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Ho sposato umilmente la causa della Storia dell'Arte per la primaria necessità di nobilitare il mio animo e conferirgli degnamente respiro. M'impegno quotidianamente, con i miei indiscussi limiti del caso, di trasmettere sentitamente ai miei simili, che la vita ha nominato miei interlocutori, non tanto il sapere, bensì l'amore per il sapere. E' l'unico patrimonio di cui dispongo al momento.

GIOVANNI IUDICE. IL LIRICO RESPIRO DELL’INTIMITÁ

GIOVANNI IUDICE. IL LIRICO RESPIRO DELL’INTIMITÁ

 di Filippo Musumeci

-Autore: Giovanni Iudice

-Opera: Seduta di fronte 

-Anno: 2004

-Tecnica: olio su tela

-Dimensioni: 60 x 30 cm.

-Ubicazione: Liguria, collezione privata

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«Dipingo per il pubblico, non per assecondarne i gusti. Che una mia opera piaccia o meno, importa poco. Ho però, in quanto artista, la responsabilità di mostrare a chi frequenta il mio lavoro il mondo per come lo vedo io». (Giovanni Iudice)

E io quel mondo l’ho visto, indagato, compreso. Ne ho assaporato ogni salmastra sfumatura, la ciclica matrice della sua natura; dei soggetti la forza evocativa, dei contenuti l’etica partitura. Dai disegni agli oli su tela, passando dalle dimesse scene di interni agli scorci dei paesaggi urbani, dalle intime sensualità dei nudi alle suggestive marine mediterranee, dai bagnanti del litorale gelese agli immigrati clandestini approdati sull’isola con tutto il carico del loro triste dramma. Eleggerne una piuttosto che un’altra, in un ventennio e oltre di attività figurativa, è una facoltà di cui non intendo avvalermi pur di non arrecar torto a nessuna delle opere partorite dal pennello del pittore siciliano.

Tuttavia, Iudice è inconsapevolmente artefice di un tormento che non mi dà pace.

Egli afferma che: «le opere sono come finestre, squarci aperti sul reale. Sono anzi delle realtà nuove, delle creature autonome paragonabili alle nostre fantasie».

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E dalla sua fantasia nacque un’incantevole creatura che divorò da principio il mio sguardo e su di sé riversò devote attenzioni. Musa e modella di altri squisiti lavori, la figura è trasfigurata dallo stesso autore in una forma chiusa di struttura plastica, abilmente levigata e resa angelica da macchie di luce ambrate entro una cubatura spaziale maiolicata di cui avverto al tatto la sua lucida freddezza.
Il suo ripiegamento intimistico mi riporta ai nudi mitologici di Hippolyte Flandrin, allo spirito romantico in cui l’io si estrinseca e rivela senza indugi la propria identità.

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Ma il languore melanconico di metà Ottocento è riletto da Iudice con nuova linfa mediante la frontalità proposta del soggetto, il quale si mostra agli sguardi altrui per fuggire l’oblio, componendo ciò che si attende: il lirico respiro dell’intimità.
A ciascuno la sua “Monnalisa!” Poiché di vivida ossessione si tratta e d’ignota vocazione si narra.

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Per ignote vie un’opera, a dispetto d’una sua simile, s’impone e si annida nell’umano ventre; lo colonizza e certa ne traccia l’umore come in un campo il suo fertile seme.

E del suo soggetto s’ignara la scintilla primordiale che ne diede forma; l’idea ancestrale che ne segnò l’ora.

Nulla so di Lei: il nome, la mente, il cuore; la voce, l’epidermide, l’odore.

Eppur di Lei ne percepisco ogni leggiadro sibilo, ogni sospiro effimero.

Lei non sa d’esser spiata furtiva e che al dì memore resto ancora della sua lunga scia.

Lei non sa della brama ardente che commossa si muove in petto; dell’ermetico sigillo che serafico non confesso.

Lei non sa d’essere amata per quel roseo viso, che è il mio diletto, e per il quale silente compongo ogni lirico pensiero.

Iudice ebbe il dono della grafia; forgiò le tue membra dando loro vita.

Iudice definì il tuo corpo senza inganno; lo modellò con tocco velato fissando ogni più fedele dettaglio.

Entro un virginale ventre la tua posa, che di gaudiosa essenza n’è l’eterna dimora; entro geometrica ellisse sei sospesa, pura e nobile come una perla.

Non ti neghi, non ti nascondi, invero ti offri e t’imponi.

E l’umido ambiente ove sei ospitata nell’intimo maniero in mia visione si plasma, e ivi regni qual amata sovrana.

Iudice ponderò tinte cangianti per rilevarti in volume; ti accarezzò col tepore del suo particolare lume.

Iudice fissò l’estro del suo genio nei tuoi occhi; ne accese le oscure iridi come abissi profondi.

Prigioniero di cotanta alchimia, dunque, sono affetto e vergogna alcuna non desto al decantato tuo cospetto.

Fosti mia per labili attimi, fui tuo per cadenzati palpiti.

Mi lasciasti nudo d’ogni speme, ti lasciai contrito come atto di fede.

Non fui vittima di sterile ira, non fosti rea d’innocente pena.

Iudice già previde della sua arte l’effetto; la sostanza manifesta d’ogni vibrante zelo.

L’intimità che si apre al suo lirico respiro è, in cuor mio, “Seduta di fronte”: ne avverto come in quell’acerbo tempo il carezzevole battito sotto l’incarnata cromia e per una volta soltanto ancora desisto e torna ad esser mia.

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“IL GIOIELLO DELLA CORONA SACRA”: LA BADIA DI S. AGATA DI GIOVAN BATTISTA VACCARINI

“IL GIOIELLO DELLA CORONA SACRA”

LA BADIA DI S. AGATA A CATANIA: PRODIGIOSA COMPENETRAZIONE TRA STRUTTURA E DECORAZIONE, RETTA E CURVA, MECCANICA E POESIA, MATURATA DAL GENIO CREATIVO DI GIOVAN BATTISTA VACCARINI.

di Filippo Musumeci

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«L’architettura tardobarocca più viva e smagliante d’Italia si trova in Sicilia» (Christian Norberg-Schulz)

Era il giugno 2002 quando l’UNESCO iscrisse nella prestigiosa “World Heritage List”, dichiarandole Patrimonio dell’Umanità, otto città siciliane tardobarocche post-terremoto 1693 site nel distretto insulare sud-est, meglio conosciuto come il Val di Noto: Noto, Palazzolo Acreide, Ragusa Ibla, Modica, Scicli, Caltagirone, Militello in Val di Catania e Catania; e nel 2005 si aggiungerà all’elenco anche Siracusa, per un totale di nove comuni.

UNESCO

L’UNESCO motivò la scelta riconoscendo che «Le otto città del sud-est della Sicilia: Caltagirone, Militello in Val di Catania, Catania, Modica, Noto, Palazzolo, Ragusa e Scicli furono ricostruite dopo il 1693, nello stesso luogo o vicino alle città esistenti al tempo del terremoto di quell’anno. Esse rappresentano una considerabile impresa collettiva, portata con successo ad un alto livello di architettura e compimento artistico. Custodite all’interno del tardo Barocco, esse descrivono pure particolari innovazioni nella progettazione urbanistica e nella costruzione di città»

Furono quattro su dieci i criteri adottati dall’UNESCO per l’iscrizione del Val di Noto nel Patrimonio dell’Umanità:

(Criterio I) «Questo gruppo di città del sud-est della Sicilia fornisce una notevole testimonianza del genio esuberante dell’arte e dell’architettura del tardo Barocco».

(Criterio II) «Le città del Val di Noto rappresentano l’apice e la fioritura finale dell’arte Barocca in Europa».

(Criterio IV) «L’eccezionale qualità dell’arte e dell’architettura del tardo Barocco del Val di Noto la posizionano in una omogeneità geografica e cronologica, così come la sua ricchezza è il risultato del terremoto, in questa zona, del 1693».

