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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (parte quinta) Kizette, “The Artist’s daughter” (La figlia dell’artista)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO”
(parte quinta)
Kizette, “The Artist’s daughter” (La figlia dell’artista)

di Filippo Musumeci

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Come già affrontato nella parte prima di questo nostro viaggio nel mondo della “Regina dell’Art Déco”, Tamara ebbe dal primo matrimonio con l’avvocato polacco Tadeusz Lempicki Junozsa una figlia, Marie Christine, meglio conosciuta come Kizette, nata il 16 settembre 1916.
Il rapporto madre-figlia fu alquanto tormentato: Kizette rimase per l’artista una “figlia scomoda”, mentre questa rimproverò alla madre il suo “killer instinct” per mezzo del quale antepose il suo genio creativo agli affetti. E Ciò traspare con chiarezza nella biografia dell’artista stesa dalla stessa Kizette con la collaborazione di Charles Phillips dal titolo “Passion by Design: The Art and Times of Tamara de Lempicka”, e pubblicata nel 1987.
La figlia ricorda: «Quando rientrava da una festa, a notte inoltrata, ancora eccitata e piena d’energia, a volta mi svegliava per raccontarmi degli artisti e degli scrittori famosi che aveva incontrato, dei conti e dei duchi con cui aveva danzato, delle contesse e delle duchesse che l’avevano invitata a pranzo, a cena, all’Opéra, a ancora a un’altra festa».
Inarrestabile e impetuosa, Tamara non esitava a stare sotto i riflettori da diva qual era, schivando il “dolce far niente” senza dar tregua all’inesorabile divenire, poiché per lei, racconta ancora Kizette, «Le giornate erano sempre troppo corte».
“L’istinto assassino” della “polacca” si evince con estrema lucidità in altri avvincenti passaggi della sua biografia, nei quali la figlia tradisce una certa amarezza e risentimento per quell’affetto negatole dalla madre: «Aveva le sue leggi, ed erano quelle degli anni Venti. Le interessavano soltanto quelle persone che lei chiamava ‘le migliori’: gli aristocratici, i ricchi e l’élite intellettuale. Come qualunque persona di talento, anche mia madre era convinta di meritarsi tutto ciò che il mondo poteva offrire e questo le dava la libertà di frequentare solo chi poteva aiutarla o contribuire a sviluppare il suo ego. Viveva sulla Rive Gauche, dove dovevano vivere gli artisti e detestava tutto ciò che era borghese, mediocre e ‘carino’. Indossava solo abiti di lusso per accecare il suo pubblico e creare un’aura di mistero attorno al suo passato, alla sua età, alla sua vita in Polonia e in Russia, e perfino sulla sua stessa famiglia. La ragazza polacca di buona famiglia, la sposa bambina, l’emigrante, la madre giovanissima furono inghiottite dai suoi dipinti come paraventi del camerino di una diva. Al loro posto comparve la bellezza moderna, affasciante, raffinata e persino decadente del celebre autoritratto che pochi anni dopo avrebbe dipinto per la copertina della rivista di moda Die Dame. ‘Io vivo ai margini della società’, diceva Tamara. ‘Per quelli come me le regole comuni non valgono’. Fin dal principio, mia madre aveva puntato sullo stile».
Non era invidia quella di Kizette; e neanche gelosia nei confronti di una madre talmente titanica. Era, piuttosto, un sentimento nostalgico intriso di rabbia e di profondo disincanto per quanto negatole, per quanto dovuto e non dato. Era solitudine!
La psicoanalista Melanie Klein nel suo ultimo lavoro “Sul senso di solitudine” (1960) sostenne come questa nasca da una fusione tra «la nostalgia per una comprensione che avviene senza l’uso di parole – in ultima analisi il primissimo rapporto con la madre» e l’impossibilità di accettare in modo completo il proprio bagaglio emotivo di fantasie e angosce. «Sebbene il senso di solitudine possa essere diminuito o accresciuto per influenza di fattori esterni, esso non può venir mai completamente eliminato, perché lo stimolo ad effettuare l’integrazione, con la sua intrinseca sofferenza, ha la sua origine in conflitti interni che conservano inalterata la loro forza per tutta la vita».
Le cronache riportano come Tamara, non appena giunta a New York nel maggio del 1939, arriverò persino a dichiarare alla stampa statunitense di non aver figli e di non esser madre se non delle proprie creazioni figurative. E come la prese Kizette? Non certo bene! Sapeva di essere una presenza ingombrante per una madre così coinvolta nella definizione del proprio profilo iconico, il quale necessitava di un’assoluta indipendenza sociale quanto mentale. E Tamara quest’indipendenza tanto agognata, per una serie di vicissitudini, non le fu negata! Già nel 1929, a seguito del divorzio dei genitori nell’anno precedente, la giovane Kizette, appena tredicenne, si vide costretta a vivere in collegio: il padre si era ricostruito una vita con la nuova compagna Irene Spiess, che sposerà nel 1932; Tamara, per le cause succitati, non avrebbe potuto adempiere ai suoi oneri e doveri materni.

