fortunata serie figurativa del tema “amoroso”, dispiegato per tutto l’arco cronologico tra Otto e Novecento (e anche oltre), nonché, in definitiva, capolavoro assoluto dell’intera produzione pittorica di Hayez, “Il bacio” venne realizzato nel 1859 su commissione di Alfonso Maria Visconti di Saliceto, il quale alla propria morte lo regalò alla Pinacoteca dell’Accademia di Brera, attuale luogo di ubicazione.
L’artista realizzò altre quattro versioni del medesimo soggetto: tre oli su tela e un acqurello su carta. I primi sono oggi in collezioni private, di cui una (l’unica in cui l’abito della donna appare bianco anziché azzurro e di cui si dirà in calce) realizzata nel 1861 per la famiglia Mylius è stata battuta dalla casa d’asta londinese Sotheby’s il 12 novembre 2008 per la somma di 416,000 sterline (pari a 570,000 euro). Questa fu esposta alla mostra “La Bella Italia” ospitata presso le Scuderie Juvarriane della Reggia di Venaria Reale (TO) dal 17 marzo all’11 settembre 2011 nell’ambito dei festeggiamenti giubilari “unitari” della penisola.

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La versione ad acquerello su carta (di piccolo e ovoidale formato: 26,2 x 22,1 cm.), del 1859, dunque coeva a quella di Brera, è custodita alla Pinacoteca della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, ma dal 19 marzo, e fino al 30 agosto 2015, resterà esposta negli spazi museali di Palazzo Chiablese a Torino in occasione della mostra antologica di Tamara de Lempicka, curata da Gioia Mori e di cui si motiverà di seguito la presenza all’esposizione piemontese.

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La prima (e ufficiale) versione del dipinto fu presentata nel 1859 all’Esposizione annuale dell’Accademia di Brera con il titolo originale di «Il Bacio. Episodio della giovinezza. Costumi del secolo XIV», appena tre mesi dopo l’ingresso a Milano delle truppe sabaude di Vittorio Emanuele II (sovrano del regno di Sardegna e futuro primo re d’Italia) e dell’Imperatore francese Napoleone III, i quali con la vittoria di Solferino (Mantova) del 24 giugno 1859, nel contesto della Seconda Guerra d’Indipendenza, liberarono il Lombardo-Veneto dagli Austriaci, aprendo definitivamente le porte all’Unità d’Italia (17 marzo 1861).

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Al centro di un interno medievale (probabilmente un castello, di cui è evidenziato lo sfondo murario color ocra, segnato da tre gradini di una scalinata sul margine destro), due giovani in abiti medievali si stringono e si abbandonano ad un bacio intenso, quanto furtivo, interpretato come l’addio del volontario patriota alla fanciulla amata.
Le due figure si stagliano nitide contro la parete di pietre squadrate dello sfondo medievale, la cui superficie uniforme è interrotta dal varco archiacuto gotico, introdotto da una sottile colonnina (alla sinistra dell’uomo), alla metà della quale è collocato il punto di fuga dell’impianto prospettico,  e dall’accenno a una bifora in alto a destra, tagliata dal margine superiore della tela.
La fanciulla è pienamente abbandonata nell’amplesso, il cui braccio sinistro, portato in alto a stringere le spalle dell’amato, segue la linea d’orizzonte dello schema geometrico della composizione. L’uomo, a sua volta, bacia l’amata tenendole capo e viso fra le mani, appoggiando la gamba sul primo gradino della scalinata e assecondando, allo stesso tempo, la sensuale inclinazione del corpo femminile stretto al suo.

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Tuttavia, l’impressione che se ne ricava da questa presunta instabilità fisica è quella di un triste e quanto prossimo commiato preannunciato dal tono melodrammatico dell’anelito sentimentale: lo stesso sentito negli ambienti risorgimentali preunitari e magistralmente interpretati nelle loro opere liriche (come succitato) da Verdi e Donizetti. Dunque, si ritroverebbe qui un’impostazione fortemente teatrale dalla dichiarata estrinsecazione dell’io soggettivo, ove l’ambientazione medievale, in linea con le tendenze estetiche neogotiche, rispecchierebbe gli ideali romantici in seno alla pittura italiana di metà Ottocento.
Sullo sfondo, la sagoma in penombra, vista di tergo, di una donna adulta (probabilmente la domestica), definita come un’immagine spettrale dalla luce che proviene dal piano sottostante, la quale disegna e proietta, inoltre, sulla parte in profondità la forma del vano archiacuto del primo piano.
In passato, a causa di una “superficiale” analisi iconografica, la sagoma in penombra sullo sfondo è stata ripetutamente ed erroneamente confusa e interpretata come quella di un uomo che spia furtivo la scena la scena o, piuttosto, giunto improvvisamente al fine di sollecitare il giovane patriota all’imminente dipartita.

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Lo storico Giuseppe Nifosì (Arte in opera, vol. 4, Editori Laterza, 2015) afferma che: «in questo abbraccio e in questo bacio, l’osservatore presagisce il dolore per una partenza imminente e inevitabile: dopo l’addio struggente, la fanciulla resterà sola, carica di nostalgia, a cullarsi nella sua attesa malinconica, affranta per il timore di non rivedere mai più il suo amato».
Del resto, lo stesso tema del bacio, era già stato trattato da Hayez ne “L’Ultimo addio di Romeo e Giulietta” (1823; olio su tela, 291 x 202 cm.Tremezzo, Como, Villa Carlotta) la cui romantica scena prelude al dramma che di lì a poco travolgerà l’infelice coppia shakesperiana. Romeo con il piede già appoggiato allo scalino sotto la finestra e la mano aggrappata alla colonnina della bifora, mentre ruota la testa e il busto verso la dolce Giulietta, la quale bacia l’uomo abbracciandolo teneramente con il braccio destro.

Non a caso, il tema proposto da Hayez ricorda soggetti letterari travolti da un amore passionale e letale quali Paolo e Francesca della Divina Commedia dantesca e Romeo e Giulietta di William Shakespeare.