(Criterio V) «Le otto città del sud-est della Sicilia che hanno presentato questa richiesta sono l’esempio di sistemazione urbanistica in questa zona permanentemente a rischio di terremoti ed eruzioni da parte dell’Etna».

Non a caso, affinché un sito possa essere riconosciuto di “valore universale eccezionale” occorre che esso corrisponda almeno a uno dei dieci criteri approvati e richiesti direttamente dal Comitato Scientifico Internazionale:

  1. Rappresentare un capolavoro del genio creativo dell’uomo;
  2. Mostrare un importante interscambio di valori umani, in un lungo arco temporale o all’interno di un’area culturale del mondo, sugli sviluppi nell’architettura, nella tecnologia, nelle arti monumentali, nella pianificazione urbana e nel disegno del paesaggio;
  3. Essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa;
  4. Costituire un esempio straordinario di una tipologia edilizia, di un insieme architettonico o tecnologico, o di un paesaggio, che illustri uno o più importanti fasi nella storia umana;
  5. Essere un esempio eccezionale di un insediamento umano tradizionale, dell’utilizzo di risorse territoriali o marine, rappresentativo di una cultura (o più culture), o dell’interazione dell’uomo con l’ambiente, soprattutto quando lo stesso è divenuto vulnerabile per effetto di trasformazioni irreversibili;
  6. Essere direttamente o materialmente associati con avvenimenti o tradizioni viventi, idee o credenze, opere artistiche o letterarie, dotate di un significato universale eccezionale. (Il Comitato reputa che questo criterio dovrebbe essere utilizzato in associazione con altri criteri).
  7. Presentare fenomeni naturali eccezionali o aree di eccezionale bellezza naturale o importanza estetica;
  8. Costituire una testimonianza straordinaria dei principali periodi dell’evoluzione della terra, comprese testimonianze di vita, di processi geologici in atto nello sviluppo delle caratteristiche fisiche della superficie terrestre o di caratteristiche geomorfiche o fisiografiche significative;
  9. Costituire esempi rappresentativi di importanti processi ecologici e biologici in atto nell’evoluzione e nello sviluppo di ecosistemi e di ambienti vegetali e animali terrestri, di acqua dolce, costieri e marini;
  10. Presentare gli habitat naturali più importanti e più significativi, adatti per la conservazione in-situ della diversità biologica, compresi quelli in cui sopravvivono specie minacciate di eccezionale valore universale dal punto di vista della scienza o della conservazione.

Ciò significa che l’interscambio di valori culturali che si concretizzò in quello straordinario sforzo corale di rinascita urbanistica fu pianificato con unità di tempi e modelli, presentandosi nel panorama europeo come il più singolare esempio di cantiere collettivo di ingegni: architetti, maestranze e committenze uniti in un’irripetibile azione di omogeneità di riedificazione e rinnovamento strutturale delle aree interessate, quale specchio della magnificenza teatrale barocca.

Tra i monumenti degni di onore – a me particolarmente cari perché legati alla memoria di aneddoti “formativi” vissuti personalmente quando “beltà e giovinezza splendeano”, e che non sto qui a sciorinare – di uno si vuol proporre in codesta sede la genesi: la Badia di Sant’Agata a Catania, concordemente riconosciuta dalla storiografia come il capolavoro per eccellenza del genio creativo di Giovan Battista Vaccarini, architetto palermitano e massimo protagonista della rinascita urbanistica del capoluogo etneo.

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Definito nel 1934 da Francesco Fichera: «il più bel gioiello della corona sacra che il Vaccarini impose alla giovine città, nel cui ambiente si era già immedesimato»[1], le motivazioni alla base di tale scelta possono riassumersi nei seguenti punti:

  1. lo scopo di decodificare il linguaggio compositivo di un artista di riconosciuta fama e importanza per l’arte settecentesca siciliana, seppur non degnamente attenzionato dalla critica contemporanea;
  2. il significato altamente liturgico-simbolico del monumento (la rievocazione e glorificazione delle eroiche sacre virtù della Santa Patrona Sant’ Agata Vergine e Martire catanese) espresso attraverso l’impiego dei materiali adoperati, l’impaginazione nonché l’articolazione dei volumi nello spazio.
  3. l’omogeneità del processo ideativo ed esecutivo del sito.
  4. i ricordi personali d’un quinquennio vissuto quotidianamente entro le mura del tempio cristiano, radente alle statue e decorazioni; ai marmi e bianchi stucchi o in cima alla mole della cupola, da cui ebbi modo disparate volte di godere di un privilegiato punto di vista.

BIOGRAFIA DI GIOVAN BATTISTA VACCARINI

3 febbraio 1702: nasce a Palermo, figlio di Gerlando Vaccarini, abile ebanista vicino ai più rinomati architetti palermitani per le capacità di riprodurre in scala i modelli dei loro progetti.

1a formazione: ambiente familiare, biblioteche dei Gesuiti e Teatini, nobili famiglie del capoluogo siciliano.

2a formazione: maggiori architetti settecenteschi di scuola siciliana (Paolo e Giacomo Amato, Andrea Palma, Angelo Italia, Filippo Juvarra) romana (Francesco Borromini, Carlo Fontana, Pietro da Cortona, Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga, Nicolò Salvi, Francesco De Sanctis); veneta (Andrea Palladio); plasticismo e maestria realizzativa di Giacomo Serpotta.

1720-30: soggiorno romano presso la corte del Card. Pietro Ottoboni (1667-1740).

1730: si trasferisce a Catania, ove ricoprirà, sin dallo stesso anno, le cariche di Canonico Secondario della Cattedrale e Soprintendente nell’Almo Studio (Palazzo Universitario).

1730-50: massimo protagonista della rinascita urbanistica post-terremoto della città etnea (p.zza Duomo, Cattedrale, Badia di S. Agata, piccola Badia di S. Benedetto, Chiese di S. Giuliano e dell’Ogninella, Monastero dei Benedettini, Collegi Cutelli e dei Gesuiti, Palazzi degli Elefanti, Universitario, S. Giuliano, Villarmosa o del Toscano, Valle, Nava).

28 novembre 1735: conferimento della cittadinanza onoraria e nomina ad architetto della città da parte del Senato catanese.

13 maggio 1736: laurea in filosofia e matematica presso l’Università degli Studi di Catania.

1745-49: cattedra di matematica dell’Almo Studio.

1750: si trasferisce a Palermo come architetto della Deputazione del Regno, lavorando al Palazzo di Villafranca a p.zza Bologni e all’interno della Chiesa S. Chiara.

11 marzo 1768: muore a Palermo e viene tumulato il giorno seguente nella Chiesa dei Crociferi in via Maqueda accanto alle tombe di Paolo e Giacomo Amato.

CRONOLOGIA E SCHEDA TECNICA DEL MONUMENTO

  • Località: Catania
  • Ubicazione: via Vittorio Emanuele (prospetto principale), angolo via Raddusa (prospetto laterale).
  • Progetto e data del disegno: 1735
  • Data di costruzione: 30 gennaio 1748 – 10 ottobre 1767.
  • Architetti: Giovan Battista Vaccarini (PA, 1702 – ivi, 11 marzo 1768); Giuseppe Domenico Palazzotto (ME, 1683 – 1770).
  • Incarico di progettazione: madre Abadessa, Maria Concezione Scammacca, e Moniali del Monastero S. Agata, Catania.
  • Materiali: pietra calcarea (esterni); intonaco bianco, decorazioni in stucco della medesima tinta, marmo giallo di Castronuovo (interni).
  • Superficie totale dei lotti: 24,20 (largh.); m. 39,50 (lungh.), ml. 16,00 (diametro cupola).
  • Distribuzione dei percorsi principali: impianto basilicale a pianta centrale, con asse longitudinale di maggiore lunghezza rispetto a quello trasversale, inscritta in un cerchio e coronata da cupola ad unica calotta costolonata, con tamburo di base cilindrica all’interno e ottagonale all’esterno.
  • Gestione: dal 1935 è affidata alle cure della “Pia Società San Paolo” fondata, dal Beato Don Giacomo Alberione (1884-71) nel 1914.
  • Modelli: Sant’Agnese in Agone (1652-72) e San Carlino alle Quattro Fontane (1634-80) di Francesco Borromini.