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I rapporti, già seriamente compromessi dagli eventi, s’incrinarono inesorabilmente quando, una volta approdata negli State il 3 luglio 1940 a bordo della nave Nea Hellas, salpata da Lisbona, la figlia fu presentata al pubblico dalla pittrice in persona come la, di lei, sorella minore. La ragazza, allora ventitreenne, fece la traversata oceanica in compagnia di Louisianne Kuffner de Dioszegh, nata nel 1925, figlia del barone Raoul, ed entrambe dirette a Villa Vidor di Beverly Hills, sita al 1141 di Tower Road, presa in affitto dai baroni Kuffner fino al 1942. Ma la convivenza tra le due sorellastre durò ben poco: se Louisianne fu iscritta alla Douglas School a Pebble Beach, Kizette, con alle spalle una laurea conseguita a Oxford, si iscrisse, invece, alla Facoltà di Scienze Politiche di Stanford, gettando le basi per un’intensa vita mondana.
Di Louisianne resta oggi un ritratto di piccolo formato del 1940, ritagliato da Tamara alla morte del barone Raoul nel 1961 da una tela il cui disegno preparatorio ne prevedeva la figura intera, in realtà mai completata, e poi spedito alla ragazza come ricordo del breve periodo trascorso insieme. Dallo sfondo monocromo dai toni grigiastri si staglia l’ingenua immagine della quindicenne, impreziosita dall’elegante acconciatura con cerchietto dal fiocco bianco e retina di memoria rinascimentale che, come ricorda Gioia Mori, divenne di moda grazie alla Katie Scarlett O’Hara (in Italia il nome della protagonista fu mutato in Rossella O’Hara) di Via col vento, quando la protagonista del Kolossal, ormai caduta in disgrazia, indossava l’accessorio durante la fatica degli umili lavori.

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Louisianne, deceduta il 12 novembre 2009, dopo la morte del padre non mantenne seri rapporti con Tamara e la figlia Kizette, già piuttosto fragili per via del patrimonio del barone lapidato in breve dalla pittrice e per il titolo nobiliare di cui si fregiò la stessa, tra l’altro, come se non bastasse, usato anche in seguito da Kizette pur non essendo figlia diretta del barone Kuffner.
In poche parole, ognuno si portava dietro il proprio fardello di lacrime e rancore e Kizette non fu la sola a subire sulla propria pelle lo spirito autoritario della “polacca”.
Eppure, per ironia della sorte, la grazia fisionomica di Kizette, unita alla sua incantevole eleganza, tornarono strategicamente utili alla madre per tutto il corso degli anni Venti, divenendone ben presto modella prediletta di opere celeberrime e pluristellate dalla critica.
Tra i lavori per cui la figlia posò per la madre vi è “Portrait d’une fillette avec son ourson” (Ritratto di bambina con il suo orsacchiotto) realizzato nel 1922, vale a dire ai tempi del domicilio presso Place Wagram 1 a Parigi. Kizette, all’età di appena sei anni e in compagnia del suo orsacchiotto di peluche, presenta una posa dal taglio fotografico resa attraverso una tavolozza ridotta a poche tinte: ocra, giallo, blu, verde e avorio restituite con rapide pennellate incrociate a definire i volumi dell’infante e memori del “furor” dei fauves.