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A ciò si aggiunga il corposo ed eloquente citazionismo prodotto, già, dai contemporanei del pittore veneziano e direttamente ispirato alla sua opera.
Primo fra tutti Gerolamo Induno, il quale rese duplice omaggio ad Hayez: nel 1860, appena un anno dopo l’Esposizione di Brera del 1859, con “La partenza del garibaldino” (olio su tela, 59,8 x 45,3 cm. Milano, Collezione Cariplo), in cui il pittore lombardo ricontestualizza l’iconografia nel contesto realistico risorgimentale; e nel 1862 con il “Triste presentimento” (olio su tela, 67 x 66 cm. Milano, Pinacoteca di Brera), ove sulla parete di fondo dell’angusta stanza appare una riproduzione su stampa della versione hayeziana del 1861, anche qui con espliciti riferimenti al contesto storico garibaldino ribaditi dal busto in gesso dell’ “eroe dei due mondi” entro la nicchia dello sfondo frontale.

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Nel 1922 fu l’eccentrica artista polacca Tamara de Lempicka a realizzare un “d’Après” del dipinto di Hayez come fase iniziale di un processo di rielaborazione formale che porterà alla stesura del dipinto “Il bacio” del 1922-23. (mettere foto).
Come spiega Gioia Mori: «Della fonte ispirativa rimane l’abbraccio appassionato, ma i due antichi amanti sono trasformati in una spregiudicata coppia che amoreggia nelle strade buie di una città moderna». E ciò è evidenziato dal vestiario fornito dalla Lempicka all’uomo, svestito degli abiti medievaleggianti per indossare la mise “a la page” degli anni Venti, sciarpa di seta bianca, mantello e cilindro; mentre la donna è trasfigurata nella mantide appagata che avvolge tra le sue spire il suo uomo, ormai preda di una passione travolgente che assorbe e annulla tutto il resto.

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Sempre nel 1922 fu la volta di Giovanni Buitoni, fondatore della nota Casa del Cioccolato “Perugina”, a ribattezzare il celebre cioccolatino (prima detto “Cazzotto”) in “Bacio Perugina”, mentre il suo direttore artistico, Francesco Seneca, rielaborò il dipinto creando la grafica della scatola blu stellata con l’immagine dei due innamorati e i cartigli con le citazioni d’amore, nota inconfondibile del prodotto commerciale.

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E ancora, il regista Luchino Visconti nel 1954 citerà il dipinto in una scena di “Senso”, ove i protagonisti, la contessa Livia Serpieri in Ussoni e il tenente austriaco Franz Mahler (interpretati rispettivamente da Alida Valli e Farley Granger) si abbandonano in un appassionato bacio presso la Villa di Aldeno (Trento).

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“A San Valentino, innamorati dell’arte” fu, invece, l’iniziativa promossa dal MiBACT (Ministero italiano dei beni e delle attività culturali e del turismo) nel 2010 nei giorni 13 e 14 febbraio al fine di valorizzare il Patrimonio storico-artistico italiano nostrano e, in tal modo, invogliare le coppie alle visite museali al costo di un solo biglietto, poiché, come tuonava lo spot, “la cultura… fa bene all’amore!”. Il manifesto della campagna ministeriale, ancora una volta, si presentava come una rivisitazione moderna del celebre dipinto indagato.

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Ultima, in ordine temporale, è il remake digitale “crackato”, umoristico e caustico, eseguito dal giovane urban artist contemporaneo Daniele Urgo (meglio noto sui social come “Done”) in cui il profilo del venditore di rose pakistano incappucciato fa la sua inaspettata, quanto meno inopportuna, irruzione all’interno della scena spezza l’idillio amoroso della coppia di amanti. Della serie (per citare il titolo stesso del remixaggio): “Il bacio nel posto sbagliato al momento sbagliato!”.
Per conoscerlo nel dettaglio i suoi lavori (a mio parere, originalissimi!) visitate pure il sito http://www.behance.net/done_

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Tornado ad Hayez, il suo “bacio” riscosse enorme successo presso il pubblico contemporaneo sia per il messaggio allegorico – politico al quale allude, elevandosi a simbolo della giovane nazione, sia per l’efficacia della sua composizione scenografico-teatrale, ove il sentimento è espresso anche per mezzo del linguaggio pittorico altamente qualitativo nelle tonalità accese e contrastanti dell’azzurro dell’abito femminile, del bruno del mantello e del rosso brillante della calzamaglia del giovane, colore questo, non a caso, particolarmente caro agli artisti veneziani.
L’uso simbolico del colore è arricchito dalla ricerca di delicate vibrazioni cromatiche nel trattamento delle stoffe lucenti che imitano il raso, memori della lezione veneta di Giorgione e Tiziano Vecellio, su cui Hayez aveva fondato il proprio stile.
Ponendo maggiore attenzione, si comprende come la flessuosa figura della ragazza, ritagliata fra il rosso della calzamaglia e il bruno del mantello del giovane amato, è impreziosita dai riflessi cangianti e lucenti della veste aderente al busto e gonfia di pieghe al di sotto dei fianchi, accentuando ulteriormente, in tal modo, il virtuosismo luministico di eredità neoclassica.
Il fascino dell’opera, quindi, è rappresentato dall’abbigliamento medievaleggiante dei personaggi, dai loro volti nascosti, dalla raffinata luminosità dell’abito di raso che la donna indossa, dall’atmosfera nostalgica e sofferta del distacco, che rende commovente il gesto dei due amanti. L’azione compiuta si trasfigura, dunque, in una passione intensa e profonda, che li unisce in un legame indissolubile, capace di resistere anche alla morte. La fonte di luce proviene da sinistra, investendo le figure dei due giovani, le cui ombre vengono proiettate sulla destra della parete lapidea. La scena presenta un impianto prospettico geometrico definito (come già detto) dalle diagonali dei gradini che convergono nel punto di fuga, posto sulla sinistra, a metà della colonnina del vano archiacuto del primo piano.
Nonostante l’opera appartenga di diritto al contesto storico-artistico romantico, tuttavia la critica è unanime nel proporne un’interpretazione in chiave risorgimentale, quindi un messaggio politico – allegorico, avallata da alcuni elementi formali:
1. L’architettura dello sfondo, dall’incerta ambientazione spazio – temporale, acquisisce un carattere indefinito e universale, elevando la scena a simbolo dell’amor patrio e del sentimento passionale.
2. Il volto coperto del giovane ammantato, con il berretto piumato e il piede sinistro poggiante sul gradino, come se egli avessi una gran fretta di fuggire via dopo l’estremo saluto.
3. Le braccia della fanciulla si stringono con forza intorno alle spalle del suo compagno, come per trattenerlo: un atteggiamento che tradisce una segreta tristezza dovuta all’addio dell’amato che si appresta ad affrontare una sorte incerta e ardua per fedeltà al patriottismo.
4. Il pugnale dell’uomo, la cui impugnatura preme contro un fianco della fanciulla, allude all’imminente lotta contro gli invasori austriaci.
5. L’anno di realizzazione del dipinto, ovvero il 1859: anno della Seconda Guerra d’Indipendenza e dell’ingresso milanese di Vittorio Emanuele II e di Napoleone III (alleato del sovrano sabaudo).
6. L’azzurro freddo e lucente delle veste della giovane donna e il rosso della calzamaglia dell’uomo alludono ai colori del tricolore francese: la Francia divenne alleata dell’Italia a seguito degli accordi di Plombières, stipulati verbalmente nell’omonima cittadina termale francese il 21 luglio 1858 fra l’Imperatore Napoleone III e il Primo ministro del Piemonte, Camillo Benso Conte di Cavour.
Nelle successive tre versioni del soggetto il valore allusivo della gamma cromatica si fece sensibilmente più esplicito con conseguente tono celebrativo dell’impresa unitaria. Nello specifico nella terza versione del 1861, anno dell’Unificazione, Hayez sostituisce l’azzurro della veste con il neutro bianco, come una decisa dichiarazione di amore patriottico per avvenuta e tanto agognata Unità d’Italia. Infine, la quarta e (pare) ultima delle versioni, del 1867, presenta l’aggiunta di un drappo bianco disteso in modo irregolare lungo la gradinata dell’interno – come scivolato improvvisamente dalle spalle della ragazza – che assieme all’azzurro delle veste femminile, al verde del risvolto del mantello dell’uomo e al rosso squillante della sua calzamaglia alluderebbero ai due tricolori, italiano e francese. Fu questa secondo gli storici la versione inviata all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, ove la scelta dei due tricolori dell’Alleanza franco-italica e il celato significato allegorico-patriottico fu sottolineata dallo stesso Hayez.