ANALISI ARCHITETTONICA E STILISTICA DEL MONUMENTO

Progettata ed edificata su commissione della Rev.da madre Abadessa, Maria Concezione Scammacca, e Moniali dell’omonimo Monastero, la Badia di S. Agata a Catania (1735-67) racchiude in sé la summa delle componenti stilistiche del suo autore, Giovan Battista Vaccarini: memore delle rivoluzionarie soluzioni architettoniche messe in atto da Francesco Borromini nella Capitale quasi un secolo prima, in special modo nella realizzazione delle Chiese di San Carlino alle Quattro Fontana (1634-80) e di S. Agnese in Agone (1652-72), tanto da identificare nelle stesse i due modelli diretti più insigni.

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Di rado è possibile rintracciare nel panorama architettonico barocco siciliano altri esempi di opere che seguano durante l’intera fase del proprio processo ideativo e realizzativo la direzione di un’unica mente coordinatrice, pur non tralasciando il notevole intervento sin dal 1750 (anno del ritorno dell’artista in patria, Palermo) del fedele discepolo Giuseppe Domenico Palazzotto, al quale, come già avvenuto in altre circostanze, Vaccarini diede l’arduo compito di continuare, come regia esecutiva, le sue ultime opere. Come ricorda ancora Fichera, si è davvero in presenza d’una «prodigiosa compenetrazione tra struttura e decorazione, retta e curva, meccanica e poesia»[2].

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L’impianto planimetrico del monumento a croce greca centrale presenta con un cerchio di ml 16,00 di diametro come figura base, a cui si aggregano secondo le bisettrici degli assi longitudinale e trasversale altri quattro cerchi formanti delle concavità, in ognuna delle quali è contenuto un altare. Nonostante l’impianto sia palesemente debitore di Sant’Agnese in Agone, Vaccarini altera l’estensione dell’asse longitudinale rispetto a quello trasversale, accentuando, in tal modo, il significato del percorso del fedele dall’ingresso all’altare principale e soddisfacendo, altresì, le esigenze di uno spazio sacrale destinato alla comunità claustrale, seppur, tuttavia, aperto al popolo praticante.

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«In questo modo essa si distaccava dal modello romano rainaldesco-cortoniano di S. Agnese, fondato sulla dilazione spaziale trasversale, in consonanza con gli intenti celebrativi richiesti dalla famiglia committente, la Pamphily, e con la maniera grande propria del barocco romano»[3]. L’abside semicircolare, posta a conclusione alle spalle dell’altare maggiore, sottolinea la predilezione per la spazialità semicilindrica adottata da Vaccarini e appresa dalle lezione veneta palladiana, ritenuta consona per allogare gli altari e per contenere le statue dei santi. «Una spazialità complessiva, contrassegnata da un sistema binario formato da una cellula spaziale primaria circolare, che costituisce l’ambiente destinato ai fedeli, alla quale si saldano otto cellule sempre spaziali, ma secondarie»[4], di cui le quattro rettilinee, disposte lungo gli assi longitudinale e traversale, sono destinate per sorreggere i matronei e contenere gli ingressi, l’altare principale ed il presbiterio; mentre le quattro cilindriche di diametro minore si aggregano lungo le bisettrici degli assi precedenti per contenere gli altari secondari.

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L’ordine architettonico deve la sua materializzazione alle colonne e paraste composite lisce aggettanti, disposte a definire il muro circolare del vaso chiesastico e la zona presbiteriale, quest’ultimo, punto focale della composizione come luogo della mensa di Cristo. Non manca la presenza di un ordine architettonico secondario costituito da colonne e pareste doriche, anch’esse lisce, di minore altezza a contrassegnare le zone di aggregazione delle cellule spaziali dipendenti, il cui collegamento visivo-dimensionale è affidato agli archi a tutto sesto e a tre centri, sorreggenti rispettivamente la cupola e le cantorie. Entrambi gli ordini sono realizzati quasi totalmente in muratura: i fusti completati ad intonaco bianco, i capitelli di decorazione in stucco della medesima tinta, la zoccolatura di rivestimento, le basi in lastre di marmo grigio di Billiemi.

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Il pavimento segue, nelle due tonalità bianco e grigio, un elaborato disegno, il quale, sviluppandosi a raggiera da un cerchio posto al centro dell’edificio, riproponendo la proiezione della lanterna, raggiunge le pareti. Il bianco, di matrice palladiana, è l’unica nota cromatica riservata alle strutture murarie ed architettoniche, il quale, con i suoi valori luministici, si presta adeguatamente a simboleggiare l’eterna presenza del divino nella propria dimora e l’atmosfera profondamente contemplativa del monastero. «Il bianco era quindi una scelta fondamentale per il Vaccarini, che dava la preferenza alla finitura più povera sulla scia del manierismo veneto passato poi, tramite Borromini, al classicismo barocco europeo; esso evidentemente contrastava con quella che affidava ai rivestimenti marmorei o agli affreschi o anche agli stucchi tinteggiati ad imitazione del marmo la intenzionalità di ricchezza e di teatralità da esibire ai fedeli»[5].

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Tuttavia, l’artista introduce elementi cromatici nelle decorazioni a scultura e nell’arredo in legno e metallo, in stretta dialettica con i temi geometrico-spaziali. Ne sono nobili testimoni gli altari, le statue e la parete della Crocifissione, sul lato destro del transetto, realizzati in marmo giallo di Castronuovo (PA), preferito, su consiglio del Vaccarini, persino da Luigi Vanvitelli per le colonne della Reggia di Caserta (1752-74). Tutta l’impostazione decorativa è fortemente allusiva e simbolica: la lavorazione della plastica a stucco nella rappresentazione di puttini, foglie e palme trova la sua peculiarità nell’impronta di un severo classicismo barocco, più sobrio rispetto alle forme dell’esuberanza più propriamente seicentesche; i temi sviluppati sulle targhe dedicatorie richiamano chiaramente, tramite la parola, la liturgia, analogamente a quelle poste sui piedistalli dell’ingresso principale alludenti allo Spirito Santo, all’Eucarestia, alla glorificazione di Dio Padre e della Patrona catanese, per la quale l’artista nutriva sincera devozione: «per la fervorosa devozione, che ha avuto, ha, e spera avere verso la Gloriosa Vergine e Martire S. Agata»[6]. La sommità della trabeazione continua, retta-spezzata-dentellata con mensole e cornici, è sormontata da una serie continua di candelabri in ferro battuto dorato collegati a gruppi tramite volute e festoni, collocati sull’imposta del tamburo, il cui antecedente è la corona in stucco e stilizzati motivi floreali posta dal Borromini sulla trabeazione interna della chiesa di San Carlino.

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L’intero spazio è concluso dalla prima cupola realizzata nella Catania post-terremoto 1693: ad unica calotta rivestita da piastrelle quadrate in terracotta smaltate (rimosse dagli ultimi interventi di restauro del 2007-08), con doppi costoloni semiellittici saldati all’elegante lanterna e tamburo di base cilindrica all’interno e ottagonale all’esterno. Questi è traforato da otto finestre ad arco ribassato e decorato da paraste d’angolo sormontate da trabeazione continua, a sua volta, questa, sormontata da balaustra di coronamento, con vasi decorativi. Il raccordo del cerchio d’imposta ai piani murati portanti l’ordine architettonico è riservato all’interno ai pennacchi sferici. La lanterna presenta un cupolino di coronamento collocato su trabeazione circolare e sorretto da colonne con capitello ionico; e il tutto completato da una sfera metallica sormontata da una croce latina in ferro battuto.