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Un’opera decisamente lontana dalle ricerche formali di lì a poco intraprese dalla Lempicka, ma senza, tuttavia, rinunciare alla carica psicologica del soggetto, che per impianto compositivo e scelta cromatica è equiparabile al dipinto del 1920 “Bambina con giocattoli” di Boris Dimitrievič Grigoriev.

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Lo stesso tema infantile del Ritratto di bambina con il suo orsacchiotto” sarà riproposto dalla Lempicka nel 1933 in “Portrait de Mademoiselle Poum Rachou” (Ritratto di Mademoiselle Poum Rachou), ove, al di là delle sorprendenti somiglianze tra la giovane modella e Kizette (ai tempi del dipinto già diciasettenne), è ripreso il particolare dell’orsacchiotto tenuto stretto al petto da Poum, ma in una veste figurativa tutta nuova tra innocenza e malizia, già largamente sperimentata dalla pittrice a inizi anni Venti nelle opere aventi per modella la figlia.

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Ne è un valido esempio “Potrait de Kizette” (Ritratto di Kizette), del 1923-24, ove la stessa appare all’interno del nuovo atelier parigino di rue Guy de Maupassant, 5: su uno sfondo mosso dalle pieghe di un tendaggio dalle spiccate tonalità di grigio posa l’innocente figura di Kizette in abitino rosa fucsia, tenuto fermo da una cintura della medesima tinta, e scarpette di vernice nera; gli occhi cerulei e i capelli biondi con taglio “à la garçonne”.

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È un ritratto alla moda, poiché la figlia di Tamara indossa un capo di abbigliamento della Maison Mignapouf, specializzata in parures per bambini, e documentato da una serie di scatti pubblicati su “L’Officiel de la Couture et de la Mode” nel marzo del 1923, dunque, contemporaneo al dipinto. La fortuna di questo modello è comprovato pure da un servizio di “Les Modes” pubblicato nel settembre dello stesso per il quale posò una piccola star del cinema anni Venti, Régine Dumien, la cui posa, acconciatura, nonché disinvolta sicurezza, sono, anche in questo caso, facilmente sovrapponibili a quelle di Kizette.

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In occasione dell’antologica “Tamara de Lempicka. La regina del moderno” al Complesso del Vittoriano di Roma (11 marzo – 10 luglio 2011), Gioia Mori, curatrice della mostra, ha condotto nuovi studi finalizzati a chiarire l’esatta cronologica esecutiva ed espositiva di un incantevole dipinto che la storiografia passata datava al 1928, anziché, com’è stato dimostrato dalla celebre studiosa, eseguito entro il 1926 ed esposto per la prima volta al Salon des Indépendants di Parigi, inaugurato il 21 gennaio 1927. Si tratta di “Kizette en rose” (Kizette in rosa): il primo di una serie di ritratti della figlia di Tamara nel quale appare il binomio “innocenza-malizia” per cui alle forme innocenti del soggetto si contrappongono gli atteggiamenti maliziosi e perversi dello stesso.

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Dagli interni di un locale – forse a Cannes, in Costa Azzurra, ove la famiglia di Tamara trascorreva le vacanze estive; oppure lo stesso atelier parigino di 5, rue Guy de Maupassant –, che si apre sul porto parigino limitrofo per mezzo della finestra sul fondale, si staglia la figura scorciata di Kizette dai tratti somatici acerbi dallo sguardo ammiccante e dalla posa già seducente. La quinta scenografica con i profili dei transatlantici trova una fonte nel dipinto “Un porto sotto la luna”, realizzato dalla pittrice nel 1924, in cui le ricerche cubiste sui volumi spaziali urbani approderanno all’equilibrio compositivo della fase matura, superbamente rappresentata dalla stagione dei nudi femminili inseriti su di uno scenario prospettico contemporaneo enfatizzato dallo sviluppo verticalistico dei grattacieli di matrice statunitense.