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Scrisse il poeta Francesco Dall’Ongaro: «una scena toccante, piena di mistero e di affetto. […] esca da questo bacio affettuoso una generazione robusta, sincera, che pigli la vita com’ella viene, e la fecondi coll’amore del bello e del vero».

P.S. Gent.ssimo maestro Dall’Ongaro,
non per contraddirla, (Dio me ne liberi!!!), ne tantomeno per essere “catastrofico” (Dio me ne liberi un’altra volta!!!), ma quella generazione feconda, amante dell’ “amore”, del “bello” e del “vero”, da lei così vivacemente auspicata (con tutta franchezza s’intenda) stiamo (o almeno “sto”) ancora qui ad attenderla…e da tempo immemorabile!!
I miei sinceri ossequi!!!

Vostro umile Filippo Musumeci

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IL POTERE DELL’INTERPRETAZIONE: “MOTHER AND CHILD” di ZHANG YAXI

IL POTERE DELL’INTERPRETAZIONE: “MOTHER AND CHILD” di ZHANG YAXI

di Noemi Bolognesi

  • Opera: “Mother and Child”
    – Autore: Zhang Yaxi
    – Anno e luogo di locazione: 2007 – Luogo di Collocazione: Goldmud (Cina)

mamma e figlio

Oggi per festeggiare la giornata dedicata alle nostre Mamme ho scelto questa significativa scultura: “Mother and Child”.
Lo scultore, Zhang Yaxi, è stato commissionato nel 2007 dal sindaco di Golmud per creare questa scultura monumentale, che ha vinto il premio Excellence dalla scultura Association National Urban nel 2009, ed è stata eseguita da Yaxi e suoi assistenti prima in creta su un’armatura in acciaio e legno, poi è stata stampata in gesso.
Con questa scultura, questo articolo vuole essere una riflessione sul Potere dell’interpretazione. L’Arte, infatti, ci mostra capolavori in grado di illuminare i nostri occhi e soprattutto la nostra mente. Ciò che per l’uomo sembra chiaro e con un solo significato evidente, per l’Arte è invece il risultato delle più profonde interpretazioni. Molti artisti ci mostrano chiaramente il modo d’interpretazione dei loro lavori, altri invece non lo fanno, lasciando posto all’immaginazione.
Osservando ad esempio questa scultura, ognuno di noi direbbe all’istante che raffigura il bacio tra una mamma e il suo bambino: questo è ciò che la mente fa come primo passaggio legato all’interpretazione visiva. Ma “il bello”, come si potrebbe definire, è il secondo passaggio, non facile per tutti e che richiede non solo una profonda personalità ma anche un voler vedere la stella più lontana ai nostri occhi, ovvero l’interpretazione approfondita: questa seconda fase è l’elaborazione di ciò che vediamo. Poi c’è una terza fase formata dall’interpretazione morale legata ai ricordi personali che emergono osservando la scultura. La terza fase è considerata la più complessa, dove lo spettatore associa ciò che vede a qualcosa di più complesso e poi ne deduce ricordi personali.
Certo, Baxandall scrisse a proposito di questo tema molte cose interessanti, ma stasera sviluppo io questa mia teoria e la
condivido con voi tutti. Cerchiamo quindi di ragionare sulla figura che vediamo nel modo più completo possibile
Prendiamo appunto “Mother and Child” come riferimento.