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La facciata, con l’accavallarsi di immagini, elementi architettonici e decorativi, è concepita con la funzione di quinta teatrale rispetto alla piazza del Duomo e alla strada che lambisce, è caratterizzata da un ordine gigante di pilastri poco aggettanti in pietra calcarea su una zoccolatura continua in pietra lavica, avente uno squisito capitello con palme e simboli dedicatori.

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L’andamento planimetrico del muro del prospetto presenta il gioco alternato di superfici convessa-concava-convessa, al primo ordine e tre volte concava al piano attico, memore della lezione borrominiana di San Carlino, imprimendo un ritmo movimento all’architettura.

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Il portale d’ingresso è compreso da due gruppi di colonne binate di marmo con piedistallo e trabeazione retta-spezzata, fungente da sostegno ad angeli e targhe decorative; al di sopra un’elegante finestra dal coronamento a frontone, anch’esso spezzato, e decorazione allusiva al martirio della Santa: M.S.S.H.D.E.P.L. (Mentem Santa Spontaneam Honorem Deo Et Patriae Liberationem).

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Originalissimi, poi, i timpani delle finestre laterali del prospetto principale con decorazioni in altorilievo raffiguranti le mammelle della Vergine Martire catanese e presentate al fedele entro un vassoio quale simbolo del martirio vissuto in nome della fede nel febbraio del 251 d.C.29

Tra capitello e capitello, lungo tutta la trabeazione conclusiva della facciata, corre una gelosia panciuta, poggiante su una frangia arabescata in pietra, evidente richiamo alla decorazione del Baldacchino di S. Pietro in Vaticano (1624-33). Le gelosie metalliche, realizzate in lamiera traforata secondo un originale disegno, nascondono ai lati della chiesa due vani quali le monache si concedevano di partecipare alle processioni svoltesi nelle immediate vicinanze, senza timore d’esser viste.

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Il coronamento del prospetto principale è costituito da una balaustra continua in pietra con andamento tre volte concavo, traforata a maglie intrecciate e sormontata da statue di Virtù, putti e vasi ornamentali.

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Il prospetto laterale, invece, dall’ampia spaziatura delle finestre, è composto al centro da un portale d’ingresso con soprastante finestra, ambedue delimitati da eleganti modanature e decorazioni anch’esse in pietra calcarea.

Il risultato di tutte le soluzioni apportate possedeva la finalità di costituire uno spazio architettonico, in cui i temi della glorificazione sacra e delle celebrazioni liturgiche trovassero in accordo con il budget economico messo a disposizione dell’artista, un’esaustiva risposta unitaria adatta alla sensibilità barocca del tempo. I lavori furono compiuti in un arco cronologico di 32 anni, come ricorda il documento redatto dalla madre Abadessa e datato 14 ottobre 1767:

“Avendosi dal Rev.mo Sac. D. D. Gio: Batta Vaccarini, Abbate al p.nte del SS.mo Salvatore della Placa di Francavilla e di San Filippo della Piana della città di Milazzo in qualità di Architetto del ven.le Mon.ro de Moniali di S. Agata Vergine e Martire di questa ch.ma e fid.ma città di Catania, piantati in quest’anno, sopra la nuova chiesa con suo prospetto di esso ven.le Mon.ro, la gran cubbola, e cubbolino fabbricati di pietra giurgiulena, e voltati senza aiuto, ed appoggio alcuno, seu voltati senza veruna forma, collocata di già (grazie all’alt.mo) sotto lì 10: del corrente Ott.bre giorno di sabbato dedicato alla Beat.ma Vergine Maria Madre di Dio, sovra la fine di esso cubbolino, al croce, che osservasi; avendo parimenti sud. Rev.mo Abbate di Vaccarini come Architetto dato la sua direzione al cennato ven.le Mon.ro  […]  E volendo la rev. Da Abbadessa e Moniali di sud. Ven.le Mon.ro, adempiere la sua obbligazione in rimunerare al divisato Rev.mo Abbate Vaccarini le sue fatiche, continua assistenza ed ogni altro dal medesimo Rev.mo Abbate adoperati, e prestati in tutto il tempo della costruzione, e collocazione di suddetti cubbola e cubbolino, perciò da d.a. Abbadessa, e Moniali suddette serioso congresso, e discorso col succennato Rev.mo Abbate Vaccarini, della rimunerazione dovutali;  […]  e siccome per il passato non solo si è tenuto contento, e soddisfatto (riguardo alla devozione, che sempre ha avuto, ha e spera avere come fedel cristiano verso la gloriosa Vergine, e Martire S. Agata, e pella benevolenza che ha sempre conservato, e conserva al Mon.ro sud.to) di quel tanto, che sud.to Mon.ro ha pagato al d.o Rev.mo Abbate Vaccarini per la costruzione, ed ogni altro di sudetta nuova chiesa edificata per il corso d’anni 32: circa;  […]  Intanto oggi il sudetto, pr.te innanzi a Noi il sud. Rev.mo Abbate D. D. Gio: Batta Vaccarini del SS.mo Salvatore della Placa di Francavilla, e di san Filippo della Piana di Milazzo, a me Not.o infr.tto conosciuto, spontaneamente (dichiarando prima, ed affermando con giur.to tutto l’anzidetto esser vero, anzi verissimo) in forza della pr.te disse, e confessa siccome dichiarò e dichiara di essere stato pienamente pagato, e soddisfatto dal sud.o ven.le Mon.ro dei Moniali di S. Agata Vergine e Martire di questa sud.a Città, e per esso dalla Re.da S.la Maria Concezione Scammacca come a presente Abb.a di esso ven.le Mon.ro  […]”[7].

A seguito dei recenti restauri, “il gioiello della Corona Sacra” è tornato a brillare, sfoggiando il sinuoso dinamismo delle sue nobili grazie: felice retaggio donato da un palermitano alla città adottiva, che sinceramente amò, impreziosendola di nuova fulgida veste da mostrare alle postume generazioni o a chi, per la prima volta o foss’anche l’ennesima, si trovi a volgere lo sguardo alla scenografica piazza su cui svetta il profilo del caro Elefante, che i catanesi chiamano affettuosamente “Liotru”, illustre emblema del popolo etneo.

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

BIBLIOGRAFIA 

[1] Francesco Fichera, G. B. Vaccarini, vol. I,  Roma, Reale Accademia d’Italia, 1934, p. 123.

[2] Ibidem.

[3] Salvatore Boscarino, Vaccarini architetto, Palermo, BAE, 1992, p. 43.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 46-47.

[6] Apoca dell’Arch. Don G. B. Vaccarini in favore del Monastero di S. Agata del 14 ottobre 1767, in  Francesco Fichera, Vaccarini architetto, ed. cit., p. 256.

[7] Apoca dell’Arch. Don G. B. Vaccarini in favore del Monastero di S. Agata del 14 ottobre 1767, in  Ivi, pp. 255-256.

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (PARTE QUARTA)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO”

(parte quarta)

“Madame la Baroness, Modern Medievalist”:

il genere della natura morta nell’arte di Tamara de Lempicka

 

di Filippo Musumeci

TAMARA

Come si è avuto già modo di ricordare nella parte prima e seconda di questo nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”, gli esordi dell’attività figurativa della Lempicka sono documentati da un giovanile “diario figurato” di deliziosi acquerelli adolescenziali con nature morte floreali: primo genere pittorico su cui l’artista testa la propria abilità nell’indagine di oggetti “messi in posa” alla maniera fiamminga.

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Questi acerbi esperimenti di soggetto floreali realizzati ad acquerello su carta risalgono al 1907, anno in cui la giovane Tamara Rosalia Gurwik Gorska aveva circa nove anni, e investigati con perentoria ricerca almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. È il caso delle nature morte floreali “Rose” e “Una rosa”, due splendidi dipinti del 1938 nei  quali la pittrice polacca mostra le sue straordinarie capacità tecniche e l’afflato del suo lirismo. Confrontando questi due soggetti con gli stessi d’età adolescenziale si comprende come l’evanescente fragilità delle rose ha subito un processo di trasfigurazione verso una nuova solida e levigata carnosità, astutamente amplificata dallo scuro sfondo monocromo di tradizione fiamminga.