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Gli occhi color pervinca di Kizette hanno lasciato al momento la lettura del romanzo dalle pagine prospetticamente restituite alla visione e tenuto fermo dal braccio destro cui contribuisce il sostegno della gamba sinistra sollevata; il piede sinistro scalzo, privato della scarpetta bianca abbandonata al suolo, è tenuto fermo alla panca dalla pressione della caviglia destra. Il tutto addolcito dal colorito abbronzato della pelle delicatamente chiaroscurata su cui spicca il leggero tocco di rossetto sulle labbra e la gamma cromatica minimale dei grigi e rosa dell’abitino. Se il fine della Lempicka si era rivelato come rilettura della ritrattistica contemporanea, non poteva sfuggirle di certo l’omaggio alla moda del tempo di cui era ambasciatrice emerita. Non a caso, Kizette assume anche le vesti di indossatrice con il carrè “à la garçonne” e quell’abitino che tutto è fuorché un indumento infantile. Tutt’altro!! Si tratta di un completino femminile da tennis allora in voga, la cui gonna plissettata era già in uso da alcuni anni come capo sportivo, ma venne resa succinta nel 1926 (stesso anno del dipinto) e accompagnata da maglia lunga fermata ai fianchi da una sottile cintura, come dimostra un servizio pubblicato sulla rivista “Femina” nel maggio dello stesso anno.

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L’immagine così innovativa del soggetto indussero la critica già nel 1928 a risalire alle fonti, avanzando alcune ipotesi: un scatto fotografico o una diretta ispirazione all’opera di Marie Laurencin, “Femme au chien” del 1924-25 e custodito all’Orangerie di Parigi.

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Al di là delle possibili fonti, il successo di critica e pubblica di cui godette il dipinto fin dal suo esordio al Salon des Indépendants del 1927 è da attribuire al dinamicità e alla naturalezza della posa di Kizette che «sovvertiva infatti il tradizionale ritratto infantile, in cui i bambini appaiono bloccati in pose da adulti, rivelandosi improbabili modelli pazienti e ubbidienti» (Gioia Mori).
Ciò determina, per via diretta, una posa dal taglio fotografico maliziosamente seducente e dal carattere sottilmente erotico, quale antesignano di quel “lolitismo” letterario cantato nel 1955 dal russo Vladimir Vladimirovič Nabokov nel bestseller Lolita.
Dopo il Salon des Indèpendants del 1927, l’opera fu pubblicata dalla stampa internazionale belga, polacca e tedesca, vedendo presentata, poi, alla Galerie d’Art Moderne di Ostenda, Belgio, nell’agosto dello stesso anno e, infine, alla Galerie d’Art Decré Frères dal 17 gennaio al 17 febbraio 1928 per l’esposizione curata da Thomas Maisonneuve e a seguito della quale fu acquistata dal Musée des Beaux-Arts di Nantes per la significativa cifra di 15.000 franchi.
Fu in occasione d quest’ultima esposizione che il critico Teallendeau pubblicò un articolo il 18 gennaio, all’indomani dell’inaugurazione, sulle pagine di “Le Populaire” e nel cui finale dichiarava che se la Lempicka avesse fatto anche solo questo dipinto, meriterebbe di essere considerata una grande artista.
Un altro celeberrimo ritratto della figlia di Tamara, allora undicenne, e oggi custodito al Centre Pompidou di Parigi, è “Kizette al balcone” del 1927, esposto a giugno all’Exposition Internationale des Beaux-Arts di Bordeaux, ove fu premiato, e a novembre al Salon d’Automne assieme a un’altra meravigliosa opera, “La Bella Rafaëla” (di cui si dirà ampiamente nell’ottava parte di questo progetto). Il dipinto rappresenterà, inoltre, anche la Polonia alla ventottesima edizione della International Exhibition of Paintings di Pittsburg, Pennsylvania, del 1929.