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Interpretazione visiva. Ciò che vedete sono due figure: una mamma e il suo bambino, entrambe unite da un affettuoso bacio che le rende così una figura sola.
interpretazione approfondita. Nessun tema può essere più vasto e complesso di questo: l’amore per i figli. Proprio oggi che è la Festa della Mamma mi sento in dovere di spendere qualche parola a riguardo. Cosa c’è di più grande di un amore materno? Cosa di più vero e concreto? La madre è colei che ti protegge e lo fa anche solo guardandoti crescere, lo fa con una carezza data a un piccolo pupetto, a quel pupetto diventato poi grande e che coccole forse non vuole più. Lei sa che soffrirai, sa che piangerai ma sa anche che ti rialzerai, come ha fatto lei stessa. Nell’età dell’adolescenza ti avverte di cosa è sbagliato fare con i duri “NO” urlati davanti alla porta della tua camera, ti rimprovera, ti mette in punzione e la tua frase protagonista di quel periodo sarà “Tu non capisci Niente!”. E invece è lì che ognuno di noi dovrebbe fermarsi, lì dovremmo capire che le mamme sanno e capiscono eccome! E proprio per questo si sentono in dovere di guidarti, perchè ci sono già passate e in qualche modo cercano di non farti fare i loro stessi errori.

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interpretazione morale. Non è facile riuscire ad interpretare così a fondo un’opera d’arte, molto più semplice è perdersi nella concretezza misurata dai nostri occhi. Il segreto sta appunto nel fare una profonda interpretazione su ciò che l’occhio vede e incrociare più spunti possibili per permettere alla mente di allargarsi. A quel punto le due figure avranno molti più volti legati dalla stessa cosa in comune: il bacio tra una figura che rappresenta la protezione e un’altra che rappresenta il voler essere protetti fino a quando non si riesce a camminare da soli. Così se ci soffermiamo più attentamente riusciamo a vedere molti altri legami che potrebbero specchiarsi in questa raffigurazione; ad esempio la Terra che bacia i suoi frutti e se ne prende cura, un figlio che aiuta il genitore anziano che si ritrova bisognoso di attenzioni come un tenero bambino o addirittura La Forza che bacia La Vita (due figure astratte).
Un altro spunto d’interpretazione è ciò che spicca nella figura: il bacio. Il bacio che è l’incoronazione della fiducia, dell’amore sincero. Un bacio che può essere rubato, aspettato, negato; un bacio dato con il cuore o dato per circostanza. Un bacio dato tra due amanti, tra amici o ancora, tra parenti, simbolo di rispetto, costanza e affetto.
Ricordi personali. Capiamo di aver fatto un buon lavoro di interpretazione quando riusciamo a vedere i nostri ricordi attraverso l’opera che abbiamo di fronte, in questo caso vedere questa scultura susciterebbe in noi il pensiero di quando eravamo piccolini, ognuno di noi con un’interpretazione diversa. Ad esempio l’abbraccio che ricordiamo dato dalla mamma prima della buonanotte, la lucina accesa per chi aveva paura del buio, le volte che allungavamo le mani per farci prendere in braccio o il bacio a nostro figlio appena nato o qualsiasi ricordo in particolare associato a questa figura (ognuno di noi ne ha milioni!).
Come vedete l’interpretazione è la prima figlia della Storia dell’Arte. E’ magia, è mente: dona una scala di colori molto vasta e variegata.
Concludo descrivendovi cosa i miei occhi vedono: la Madre raffigura noi uomini e il bambino rappresenta la Terra e le sue meraviglie (tra cui l’Arte ovviamente): l’uomo dovrebbe avere più rispetto e molto più amore verso tutto ciò che lo circonda, non dovrebbe essere il motivo del degrado e del malessere.
“L’uomo ha fatto nascere l’Arte e lui stesso deve prendersene cura”.

Lascio a voi tutti questi spunti di riflessione e se volete diteci in che modo interpretate questa scultura meravigliosa.
“Imparate a vedere con gli occhi della mente, perchè ricordatevi: l’essenziale è invisibile agli occhi”
Un augurio sincero a tutte le mamme, specialmente alla mia sempre bella come in quella fotografia! 🙂

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LETTURA OPERA: LA “PALA DI BRERA” di PIERO DELLA FRANCESCA (di SARA BIANCOLIN)

LA “PALA DI BRERA” di PIERO DELLA FRANCESCA

di Sara Biancolin e Filippo Musumeci

– Opera: “Sacra Conversazione” (detta anche “Madonna con Bambino, Santi e Angeli”, “Pala Montefeltro” o “Pala di Brera”)                                                     

– Anno:1472-74.

– Tecnica e dimensioni: olio e tempera su tavola, 251 x 173 cm.

– Ubicazione originaria: Urbino, Chiesa di San Bernardino da Siena.

– Ubicazione attuale: Milano,Pinacoteca di Brera.

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‟Senza dubbio la più originale e importante sacra conversazione di tutto il Quattrocento”. (Millard Meiss).
‟Si avverte, quasi tangibilmente, l’ardua sperimentalità del dipinto, l’urgere dei “tanti problemi sottili complessi e opposti” che Piero in questi anni andava proponendosi più per l’instancabile ardore di speculazione […] che per la certezza di risolverli”. (Roberto Longhi).
‟Accade che il blu notte del manto della Vergine ospiti, nelle pieghe , abissi meravigliosi di ombre colorate e che tutti i grigi , gli azzurro-cenere e i bruno-malva del mondo vivano nei marmi dell’abside; dove l’ombra e la luce configgono per un primato che solo il trascorrere dell’ora meridiana nel quadrante del cielo potrà decidere”. (Antonio Paolucci).
L’opera giunge a Milano nel 1811 durante le requisizioni napoleoniche, periodo nel quale ben poco si sapeva in merito alla provenienza del quadro, collocato per ben tre secoli nella chiesa urbinate francescana di San Bernardino da Siena e forse in origine posto all’interno della chiesa di San Donato degli Osservanti dove fu sepolto lo stesso Federico per un certo periodo di tempo. Progettata inizialmente per l’altare maggiore di una chiesa francescana, la tela avrebbe dovuto celebrare non solo la profonda pietà e l’imperitura religiosità del sovrano, rappresentato in atto di reverenza nei confronti della Vergine, ma anche la sua autorità, forza e magnificenza, di cui l’architettura policroma e luminosa che ospita i personaggi è evidente intento di testimonianza. Pochi sanno che l’artista, servitosi del’aiuto di artigiani locali, lasciò incompiuto il proprio capolavoro: la causa forse più attendibile è che all’età di circa sessant’anni, come ci riferisce lo stesso Vasari nelle sue Vite, il pittore avrebbe perso la vista in seguito alle conseguenze di una cataratta («un cattarro accecò»), sottoponendo le mani giunte in preghiera del duca d’Urbino ad un completamento eseguito dal fiammingo Pedro Berruguete, nome individuato da Roberto Longhi in uno dei suoi numerosi studi sul pittore di Borgo Sansepolcro (nonostante Millard Meiss le attribuì a Giusto di Gand).
Forse la più rappresentativa dell’intera produzione pittorica di Piero e che riassume, pur rimanendo in un impianto iconografico che si rifà alla tradizione, un significato votivo originale e riccamente intriso di avvenimenti storici, sia lieti che tragici, legati alla vita di uno dei protagonisti della celebre tela: il duca Federico da Montefeltro. Il 1472 è infatti non solo l’anno di inizio dell’opera, ma è anche quello della nascita del suo erede diretto, Guidobaldo, della felice presa di Volterra che lo resero il capitano più ammirato d’Italia e infine della morte, dovuta alle complicanze del parto, della moglie Battista, donna di grande cultura ed equilibrio oltre che saggia contitolare del potere.