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“Annaffierei le rose con le mie lacrime per sentire il dolore delle loro spine e il rosso bacio dei loro petali”, affermava lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez.

Tamara fedele alla tradizione, dunque, seppur riletta e rimpaginata per mezzo di una bagaglio creativo sostanzialmente inesauribile e di immediata grazia. Se in “Rose” si limita a riproporre il piano d’appoggio come da manuale, in “Una rosa”, si è spinta oltre, stavolta, immaginando lo stesso nell’insolita veste di scatolina (forse lignea o, perché no, cartonata) ricoperta da una leggera velina rosata di cui riporta persino la piega dell’angolo. I petali rosso-rosato di cui si vestono le due rosaceae sono manti di seta traslucidi di linee morbide e sinuose, sotto le quali si muove un corpo che pulsa di passione e ravviva ogni diletto umore. È un’ode sopra il suo nome, Rosalia, il cui significato etimologico è “corona di rose”; è un’ode sopra il simbolo di Venere, dea dell’amore, già cantato da Anacreonte tra il VI e il V sec. a.C.

Oggi vogl’io col canto

Lodar la rosa estiva,

E la stagion che avviva

L’erba novella e il fior.

Tu, mio tesoro, intanto,

Il canto mio seconda,

E facile risponda

A’ nostri carmi Amor.

Per l’odor suo gentile

Questo vermiglio fiore

È degli Dei l’amore.

Degli uomini il piacer.

E ognor che riede Aprile,

Le Grazie verginelle

Ornan di rose belle

Il vago crin leggier.

D’Amor la Genitrice

Sembra più bella in Cielo,

Se mai fra il roseo velo

Mostra l’eburneo sen.

Fin sull’Ascrea pendice

L’educan le Camene:

De’ canti d’Ippocrene

Soggetto ognor divien.

È dolce a chi raccoglie

Le rose porporine,

Sebben le ingrate spine

Gli pungano la man:

E a chi le molli foglie

Fra palma e palma asconde

Più grato odore altronde

Aspetta forse invan.

Si spargono le cene

Di rose delicate,

E son così più grate

Le rose al saggio ancor.

E quando il tempo riede

Sacro al buon Dio Tebano,

Si versa a piena mano

Nembo di rose allor.

Senza le vaghe rose,

Qual cosa è mai gradita?

Colle rosate dita

L’Alba colora il dì.

Le Najadi vezzose

Di rose hanno le braccia;

Di rose il sen la faccia

Venere ha pur così.

Ch’è di ristoro a’ mali

La rosa io so per prova,

E che incorrotti giova

Gli estinti a conservar.

Invan spiegando l’ali

Va il tempo sul suo verde,

Ch’ella l’odor non perde

De’ giorni al trapassar.

Or sull’istessa cetra

Io ridirò cantando,

Com’ella nacque, e quando

Già dal terren spuntò.

Quel dì, che in faccia all’etra

Sulla cerulea culla

Venere ancor fanciulla

L’onda del mar mostrò,

Quel dì, che Giove, armata,

Spettacolo giocondo,

Espose al Cielo al Mondo

La Diva del saper,

Allor si vide ornata

La terra del bel fiore,

Ch’è degli Dei l’amore

Degli uomini il piacer.

Allora i Numi a gara

La pianta avventurosa

D’ambrosia rugiadosa

Presero ad irrigar:

E al buon Lièo sì cara,

La rosa porporina

Sulla nativa spina

Si vide germogliar.

(Anacreonte, “Sopra la rosa”, Ode LIII)

Quest’atto di alta poesia sarà traslato in altre nature morte in cui le rose lasceranno il posto alle calle bianche di trasparenza vitrea entro vasi di cristallo, dalle medesime qualità trasparenti, accostati a una cornice lignea dorata con foto in bianco e nero e con una tenda rossa drappeggiata sullo sfondo. Qui, Tamara ripropone le sensuali sinfonie di rossi, verdi e bianchi già abilmente composte nei ritratti di modelli degli anni Trenta (e di cui si dirà nella parte settima).

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Il genere della natura morta adottato dalla Lempicka non si limita soltanto ai soggetti floreali, bensì coinvolge anche la realtà domestica nella sua più intima e ordinaria frugalità. Ne sono esempi eloquenti le opere “La caraffa Luigi Filippo” (1923), “Natura morta con mandarini (1925 circa), “Natura morta con cavolfiore” (1925), “Natura morta” (“Il macinacaffé” 1941 circa) e “Coppa di frutta I” (Frutta su fondo nero, 1949), ove la visione lenticolare di lezione fiamminga si traduce in una solidità di volumi e una struttura compositiva equilibrata, cui fanno eco i calibratissimi accostamenti cromatici. Come afferma Gioia Mori, queste nature morte «narrano un quotidiano lento a trascorrere, dove il tempo è segnato da pasti poveri, fatti di mandarini sbucciati, arance squillanti come raggi di sole, cavolfiori dalle foglie color petrolio già di durezza metallica». 

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L’attenta riflessione sulla mimesi fiamminga giungerà a saggi virtuosistici di trompe-l’oeil, come nel già citato “Il macinacaffè” del 1941, ove l’indiscusso e superbo spessore illusionistico è esplicitato dalla brocca da cucina, resa nei suoi diversi materiali costitutivi e stagliata contro la parete di compensato, nonché dall’espediente del bianco cartiglio tenuto fermo da uno spillo di antica memoria quattro-cinquecentesca. Un cartiglio autografato dalla pittrice solo nel 1954, come dimostrato dalla brochure della mostra alle Courvoisier-Galleries di San Francisco del 1941.

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In quell’occasione, Christopher Stull, recensore del “San Francisco Chronicle”, scriveva a proposito delle capacità tecniche della pittrice polacca «Nelle sue nature morte si diverte con la durezza del metallo, con la semi-durezza del legno». E persino quell’umile strumento domestico, nella denudata crudezza della sua natura, viene qualificato per mano della Lempicka grazie alla purezza delle linee e alla perfezione delle forme. Nonostante i meriti riconosciutile dalla critica, il gusto statunitense datato anni Quaranta etichettava le nature morte della baronessa anacronistiche, quando non obsolete, facendole guadagnare l’ironico titolo di “Mme La Baroness, Modern Medievalist”.

Ciò, tuttavia, non turbò i propositi dell’artista, che, anzi, insistette per tutto l’arco del decennio successivo nel recupero del “mestiere”, cimentandosi nel trompe-l’oeil di tavole ricoperte da drappeggi dalla consistenza serica su cui fanno mostra frutti maturi o bacati, madreperle translucide e conchiglie dalla carità eroica manifesta, come ne “La conchiglia”, sempre del 1941. Uno splendido olio su tela in cui su di un drappeggio a motivi floreali sono stati adagiati, confondendosi, due conchiglie, due perle, un rametto di corallo e un bicchiere di cristallo: oggetti che per insite raffinate qualità, nonché per caratteri allegorici, sono direttamente riconducibili alla baronessa Kuffner, alla sua seduttiva femminilità, al suo dirompente charme. La composizione è tutta giocata sui toni rosa-verde-grigio con i quali si dà forza ai volumi solidi e leggerezza ai tessuti, restituendo la translucenza cromatica del guscio madreperlaceo.