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L’impianto compositivo è debitore di “Kizette in rosa”, la cui posa di scorcio seduta di una panca è inquadrata in un balcone della casa-atelier parigino di 5, rue Guy de Maupassant affacciato sulle antiche ferronneries da cui si scorge l’abitato nel silenzio di una scena notturna nella quale gli edifici dai tetti a spioventi sono resi, anche in questo caso, attraverso una scomposizione sapiente dei volumi architettonici di matrice cubista. Il buio della notte è appena rischiarato dalla calda illuminazione artificiale dei lampioni stradali, nonché dalle finestre illuminate dall’interno delle abitazioni e per mezzo delle quali è possibile cogliere la sommessa intimità domestica degli anonimi risiedenti. L’occhio analitico della Lempicka si spinge oltre, toccando note di assoluta poesia nel particolare della finestra aperta sul cui davanzale è stata adagiato un vasetto in terracotta con una pianta di fiorellini rossi. Altre finestre, invece, sono spente come a voler sottolineare l’attività onirica in atto entro le mura degli abitati.
Se in “Kizette in rosa” erano le tonalità dei bianchi rosa e grigi a determinare il valore tonale della tavolozza, adesso quest’ultima è affidata primariamente a quelle grigie a cui si oppongono i terrigni bruno e giallo-ocra. Nonostante la posa possa apparire a primo acchito ingessata e formalmente più composta del dipinto precedente, in realtà la mano sinistra di Kizette stretta alla ringhiera in ferro battuto e l’inclinazione del busto verso la sinistra di chi guarda, cui si contrappongono quelle inverse del capo e del piede destro, suscitano nell’osservatore una sensazione di lenta instabilità del corpo, cui fanno eco le diagonali del panneggio dell’abito grigio, anch’esse orientate verso sinistra, seguendo, in tal modo, lo sviluppo a “S” delle membra. Questo moto fisico esercita una spinta sul tessuto tale da mostrare l’incarnato levigato delle gambe oltre il ginocchio. Le labbra della modella presentano lo stesso colorito roseo di “Kizette in rosa” e persino il taglio dei biondi capelli, successivamente sostituito dalla Lempicka da un taglio più mosso, un tempo era “à la garçonne”.

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Il tendaggio alle spalle della bambina è uno schermo di sporgenze e rientranze su cui viene proiettata l’ombra del profilo, generata da una fonte luministica artificiale esterna al quadro e proveniente dall’interno dell’atelier di rue Guy de Maupassant. Ciò è lucidamente chiarito dalle ombre della panca, il cui sostegno anteriore sinistro proietta una fascia ombreggiata diagonale indicante l’esatta angolazione del punto di vista della pittrice, dunque, dell’osservatore stesso. L’armonia di grigi pervade l’intera scena ed efficacemente restituisce la sensazione di silente quiete notturna che emana la composizione, tuttavia, animata dalla scompostezza, a tratti sbarazzina e seducente, di Kizette, escludendo ogni enfasi sentimentale a favore di una freschezza dal taglio fotografico. Elogiato al Salon d’Automne del 1927 dai critici Thiébault-Sisson, Woroniecki e Lahalle e pubblicato sul numero del 7 gennaio 1928 della rivista polacca “Swiat”, l’opera rappresentò soprattutto per la giovane Kizette un’apparente ed effimera conquista.
Infatti in occasione dell’International Exhibition of Paintings di Pittsburg del 1929, Tamara non nascose l’identità della modella e la maternità fino ad allora negata alla stampa. La fonte è documentata da un articolo del “Pittsburgh Sun-Telegraph” del 13 novembre 1929 dal titolo “The Artist’s Daughter” (lo stesso utilizzato per presentarvi questa quinta parte del nostro viaggio nell’arte della Lempicka), in cui si legge: «“Kizette in balcone” ha detto di essere un ritratto di sua figlia».
La carica seduttiva di sapore “lolitiano” palesemente manifesta negli ultimi due lavori della pittrice appare solo in parte mitigata ne “La Comunanda” del 1928, ove la figlia assume una posa convenzionale e attinente al tema trattato.