Tali significativi eventi segnarono profondamente Federico, tanto che, a un’attenta lettura dell’opera, sono rintracciabili molteplici simboli ed allusioni a quella sfera affettiva tanto cara al committente. E’ alla tanto attesa nascita che allude infatti il Bambino beatamente addormentato fra le Braccia della Vergine; è alla dolorosa scomparsa dell’amata moglie la presenza dovuta, oltre che della Madonna in preghiera simbolo delle virtù cristiane della sovrana urbinate, del santo protettore Giovanni Battista, che nel dipinto è collocato a sinistra, posto che occuperebbe la donna se fosse viva; è a motivo auto celebrativo l’armatura da battaglia indossata dal Montefeltro, con il bastone del comando ai suoi piedi, la spada e le stringhe di cuoio rosso, tipico vezzo dei ricchi di allora e che si ritrovano in molti dipinti dell’epoca.

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La scena si svolge all’interno di un edificio classicheggiante, forse ispirato alla chiesa di Sant’Andrea a Mantova di Leon Battista Alberti, in cui appaiono il presbiterio, il coro, l’abside, gli archi laterali, i marmi bianchi e le lesene corinzie; al centro, la Vergine ammantata di pelle d’agnello, seduta in trono sulla cosiddetta sella plicatilis con il Bambino, è attorniata da quattro angeli e sei santi riccamente vestiti, fra cui si individuano a partire dall’estrema sinistra il San Giovanni Battista (barbuto e dotato di abito in pelle e bastone e indicante con la destra il Bambino, allusivo a Cristo quale vittima innocente ed immolata per tutti gli uomini); San Bernardino da Siena (traduttore della Bibbia e considerato il protettore degli umanisti); San Gerolamo (che rimanderebbe alla dimensione di interesse filosofico e letterario del signore urbinate); San Francesco d’Assisi (con le celebri stimmate nel ruolo di Alter Christus e reggente la croce in cristallo di rocca), San Pietro Martire (dotato del celebre taglio sul capo) e San Giovanni Evangelista (o Sant’Andrea) all’estrema destra (provvisto del tradizionale libro e mantello rosato). Dinanzi alla Vergine, sulla destra e devotamente inginocchiato e a mani giunte, è riconoscibile Federico, ritratto di profilo a motivo puramente estetico: la partecipazione ad un fatale torneo lo aveva privato dell’occhio destro, ragion per cui egli, dopo essersi fatto limare l’osso del naso per sbirciare dal lato opposto, preferiva sempre essere rappresentato in tale posizione, come riconosciamo, ad esempio, anche nel celebre Doppio ritratto dei duchi di Urbino del medesimo artista o sulla medaglia attribuita allo scultore fiorentino Pietro Torregiani.

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La posizione dei personaggi rispettava in genere una precisa gerarchia: la Madonna è infatti l’unica ad essere seduta, mentre i santi sono tutti collocati in piedi e le persone comuni, come il committente, si trovano invece inginocchiate. Ad accomunarli è tuttavia lo sguardo rivolto verso il basso, indice di atteggiamento reverenziale e di preghiera devozionale. La dimensione polisemantica della Pala, come già accennato, si manifesta prepotentemente in numerose aree della composizione; balza sicuramente all’occhio la collana in corallo indossata dal Bambino: il colore rosso richiamerebbe il sangue e dunque la passione di Cristo, mentre il ciondolo con pelo di tasso, così come il rametto di corallo, sarebbero simboli beneauguranti per il piccolo addormentato, ritratto forse in tale momento in allusione alla sua futura morte. In fondo alla volta romana è invece possibile ammirare il nicchio, termine che identifica la conchiglia battesimale di San Giacomo di Compostela e che sarebbe stata a lungo utilizzata nella decorazione di molti edifici religiosi, quali il battistero e il duomo di Firenze; l’enorme conchiglia, simbolo di dimensione venerea anche per il legame con le acque e il mare, ricopre infatti la parete semicircolare dell’abside e da essa pende sostenuto da una catenella d’oro un originalissimo oggetto sferoidale sospeso nel vuoto: secondo alcuni si tratterebbe di una perla, simbolo della verginità di Maria in quanto come la conchiglia produrrebbe, secondo i naturalisti, la perla senza essere fecondata, allo stesso modo sarebbe avvenuto il concepimento mariano. Molti hanno tuttavia avanzato l’ipotesi che l’oggetto assomiglierebbe più ad un uovo di struzzo che a una perla: in tal caso si tratterebbe di una evidente allusione all’armonia geometrica e alla Creazione, alla casata del committente di cui l’animale era simbolo e che allora si reputava ermafrodita (quindi già fecondato in se stesso), ma anche alla verginità di Maria e al sole come simbolo di “nascita” (il figlio del duca) e “rinascita”: ‟Se il sole può far schiudere le uova di struzzo, perché una Vergine non potrebbe generare per opera del sole” (Alberto Magno); la leggenda vuole che le uova di struzzo si dischiudano infatti al calore del sole e per questo sarebbe individuabile un richiamo all’Immacolata Concezione.