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Alla produzione degli anni Quaranta appartengono anche alcuni dipinti in cui il soggetto attenzionato è quello delle mani, le quali, come afferma sempre Gioia Mori, sono: «vaganti su fondi monocromi, fluttuanti frammenti di energia». Il 5 febbraio 1940 confessa al “Los Angeles Examiner” l’intenzione di organizzare un’antologica di nature morte con unico soggetto “le mani”, concretizzatasi, poi,  solo alla fine degli anni Quaranta quale contributo a un soggetto già condotto negli anni Venti da altri artisti europei, come la polacca Maryla Lednicka, scultrice e amica di Tamara, tra le prime a creare opere con sole “mani”. Il più delle volte, sono citazioni di opere celeberrime come per “Mani e fiori” del 1949, il cui soggetto è ripreso dalle mani del ritratto raffaellesco di “Maddalena Strozzi; altre volte, invece, sono più semplicemente frutto del genio creativo della pittrice stessa, come per “Chiave e mano” del 1946 e “Mano surrealista” del 1947: la cui lirica intonazione è testimone muto di quell’inesorabile monito del divenire: “Tempus fugit cave tibi” (“Il tempo passa inesorabile, fai attenzione”).

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Le cause di tale scelta sono da ricercare nella volontà di apportare migliorie nella resa di un particolare anatomico su cui sovente la critica aveva avanzato pareri poco lusinghieri, come nel caso di Berthélot, il quale nel 1931 ritenne severamente le mani forgiate dalla pittrice simili a elementi meccanici dalle giunture d’acciaio, parlando di difetti e malformazioni. Berthélot era in torto! Non comprese appieno il valore rivoluzionario di quelle figure modellate dalla Lempicka e il messaggio di quel “metallismo”, poi, invece, compreso e magnificamente illustrato da Giancarlo Marmori nel 1977. Attraverso un’opera di contestualizzazione, sono state scoperte da Gioia Mori straordinarie consonanze tra dipinti, sculture e fotografie dal soggetto succitato. Specie la fotografia trovò nei lavori degli anni Trenta di artisti tra i quali si ricordano Berenice Abbott, André Kertész, François Kollar, Dora Maar, Gisèle Freund e Thérèse Bonney i protagonisti di un nuovo genere che qualificava l’identità di un personaggio per mezzo delle sole “mani”, ritenute per la loro riconoscibile autenticità più vere e credibili del volto umano, non di rado celato da trucchi e maschere sociali. Tra le creazioni più significative si ricorda la poesia surrealista della “Mano-conchiglia” (1934) di Dora Maar, compagna di Picasso dal 1935 al 1944, e gli scatti dello sloveno François Kollar dedicati alle mani di celebri stiliste di mode come Suzy e Agnès ed Elsa Schiaparelli.

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Alle “mani” la Lempicka, rispetto ai suoi colleghi, ha aggiunto il “calore dell’evocazione”: «se infatti nelle foto il resto del corpo viene suggerito da un ‘ombra, un dettaglio, nei dipinti della Lempicka le mani sembrano i frammenti spaesati e vaganti di un corpo dissolto, muti depositari di emozioni e sentimenti» (Gioia Mori).

P.S. Vi diamo appuntamento alla parte quinta del nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

BIBLIOGRAFIA

Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (PARTE TERZA)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO

(parte terza) 

“Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”:

l’ultima dimora parigina, il secondo soggiorno negli State

e il rifugio messicano.

 (1940-80)  

di Filippo Musumeci

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A seguito del primo soggiorno negli State negli anni 1929-31, la Lempicka decide di cambiare residenza parigina, acquistando una nuova abitazione-atelier nel palazzo progettato dall’architetto modernista Robert Mallet-Stevens al n.7 di rue Méchain. Si tratta di un grande appartamento che l’artista abiterà fino al 1939 (e, saltuariamente, dopo il secondo conflitto mondiale fino al 1976) e per i cui interni la stessa chiamò all’opera la sorella Adrienne Gorska, ormai, affermato architetto di fama europea, specie per l’ideazione di una quindicina di Cinéac: un circuito di moderne sale cinema funzionali munite di acciaio e neon, esaltate dalla stampa e pubblicate su riviste specializzate. Il nuovo spazio della Lempicka fu immaginato dalla sorella Adrienne freddo, con tubi di cromo a vista, tavolo in acciaio e silite nera, tavolini di Djo Bourgeois, sedie di René Herbst, luci di Perzel, sculture dei fratelli Martel e Chana Orloff, amica di Tamara, ed elementi di riscaldamento Mécano, definiti ultramoderni.

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Ciò è documentato dalla serie di scatti fotografici della casa-atelier realizzati di Thérèse Bonney nel 1930 circa, oltre che da un filmato eccezionale di un minuto e trenta secondi dal titolo “Un bel atelier moderne”, girato da Pathé e proiettato il 16 novembre 1932, ove Tamara appare impegnata nella realizzazione dello studio preparatorio di un ritratto della cantante, modella e amante Susy Rocher Solidor con sullo sfondo gli interni dall’anima modernista, testimone di incantevoli creazioni pittoriche come Ragazza di verde, Adamo ed Eva e il Ritratto di Marjorie Ferry.

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Il 1939 segna il ritorno negli State per una nuova avventura artistica costellata di successi e riconoscimenti. Dalla capitale francese sbarca a Cuba e da qui, attraverso Miami, approda nella Grande Mela, ove l’artista terrà un’antologica alla Renhardt Galleries dal 2 al 23 maggio. Negli anni 1940-42 Tamara e il secondo marito, Raoul Kuffner de Dioszegh, dimoreranno al 1141 Tower Road di Beverly Hills, nella villa, presa in affitto, di King Vidor, il regista del film di guerra La grande parata del 1925. Un luogo magico, in vetta alla collina, progettato dall’architetto Wallace Neff per volere della seconda moglie del regista, l’attrice Eleanore Bordman. Qui la coppia darà vita a party memorabili, a volte di 200 invitati, ai quali parteciperanno glorie del cinema americano e polacco.

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Ma, come si è avuto modo di comprendere, lo spirito cosmopolita della polacca non poteva permettere che un’artista del suo calibro divenisse sedentaria e si fossilizzasse nelle mura di una dimora, seppur stellata, come Villa Vidor. Già il 17 luglio del 1942 il “New York Times” titola l’annuncio dell’acquisto da parte del barone Kuffner di un nuovo appartamento al 322 East 57th Street per 240.000 dollari. Si tratta di un “duplex” con vista sull’East River, ovvero di due piani, al sesto e settimo, con sei stanze e tre bagni. Gli interni saranno arredati dalla Lempicka con i mobili provenienti dal castello di Dioszegh in Ungheria del barone e venduto nel 1939. Mobili intagliati e intarsiati Biedermeier i italiani dipinti di bianco dall’artista stessa per coprire le originarie dorature degli specchi, dei tavoli e delle sedie e adattarli, in tal modo, alle grigio elefante delle pareti.

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Si nota, dunque, la rinuncia di Tamara e del marito alla fredda funzionalità modernista di rue Méchain e la neonata passione per le tappezzerie colorate in velluto o satin e per le cornici rocaille, presenti in dipinti con nature morte o in ritratti del marito dello stesso periodo. È l’esempio di Ritratto del barone Kuffner in poltrona del 1954, in cui il marito è ritratto in abito grigio e gilet, seduto in poltrona bianca laccata, con catenina d’oro di orologio, anello nobiliare al mignolo sinistro e baffi alla Francesco Giuseppe.

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Dopo il secondo conflitto mondiale i Kuffner torneranno più volte l’anno nella casa parigina di rue Méchain, in cui la polacca posa per gli scatti del celebre fotografo di moda Willy Maywald: vestita in sontuoso abito lungo davanti a un cavaletto; come un fantasma armato di candeliere in una stanza di gessi, tra i cui l’Ermes e l’Afrodite Cnidia di Prassitele, anche questo ripreso in diverse nature morte degli anni Quaranta-Cinquanta, come quello del Museo di Plock.