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Anch’esso, come “Kizette al balcone”, il dipinto fu presentato nello stesso anno al Salon d’Automne e nel 1929 al Salon des Indèpendants e alla mostra di Poznan, in Polonia, ove venne premiato con una medaglia di bronzo in occasione delle celebrazioni per il primo decennale della nazione.
La figura scorciata di Kizette, adesso dodicenne, occupa il primo piano della scena mediante un punto di vista particolarmente ravvicinato e, per conseguenza, ristretto. La cubatura spaziale è resa per mezzo del piano dell’inginocchiatoio in velluto rosso sul quale è adagiato un libro liturgico, presumibilmente, dato il carattere sacrale del soggetto, quello delle “ore” da recitare durante la consacrazione dei sacramenti. L’armonia dei bianchi e grigi è enfatizzata dai caldi bruni dell’abbronzatura magistralmente ricreata sul morbido e levigato incarnato della comunanda Kizette, le cui labbra carnose sono rese dalla tinta squillante del rosso, capace, già da solo, di accenderne l’angelico viso inscritto nell’ovale segnato dalla cuffietta con nastrino legato sotto il mento. I volumi plastici sono restituiti dalle linee taglienti e nette del disegno privo di sfumature, in un saggio di eccellente perizia tecnica nella resa delle trasparenze del velo deliziosamente chiaroscurato. Su questi agisce la colomba bianca sospesa in volo nell’atto di sollevarne un lembo con il becco; mentre le mani giunte e gli occhi assorti nella preghiera determinano l’atteggiamento orante della fanciulla, in un’atmosfera tesa tra mistico e assenza di sentimentalismi gratuiti. Anche in questo caso, è stato proposto il binomio innocenza-malizia, esplicitato proprio dalla presenza simbolica del volatile, poiché la colomba bianca è per tradizione attributo pagano e cristiano, rispettivamente di Venere e dello Spirito Santo. François Vallon, medico, collezionista della Lempicka e critico d’arte per “La Revue due Médecin”, in un articolo del 1930 scrisse a proposito di questa presenza: «…una colomba, insidiosa messaggera di Venere, raffinata e diabolica contraffazione dello Spirito Santo, […] preannuncia, dopo il fuggitivo passaggio di Dio nel suo piccolo cuore pronto a straripare, le belle labbra amorose della donna-bambina».
Dell’opera esiste anche uno studio preparatorio in cui non compare ancora la presenza simbolica della colomba bianca e nel quale la pittrice dà prova delle proprie abilità nella tecnica del pastello nelle lumeggiature di bianco su un disegno sicuro e incisivo.

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Un’infanzia priva di candore, dunque, per cui il critico Arsène Alexandre nella recensione del Salon d’Automne del 1928, pubblicata su “Le Figaro” del 3 novembre, coniò il concetto di “ingrisme pervers” (ingrismo perverso).
Gioia Mori ha evidenziato che nelle opere della Lempicka: «Il suo universo femminile, infatti, manifesta spesso poli opposti della devozione e della perversione, e anche i volti angelici che rivolgono gli occhi imploranti al cielo sembrano in realtà rapiti in un’estasi ambigua di ascendenza barocca, o hanno atteggiamenti cosi ammiccanti da far evaporare ogni alone d’innocenza. Ma oltre agli atteggiamenti delle sue bambine, a far pensare a un’infanzia priva di candore perché “sapiente”, tenutaria forse di una conoscenza primigenia o già appesantita da dubbi cosmici, è quell’attributo che spesso compare nelle sue opere dedicate ai bambini».
L’ultimo ritratto di Tamara alla figlia, ormai quasi quarantenne, risale al 1955 nel quale l’artista polacca ne restituisce l’indiscusso fascino e l’espressione spavalda racchiusa negli occhi profondi pervinca nel rosso squillante delle labbra ancora carnose come un tempo.

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La fonte di questo piccolo formato potrebbe essere una foto scattata in occasione delle festività natalizie del 1955 trascorse con Kizette a Houston, città nella quale questa risiedeva dal 1952, al 3235 di Reba Drive. Kizette sposò nel 1942 a Las Vegas il geologo Harold Foxhall e ne diede annuncio a Tamara solo per telefono. Quest’ultima, a sua volta, impegnata nell’allestimento di un’antologica a Milwaukee, si limitò in un invito alla coppia nella villa di King Vidor a Beverly Hills.

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Tuttavia, la polacca si credeva vittima di Kizette, del marito e delle due figli, Christie e Victoria, a cui rimproverava una spiccata venalità e la continua richiesta di denaro. Risale agli anni Sessanta una caricatura eseguita da Tamara in cui confessava il suo ruolo svolto nei rapporti familiari: sdraiata sul pavimento e circondata da Kizette, dal marito e dalle due nipoti con la scritta “Money” e punti esclamativi.

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Quando Kizette morì il 16 aprile 2001 all’età di ottantacinque anni sullo “Houston Chronicle” comparve un breve articolo in cui la si ricordava come protagonista del jet set internazionale e per essere stata «The daughter of famed art deco painter Tamara del Lempicka».