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Grande attenzione è inoltre riservata alla cura minuziosa dei dettagli dei gioielli (gli anelli indossati da Montefeltro, le collane e i monili che ornano gli angeli e il Bambino) e delle preziose stoffe (in cui in alcuni casi le medesime fantasie sono richiamate sia nell’abito damascato della Madonna, sia in quello di uno degli angeli, sia nel mantelletto del committente ) che si inseriscono nella più consueta tradizione artistica fiamminga che vede in Jan van Eyck uno dei rappresentanti massimi per il perfezionamento della tecnica della pittura ad olio.

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L’impianto prospettico strutturato con un unico punto di fuga centrale all’altezza degli occhi della Vergine sembra proiettare i personaggi, che l’artista colloca sapientemente in ordine di altezza come aveva fatto Masaccio nella Cappella Brancacci, tra la navata e il transetto e al di sotto della cupola con volta a cassettoni. Secondo studi recenti, i rapporti proporzionali interni allo spazio, simbolico, della composizione sono stati in parte falsati da una piccola decurtazione inferta alla tavola sul lato destro e in misura maggiore sul sinistro, ma, pare, non su quello superiore. In realtà, già nel 1954 lo storico e critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti compì accurate ricerche sul formato della tavola giungendo alla conclusione che questa avrebbe subito, piuttosto, una mutilazione su tutti i lati, e nella sua forma originaria, l’opera sarebbe apparsa incorniciata in primo piano da pilastri laterali (di cui si scorgono ancora i cornicioni terminali) e da un arco trionfale in controluce. Dunque, come per l’ “Annunciazione” del “Polittico di Sant’Antonio” (1460-70; Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia), a cui, sempre secondo gli studi di Ragghianti, spettò la medesima sorta, il punto di partenza per individuare l’antica estensione della tavola fu una ricerca di concordanza armonica: “basata, nel caso presente, sullo stacco fra la massa complessiva dei personaggi e il vuoto soprastante; in particolare, la sezione aurea impostata sulla linea – parallela alla base della Pala – tangente l’apice della testa di Maria determina (tenuto anche conto dell’andamento delle architetture suggerito dagli elementi superstiti) il primitivo svilippo verso l’alteo e verso il basso”. L’attendibilità degli studi indicati trova sostegno nella centralità dell’uovo di struzzo, qualificandosi come centro geometrico della composizione completa. Si aggiunga che indagini successive, condotte dalla Direzione della Pinacoteca di Brera, hanno confermato le teorie di Ragghianti, poiché “lungo i bordi, la superficie cromatica non presenta le sbavature consuete in un’opera pittorica, per quanto diligente ne sia stato l’esecutore; bensì si nota una completa sovrapposizione all’imprimitura sottostante”. In definitiva, è ammissibile, secondo questi dati, che “la Pala (formata da otto pannelli di pioppo) fu mutilata sui quattro lati, e i bordi vennero poi sottoposti ad accurata piallatura (ne sussistono tracce), grazie alla quale la crosta dipinta termina in modo così netto” (Pierluigi De Vecchi).

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La luce, infine, sembra sopraggiungere a illuminare volti, conferire vibrante tridimensionalità alle architetture e creare riflessi, come quello del velluto dell’elsa della spada sull’elmo o di una finestra sul lucido metallo dell’armatura, quasi a imprimere una sorta di bagliore divino e ad attribuire un maggior senso di realismo alla composizione: ‟Il problema dominante dell’ultimo decennio pittorico di Piero [è] rivolto alla conquista del tessuto epidermico della realtà quale viene svelato dalle diverse reazioni alla luce di tutte le cose”. (Liana Castelfranchi Vegas).

N.B. Si è discusso dell’arte di Piero della Francesca anche QUI.

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BIBLIOGRAFIA

Pierluigi De Vecchi, “L’opera completa di Piero della Francesca”, Rizzoli editore, 1967.

Antonio Paolucci, “Piero della Francesca – la Pala di Brera”, 2003

Philippe Daverio, “Il museo immaginato”, 2011

“LA LISEUSE” (“LA LETTRICE”) di PIERRE-AUGUSTE RENOIR

“LA LISEUSE” (“LA LETTRICE”) di PIERRE-AUGUSTE RENOIR

di Filippo Musumeci

  • Opera: La Lettrice” (“La Liseuse”)

– Anno:1874 – 76

– Tecnica: olio su tela,

– Dimensioni: 46,5 x 38,5 cm.

– Luogo di ubicazione: Parigi, Musée d’Orsay.

– Firmato in basso a sinistra: «Renoir». 1 L’opera fu acquistata da Gustave Caillebotte – amico di Renoir, pittore anch’egli nonché mecenate del movimento impressionista – che, assieme ad altri lavori acquistati dallo stesso in più occasioni per finanziare le attività del gruppo artistico al quale apparteneva, andò ad arricchire la sua prestigiosa collezione privata, generosamente donata, nel 1894, allo Stato francese. Esposta dapprima al Museo parigino du Luxembourg, passò nelle sale del Louvre e del Jeu de Paume prima di vedere la sua destinazione finale presso l’Orsay. Il motivo dell’opera, particolarmente in voga nella pittura francese settecentesca di genere, fu molto caro a Renoir e da questi affrontato più volte, quale sentito omaggio a un tema iconografico fra i più apprezzati dall’alta borghesia parigina. La modella della tela in oggetto – la stessa che posò per i dipinti “Femme au chat” (“Donna con gatto”, 1875), “La Jeune file au lilas” (“La ragazza in lilla”, 1877), “Jeune femme assise” – “La Pensée” (“Giovane donna seduta” – “Il Pensiero”, 1876-77), “Torse, effet de soleil” (“Torso, effetto del sole” – 1878), “Portrait dit de Margot (“Ritratto di Margot” – 1878) e, probabilmente, anche in “La Chevelure” (“La Chioma”, 1876) – nonostante non identificata con certezza, secondo il parere della critica potrebbe essere una delle tante habitué del “Caffè Guerbois” o de “La Nouvelle- Athénes”, locali di ritrovo e incontro degli artisti moderni. Tuttavia, alcuni hanno avanzato il nome di Marguerite Legrand, detta Margot, modella di Renoir dal 1875 e morta di febbre tifoide nel 1879. Secondo il parere degli studiosi, sarebbe lei la modella ritratta nel “Ballo al Moulin de la Galette” (1876) sulla sinistra nell’atto di ballare con il pittore cubano Pedro Vidal de Solares y Cárdenas. Lo scrittore e amico di Renoir, Georges Riviere (anch’egli posò nel “Ballo al Moulin de la Galette”, rappresentato sulla destra seduto attorno al tavolo assieme agli amici Frank Lamy e Norbert Goeneutte), autore del libro omonimo “Renoir”, riporta come Renoir ammirasse Margot per il colorito della pelle: “Aveva una pelle che rifletteva la luce”.