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Gli anni Sessanta saranno quelli dell’allontanamento della pittrice dalla vita artista e il suo continuo vagabondaggio tra Europa e Stati Uniti, tra Parigi e i lussuosi alberghi di Capri e Venezia in Italia, divenendo ben presto tra le maggiori rappresentanti di quel “jet set” internazionale alimentato da aristocratici, industriali e personalità note della cronaca rosa. Lo stesso termine di “jet set” era stato coniato da un amico della Lempicka, Igor Cassini (fratello del celebre stilista Oleg), il quale aveva fondato la rubrica di gossip sul “New York Journal-American”. E tutto questo proseguirà anche oltre il 3 novembre1961, giorno della morte del barone Kuffner durante l’attraversata oceanica di ritorno dall’Europa. Questi venne sepolto in mare, anche se l’annuncio fu dato solo il 22 novembre sul “New York Times”, ma la Lempicka non si fermò neppure dinanzi questo dolore: due giorni dopo, il 24 novembre, inaugurava un mostra alla Iolas Gallery di New York.

Nel 1976 si compiva l’ultima tappa nel rifugio messicano di Cuernavaca, ove visse gli ultimi quattro anni della sua lunga esistenza con il giovane artista e compagno Victor Manuel Contreras. Una villa in stile giapponese, immersa tra palme e bambù, con un piccolo atelier in cui la Tamara si dilettava a ripetere i soggetti che le diedero la gloria planetaria, e qui si spense quel 18 marzo 1980 all’età, pare, di 82 anni. Non fece in tempo a vedere il volume progettato da lei stessa sin dal 1978 e pubblicato a Tokio con introduzione di Eiko Ishioka e curato dal conservatore del Louvre Germaine Bazin.

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Fu solo l’inizio di un’infinita serie di pubblicazioni dedicate alla pittrice polacca e al “mito” che lei stessa aveva contribuito pienamente a costruire.

 P.S. Vi diamo appuntamento alla pubblicazione della parte quarta del nostro omaggio alla Regina dell’Art Déco.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

BIBLIOGRAFIA

Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (PARTE SECONDA)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DECÓ”

(parte seconda) 

“Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”:

l’infanzia a San Pietroburgo, gli esordi parigini

e il primo soggiorno negli State.

 (1910-1929)

di Filippo Musumeci

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L’anno è il 1910 e il luogo San Pietroburgo. Questo l’anno e questo l’insigne palcoscenico, custode dell’Ermitage e dell’Accademia Imperiale russa di Belle Arti, ove l’appena dodicenne Tamara Rosalia Gurwik-Gorska mosse i primi passi del suo precoce talento artistico, documentato da quel “diario figurato” di deliziosi acquerelli adolescenziali con nature morte floreali (di cui si dirà nel quarto articolo dedicato all’artista).

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Ospite, assieme alla madre Malvina e alla sorella Adrienne, della zia materna Stefa e del marito Maurice Stifter, direttore di una succursale del Crédit Lyonnais, Tamara conduce una vita mondana tra feste in maschera e cene con i membri della famiglia reale Poniatowski. E fu proprio in una di queste feste aperte all’alta società russa che la giovane artista (per l’occasione vestita da contadina polacca con oca al guinzaglio) conobbe nel 1911 il nobile avvocato polacco, Tadeusz Lempicki Junozsa, che cinque anni più tardi, nel 1916, avrebbe sposato in prime nozze nella Cappella dei Cavalieri di Malta della stessa città, ribattezzata nel 1914 Pietrogrado. Appena pochi mesi dopo il matrimonio la nascita in quel 16 settembre della loro unica figlia, Marie Christine, detta Kizette (di cui si dirà nel quinto articolo).

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A seguito della Rivoluzione d’Ottobre nel febbraio 1917 e la caduta dell’Impero zarista, la famiglia di Tamara si rifugia nella capitale danese, Copenhagen, mentre la donna e il marito restano a San Pietroburgo fino all’anno seguente. Nel 1918, Tadeusz, accusato dalla Ceka di far parte della polizia segreta dello zar, viene condannato a sei mesi di prigionia, durante i quali Tamara ottiene dal console svedese il lasciapassare con il quale raggiungere la famiglia in Danimarca, attraverso la Finlandia, e poi Parigi, ove il marito la seguirà dopo lo sconto della pena in patria.

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Finalmente Parigi, finalmente Montmatre, finalmente Montparnasse!!

Eppure gli esordi parigini non furono dei più felici e da esule russa, una fra tante, visse nella città scenario di rifugiati politici e sopravvissuti: generali senza più plotone, militari senza più uniforme, se non quella delle catene di montaggio, governatori senza potere e improvvisatisi fotografi, granduchesse adesso declassate al rango di ricamatrici e cucitrici di abiti per bambole destinate al mercato borghese. Lo stesso Tadeusz deve inventarsi una nuova professione come commerciante di tesori fuoriusciti dalla Russia, tra cui una serie di tappezzerie Beauvais e Gobelins, già di proprietà di nobili storici. E così sarà fino al 1924, anno in cui l’uomo accetterà un impiego presso la Banque de Commerce.

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La capitale francese era rifugio anche del popolo della provincia russa, artisti ebrei dell’Est sfuggiti ai Pogrom (sollevazione violenta popolare, dalle finalità antisemite, contro le comunità ebraiche), i quali avevano ricreato uno shtetl (insediamento ebraico) in un unico e disperato falansterio, La Ruche, nata dallo smantellamento dell’Esposizione Universale del 1900, poco distante dai macelli di Vaugirard. Qui, ove ognuno dei residenti aveva una piccola stanza chiamata “bara”, nel 1910 approdò Marc Chagall e nel 1912 Soutine. Non furono i soli! Tanti gli artisti ivi installati, come il russo Archipenko, Zadkine, Mané-Katz da Kiev e la scultrice Chana Orloff, amici di Tamara.

Una nuova esistenza, dunque, tutta da reinventare e pianificare nell’affollato e palpitante teatro de “la vie moderne”.

Tamara e Tadeusz non possiedono ancora una fissa dimora e per due anni (1918-20) vivono stanze di modesti alberghi di periferia sbarcando il lunario con la vendita dei gioielli della donna. Ma la polacca è tenace e determinata a restare a galla e non lasciarsi inghiottire da fame e miseria.

Ella vuol dar voce al suo talento, vuole che la gente la conosca, che la critica si accorga di lei; vuole, insomma, diventare un’icona della modernità. E ci riuscirà presto!

Come già detto nel precedente articolo, sarà la sorella Adrienne a svolgere un ruolo determinante per la carriera di Tamara; lei a stimolarla e persuaderla a frequentare i corsi di pittura del simbolista Maurice Denis presso l’Académie Ranson sin dal 1920. Sarà solo l’inizio!

L’anno seguente, il 1921, è quello della svolta: diventa allieva del franco-cubista André Lhote, l’artista che ricorderà come suo unico maestro, e debutta nel mondo della moda parigina, disegnando cappelli e toque neri per le stiliste Camille Roger e Marie Crozer. Questa svolta comporta di conseguenza, sempre nello stesso anno, l’abbandono della precarietà degli alberghi periferici per un più dignitoso domicilio presso l’uguale periferia di Place Wagram, 1, 17° arrodissement, ove risiederà col marito fino alla metà del 1923.

E il 1921 sarà anche l’anno di un’altra svolta nella vita “privata” dell’artista, ossia la scoperta della propria bisessualità e l’inizio della relazione con la vicina di Place Wagram, Ira Perrot, amante, musa e modella, almeno fino al 1932, di alcune tra le più celebri tele della pittrice.

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Lo studio-abitazione di Place Wagram,1, fu documentato in un servizio fotografico del 1923 da Costantin Stifter (cugino della Lempicka, figlio degli zii materni di questa, Stefa Decler e Maurice Stifter), per il numero del 15 gennaio 1924 della rivista “Arlequin” – il quindicinale fondato da Max Viterbo, direttore del locale “Le Cigale”, tra i cui collaboratori comparivano nomi come Capiello, Van Dongen, Larionov, Foujita e il grande Picasso – dal titolo Les envois de Mne Sempitzky aux Indépendants.

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Questi spazi interni sono restituiti in tutta la loro fedeltà dalla stessa Tamara nel dipinto “Angolo d’atelier” (1924 circa; olio su tela, 73 x 50 cm. Collezione Yves e Françoise Plantin), ove i ricordi dei modelli cubisti lhotiani sono giocati sui toni del blu dell’angolo scarno della stanza, composto solamente dalla minimale cassapanca lignea e da tre ripiani, altrettanto lignei, occupati da pochi oggetti utili, per lo più, alla resa di nature morte: otto libri, variamente disposti, un portacandela (anch’esso blu) e una bottiglia di vino rosso (per metà vuota). E la scelta di una semplificazione cromatica è rappresentata dal netto contratto tra le tonalità di blu e quelle grigiastre della parete accanto, con l’ampia apertura verso i tetti della piazza sottostante, e dall’ocra del parquet, diligentemente riprodotto.

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In quell’occasione l’obiettivo fotografico di Costantin Stifter immortalò diversi lavori della cugina: “Il cinese” (1921 circa; olio su tela, 35 x 27 cm. Le Havre, Musée d’Art moderne André Malraux), presentata al Salon d’Automne del 1922 e “numero 1” del suo catalogo generale, in cui la pittrice combina modelli espressionistici e cubisti lhotiani; e “Strade nella notte” (1923 circa; olio su catone, 50 x 33,5 cm. Stati Uniti, collezione Richard e Anne Paddy), anch’esso composto sui modelli lhotiani ed espressionistici a cui si sommano le rimembranze degli amici futuristi. Il buio della città è schiarito dalle luci artificiali dei lampioni tradotti dall’artista come paralumi dai riflessi conici su uno scorcio notturno dal profilo tagliente e dinamico, tutti giocati sui colori terrosi.

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A proposito di futuristi, con Filippo Tommaso Martinetti la Lempicka fu legata da un’intensa amicizia e comunanza di ideali, come quella volta in cui i due si lasciarono andare a una moralitè lègendaire. La donna narrò quell’aneddoto notturno a La Coupole di Montparnasse quando Martinetti la invitò con altri del gruppo a sedersi al tavolo del locale per pianificare l’incendio del Louvre, visto come mausoleo dell’arte ritenuta, ormai, morta. Ma l’autovettura della Lempicka, scelta come mezzo di trasporto, non fu più trovata ove la donna ricordava di averla posteggiata. E fu così che anziché appiccare il fuoco al museo  si ritrovarono in commissariato a denunciare il furto dell’auto, esaurendo, in tal modo, l’istintiva sregolatezza bohème, esplosa, come tante, nel fervore delle notti parigine.

E le notti parigine, con la poesia dei suoi scorci e l’eterogeneità dei suoi abitanti, ispirò, come oggi, rinomati fotografi dell’Est e tedeschi come Mario von Bucovich, Germaine Krull, Moï Ver, Ilja Ehrenburg e degli ungheresi André Ketész e Gyula Halsz, che nel 1932 assumerà lo pseudonimo di Brassaï. Questi giunge nella capitale francese nel 1924 come pittore e giornalista, ma a seguito dell’incontro con Ketész si dà alla fotografia, documentando nel volume illustrato “Paris de nuit” (1933) alcuni degli angoli più noti della città, svuotati, però, del loro caotico ritmo diurno e assopiti nel loro lirico silenzio. Stessa operazione sarà ripetuta dallo stesso André Ketész nel suo volume illustrato “Paris vu par André Ketész” (1934), il quale sin dal 1925, anno del suo arrivo a Parigi, immortala affinità elettive stabilite con i tanti volti della città.

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Del 1923 è anche “Il fondo rosa” (“Ritratto di Bibi Zogbè”; olio su tela, 47 x 38,7 cm. Collezione privata), ove Tamara continua a sperimentale i modelli cubisti lhotiani ed espressionistici verso una ricomposizione geometrica della struttura anatomica della modella Bibi Zogbè, ovvero la pittrice e amica argentino-libanese specializzata in natura morte floreali, «della quale la Lempicka coglie la fisionomia, ma anche la particolare gestualità: i grandi occhi sbarrati, il naso  importante e, atteggiamento che doveva esserle abituale, la mano portata al volto» (Gioia Mori).

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Nello stesso anno espone al Salon des Indépendants (10 febbraio – 11 marzo) e al Salon d’Automne (1 novembre – 16 dicembre) di Parigi, ove è presentato per la prima volta la tela che le darà i primi consensi critici, “Prospettiva” (“Le due amiche”, 1923; olio su tela, 130 x 160 cm. Ginevra, Association des Amis du Petit Palais), in vendita alla considerevole cifra di 15000 franchi (di cui si dirà nell’ottavo articolo).

Tra aprile e ottobre dello stesso 1923 la Lempicka si trasferisce con Tadeusz al numero 5 di rue Guy de Maupassant, 17° arrondissement, nel cuore di Montparnasse, appartamento che occuperà fino al 1930.

Sono anni di frenetica attività creativa in cui realizzerà gran parte dei soggetti che la renderanno immortale già presso i contemporanei, di viaggi tra Roma, Firenze e Venezia, di esposizioni personali e collettive, di riconoscimenti e onori. Ma tutto ciò è accompagnato da altrettanti frenetici eccessi di frivolezza e spensieratezze mondane che il paziente marito riesce a stento a tollerare: gli incontri extraconiugali e la solida relazione con Ira Perrot; l’abuso di cocaina, le notti bianche tra night e bordelli, nonché le lunghe sedute di lavoro fino all’alba in compagnia delle sinfonie di Wagner a volume insostenibile. Intanto, intraprende nuove relazioni omosessuali, senza, comunque, interrompere quella con la Perrot: con Rafaëla nel 1927 e la cantante-attrice Susy Rocher Solidor nel 1932, entrambe muse e modelle della Lempicka.

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Il marito sopporta ancora per qualche anno: cinque per l’esattezza, fino al 1928. Poi la rottura! Partito l’anno prima per lavoro alla volta della Polonia, Tadeusz conosce Irene Spiess, che sposerà cinque anni più tardi a Lodz, il 19 marzo del 1932. Tamara subisce il colpo ed è costretta ad accettare il nuovo legame dell’ormai ex marito, ma seguito del quale vivrà un profondo stato depressivo, che l’affliggerà fino alla fine degli anni Trenta.

Tuttavia, un’artista come lei non può darsi certo per vinta! Nonostante tutto, non si lascia soffocare dalle vicende personali e continua a dipingere con maggiore enfasi e ardente ricerca.

Il 1928 è ricordato non solo per il divorzio da Tadeusz, ma anche per l’incontro con il barone ebreo austro-ungarico Raoul Kuffner de Dioszegh, che sposerà nel 1934 a seguito della morte della moglie di questi, la viennese Cara Carolina von Haebler. Nonostante fosse sposato e padre di due figli, Peter e Louisianne, Kuffner conduceva a Parigi una vita piuttosto libertina, ove era nota la sua relazione con la ballerina spagnola Nana de Herera, per la quale il barone commissionò alla polacca un ritratto, diventandone, poi, anche uno dei maggiori collezionisti.

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Fu, questa, l’occasione che fece “scoccare la scintilla” tra i due, uniti per oltre un trentennio, fino alla morte dell’uomo in quel 3 novembre 1961 durante la traversata oceanica dall’Europa agli State.

Il continente americano accolse con entusiasmo la prima visita ufficiale della Lempicka, approdata nella Grande Mela il 3 aprile 1929 a bordo del transatlantico “Paris” con un permesso di soli sessanta giorni, presto prorogato di due anni, nei quali l’artista si divise tra New York, Chicago, Santa Fe e Detroit, contesa da milionari, collezionisti e galleristi, le cui commesse le frutteranno, pare, un milione di dollari.

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Ma anche due anni di nuovi stimoli e ispirazioni, scaturiti dall’ammirazione per i profili avanguardistici dei grattacieli, deputati quale sfondo urbano ideale per i suoi nudi seducenti e “metanatomici”.

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P.S. Appuntamento con la Terza Parte del nostro viaggio nell’arte di Tamara de Lempicka.

BIBLIOGRAFIA

Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

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