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Sono questi gli anni in cui Renoir, già trentenne, si concentra su figure femminili d’interno, intente alla lettura o emotivamente coinvolte nello sfavillio mondano offerto dalla Parigi di fine secolo, trasponendo nelle tonalità dorate della luce artificiale a gas, il riflesso vivace e cangiante del nuovo stile. Nelle scene fissate sulla tela si respira tutta la leggerezza, la viviacità e il brio di tutta una città in perenne mutamento e movimento, che ha scoperto il sapore e il fragore della notte, ove le classi sociali si mescolano nel perpetuo andirivieni lungo i boulevards. L’opera appartiene a un periodo fecondo dell’artista: i colori impiegati sono simili a quelli di opere divenute nel tempo tra le più celebri della sua nutrita produzione, come “L’altalena” e “Le Moulin de la Galette”, entrambe del 1876. Il mezzo busto scorciato della ragazza, nella sua inquadratura ravvicinata e convenzionale, è illuminato da un fascio di luce proveniente dall’apertura (porta o finestra) posta sulla destra (alla sinistra dell’osservatore) che ne investe incisivamente il profilo destro dalla delicatezza sentita e la folta chioma biondo – ramato dei capelli, per riflettersi, poi, sulle pagine aperte del libro. In quest’ultimo accessorio si scorge il contributo di maggiore originalità dell’opera, concretizzato dal forte contrasto tra il chiarore illuminato del viso e le note scure blu-violacee della veste e della copertina cartonata, ove brillano incandenscenti sfumature rossastre. Ne risulta un contegno squisitamente sobrio per mezzo del quale ne percepiamo istantaneamente la profonda intensità psicologica che pervada l’intera figura borghese, esaltata dal colorito roseo delle gote, dal rosso brillante delle labbra, dallo jabot rosa nel quale è sprofondato il mento e dalle due semplici linee nere tracciate sul volto per rendere la dolce espressione degli occhi profondamente assorti nella lettura.E l’abbandono nel piacere di questa attività intellettuale è tale da non avvedersi (fosse solo per pochi attimi) di essere scrutata nell’imperturbabile freschezza dei suoi anni dallo sguardo, ora fuggente, ora vigile, dell’osservatore. L’intima atmosfera e il vago erotismo emanati dalla scena sono esaltati da una morbida luce soffusa, frutto di un calcolato dosaggio di colori caldi e freddi stesi mediante pennellate dense, rapide e virgolettate che sfaldano le superfici cromatiche e, eludendo i particolari fisionomici, assorbono i volumi plastici nello sfondo indefinito e chiuso dello spazio (forse un café) entro il quale i gesti transitori dell’azione sono congelati in una visione come sospesa e senza tempo. Con questo ritratto di donna ignota, francese, reale, moderna, Renoir ridefinisce il nuovo “femminino” romanzato dalla scuola naturalista di Emile Zola ed Edmond Duranty e osannato dai contemporanei. E su “La vie moderne”, il giornale al quale collabora, il pittore proclama il suo slogan: «Sì, voglio dipingere la vera regina della vita moderna, la Parigina».

Non ebbe torto il grande Marcel Proust quando dichiarò che: «Noi adoriamo le donne di Renoir. […] Per la strada passeggiano donne diverse da quelle del passato, diverse perché sono opere di Renoir sulle cui tele un tempo ci rifiutavamo di vedere delle donne. È questo il nuovo e fragile universo che è appena stato creato».

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“LES YEUX CLOS” (“GLI OCCHI CHIUSI”) di ODILON REDON

“LES YEUX CLOS” (“GLI OCCHI CHIUSI”) di ODILON REDON

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Les yeux clos” (“Gli occhi chiusi”)
    – Anno: 1890
    – Tecnica: olio su tela fissata su cartone
    – Dimensioni: 44 x 36 cm.
    – Luogo di ubicazione: Parigi, Musée d’Orsay

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Soprannominato da Joris – Karl Huysmans: «Principe dei sogni misteriosi, paesaggista delle acque sotterranee e dei deserti sconvolti dalla lava», Odilon Redon è il massimo rappresentante dell’estetica simbolista francese; l’esploratore del regno dell’immaginario e dell’indeterminato. Concepisce la pittura come la visualizzazione dell’inconscio così come si presenta nel sogno, quando le immagini e le sensazioni, pur avendo attinenza con la realtà quotidiana, sfuggono al controllo razionale e si organizzano secondo legami estranei alla logica, ma, forse, più autentici.

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Il suo percorso dai disegni a carboncino e le litografie alla pittura a olio e al pastello – dal dominio assoluto del nero inquieto alla fioritura di un colore fulgido, sontuoso, irradiante – può essere letto in chiave psicoanalitica come un processo di “individuazione” in senso junghiano, cioè quella ricerca del Sé come integrazione tra personalità conscia e inconscia che costituisce per l’individuo, secondo lo psicanalista svizzero, la meta di pienezza che oltrepassa l’unilateralità della vita. C’è infatti una singolare e netta distinzione, nell’opera di Redon, tra una prima fase esclusivamente in nero, che dura un paio di decenni e dove il colore viene sperimentato solo in alcuni piccoli dipinti che restano privati, e una seconda fase, dal 1890 ca. fino alla sua morte avvenuta il 6 luglio 1916, dove l’elemento cromatico si fa invece protagonista assoluto esiliando il nero, che lo stesso artista confesserà di essere ormai incapace di usare. Nell’ultimo decennio del secolo, infatti, si verificò un mutamento fondamentale nella produzione artistica del pittore.
Redon era ormai prossimo ai cinquant’anni; tre anni prima (il 27 novembre 1886), il primo figlio, Jean, nato dopo sette anni di matrimonio era morto all’età di sei mesi. L’artista scrisse alcune pagine commoventemente autorivelatrici a proposito dei vincoli emozionali determinati dalla paternità. Teniamo presente che il suo matrimonio, riprendendo le sue stesse parole, era stato fondato su di «una credenza anche più assoluta di quella riguardante la mia vocazione». Adesso, con la nascita del secondo figlio, Arï, avvenuta il 30 aprile 1889, due anni e mezzo di lutto parevano quasi svanire.
«È troppo bello!», scrisse il pittore alla madre. L’esclamazione fa capire quanto egli fosse ansioso; ma quando in ottobre, i cruciali primi sei mesi furono passati, le sue paure cominciarono a dissolversi. L’evento assunse un significato ancora più grande perché la prima infanzia dell’artista era stata caratterizzata da uno stato di desolazione emotiva, e il senso di conferma che solo un figlio è in grado di dare era arrivato con molto ritardo. Le parole stesse dell’artista confermano l’impatto che l’avvenimento doveva avere sul suo sviluppo personale e artistico.
Il colore appare, dunque, come l’approdo salvifico dopo la discesa agli inferi, la conquista di una regione aurorale che sconfigge la notte e il caos, la riconciliazione infine con la vita. Ad accomunare i due periodi, il ricorso sistematico all’ambiguità formale e semantica, l’amore per tutto ciò che è vago, soffuso, indefinito. Per questo il singolare cammino di Redon, dal nero della notte verso la luce del giorno, può essere letto in chiave psicoanalitica come la parabola esistenziale di un artista che attraverso lo strumento oggettivante e guaritore dell’arte supera i propri traumi, ma può anche essere considerato come un’avventura mistica, un pellegrinaggio dell’anima attraverso le tenebre e l’ignoto verso la comprensione spirituale del mistero.
Il dipinto “Les yeux clos” (Gli occhi Chiusi), realizzato nel 1890 (e tra le rare datate dal pittore), segna una svolta nella produzione artistica dell’artista, il cui soggetto sarà trattato dallo stesso in più versioni (frontali e di profilo), anche litografiche, negli anni seguenti. Nonostante sia stata definita anni dopo dall’artista «un po’ grigia», è qui che lo stesso comicia a impiegare caldi toni cromatici per soggesti simbolisti, (senza, tuttavia, abbandonare i “neri”) e sempre qui è possibile ritrovare il sobrio fonte battesimale della rinascita; l’opera che prelude alla riconversione al colore.

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Fu la prima delle opere del pittore acquistate dallo Stato francese nel 1904 per le collezione del Museo del Lussemburgo e oggi custodito all’Orsay di Parigi. Tale evento ebbe un indiscutibile valore simbolico per l’artista stesso il quale, comprendendo a fondo quanto la patria si fosse finalmente accorto della sua arte, commentò: «Questa è una notizia che mi rende felice…per quei pochi fedeli che mi hanno sostenuto nei periodi difficili».

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I tratti della modella sono stati identificati con quelli di Camille Faulte: la donna sposata dieci anni prima e che adesso gli dava un altro figlio, dissipando pian piano le antiche ossessioni inflitte dalla perdita del primogenito, Jean, e conducendolo per mano alla conquista della serenità interiore e artistica. Si tratta, comunque, di un processo d’idealizzazione della donna succitata e non di resa fedele del reale, poiché un attento confronto di alcuni ritratti di Camille realizzati dall’artista permettono di riscontrare sostanziali relativi al profilo del naso e al collo, decisamente mascolino nel dipinto in questione.
Nasce, piuttosto, dal ricordo dello Schiavo morente di Michelangelo – a sua volta derivato dal volto esanime del Cristo nella Deposizione nel sepolcro di Londra dello stesso “divin maestro”– lungamente ammirato al Louvre dall’artista francese. Nel maggio del 1888, Redon afferma: «Sotto gli occhi del suo prigione, quanta elevatissima attività della mente! Dorme, e il sogno inquieto che scorre sotto quella fronte di marmo ci trasporta in un mondo commovente e riflessivo» (“A soi – même” – A se stesso, 1912).

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Il volto inclinato, assorto, con le palpebre chiuse per accogliere la venuta del pensiero, sorge dalle acque chiare dove si rispecchia la luce dell’alba in un’atmosfera sospesa, soave, rarefatta, in cui prende vita e si rafforza la spiritualità dell’essere e il suo trionfo sulla rigida materia mediante morbide pennellate stese a strati velati di colore inconsistente, vaporoso e impalpabile, memore dello sfumato leonardesco nella smaterializzazione e indeterminatezza delle superfici anatomiche.
Alzando il volto oltre una fascia che forma la linea di orizzonte in primo piano, Redon colloca l’immagine nell’universo del sogno: fine stesso della sua arte. In quel limbo senza confini, il volto non ha un sesso definito: si può identificarvi una variante del tema dell’androgino, così caro alla cultura fine secolo, ma in verità una consapevole ascesi porta da sempre Redon alla rappresentazione di figure asessuate o a una fusione di tratti maschili e femminili che oltrepassa i generi: questo volto, non di uomo né di donna, è l’involucro dell’anima, e somiglia alle diverse epifanie di Cristo dagli occhi chiusi presenti nell’opera redoniana, anche a concludere i cicli della Tentazione flaubertiana. Anima sia in senso spirituale che propriamente psichico, analoga alla plurima definizione che ne darà poi Jung: “più che rappresentare il morboso ideale ermafrodita, Redon allude al tema della dualità della coscienza, affidando al femminile la funzione di immagine interiore, annuncio di totalità e redenzione” (Eva Di Stefano).
Non a caso, giustificò la sua arte scrivendo: «Ho fatto un’arte interamente mia, con gli occhi aperti sulle meraviglie del mondo visibile e con la preoccupazione costante (qualsiasi cosa se ne sia detta) di obbedire ai principi della natura e della vita» (“A soi – même” – A se stesso, 1912).

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