P.S. Vi diamo appuntamento alla parte sesta del nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”.
BIBLIOGRAFIA

-Gioia Mori, Tamara de Lempicka. La Regina del Moderno, catalogo della mostra (Roma, Complesso del Vittoriano, 11 marzo – 10 luglio 2011), Milano, Skira, 2011.

-Gioia Mori, Tamara de Lempicka, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

-Gilles Néret, Tamara de Lempicka (1898-1980). La dea dell’epoca dell’automobile, Taschen, 1999.

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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (PARTE QUARTA)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO”

(parte quarta)

“Madame la Baroness, Modern Medievalist”:

il genere della natura morta nell’arte di Tamara de Lempicka

 

di Filippo Musumeci

TAMARA

Come si è avuto già modo di ricordare nella parte prima e seconda di questo nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”, gli esordi dell’attività figurativa della Lempicka sono documentati da un giovanile “diario figurato” di deliziosi acquerelli adolescenziali con nature morte floreali: primo genere pittorico su cui l’artista testa la propria abilità nell’indagine di oggetti “messi in posa” alla maniera fiamminga.

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Questi acerbi esperimenti di soggetto floreali realizzati ad acquerello su carta risalgono al 1907, anno in cui la giovane Tamara Rosalia Gurwik Gorska aveva circa nove anni, e investigati con perentoria ricerca almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. È il caso delle nature morte floreali “Rose” e “Una rosa”, due splendidi dipinti del 1938 nei  quali la pittrice polacca mostra le sue straordinarie capacità tecniche e l’afflato del suo lirismo. Confrontando questi due soggetti con gli stessi d’età adolescenziale si comprende come l’evanescente fragilità delle rose ha subito un processo di trasfigurazione verso una nuova solida e levigata carnosità, astutamente amplificata dallo scuro sfondo monocromo di tradizione fiamminga.

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“Annaffierei le rose con le mie lacrime per sentire il dolore delle loro spine e il rosso bacio dei loro petali”, affermava lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez.

Tamara fedele alla tradizione, dunque, seppur riletta e rimpaginata per mezzo di una bagaglio creativo sostanzialmente inesauribile e di immediata grazia. Se in “Rose” si limita a riproporre il piano d’appoggio come da manuale, in “Una rosa”, si è spinta oltre, stavolta, immaginando lo stesso nell’insolita veste di scatolina (forse lignea o, perché no, cartonata) ricoperta da una leggera velina rosata di cui riporta persino la piega dell’angolo. I petali rosso-rosato di cui si vestono le due rosaceae sono manti di seta traslucidi di linee morbide e sinuose, sotto le quali si muove un corpo che pulsa di passione e ravviva ogni diletto umore. È un’ode sopra il suo nome, Rosalia, il cui significato etimologico è “corona di rose”; è un’ode sopra il simbolo di Venere, dea dell’amore, già cantato da Anacreonte tra il VI e il V sec. a.C.

Oggi vogl’io col canto

Lodar la rosa estiva,

E la stagion che avviva

L’erba novella e il fior.

Tu, mio tesoro, intanto,

Il canto mio seconda,

E facile risponda

A’ nostri carmi Amor.

Per l’odor suo gentile

Questo vermiglio fiore

È degli Dei l’amore.

Degli uomini il piacer.

E ognor che riede Aprile,

Le Grazie verginelle

Ornan di rose belle

Il vago crin leggier.

D’Amor la Genitrice

Sembra più bella in Cielo,

Se mai fra il roseo velo

Mostra l’eburneo sen.

Fin sull’Ascrea pendice

L’educan le Camene:

De’ canti d’Ippocrene

Soggetto ognor divien.

È dolce a chi raccoglie

Le rose porporine,

Sebben le ingrate spine

Gli pungano la man:

E a chi le molli foglie

Fra palma e palma asconde

Più grato odore altronde

Aspetta forse invan.

Si spargono le cene

Di rose delicate,

E son così più grate

Le rose al saggio ancor.

E quando il tempo riede

Sacro al buon Dio Tebano,

Si versa a piena mano

Nembo di rose allor.

Senza le vaghe rose,

Qual cosa è mai gradita?

Colle rosate dita

L’Alba colora il dì.

Le Najadi vezzose

Di rose hanno le braccia;

Di rose il sen la faccia

Venere ha pur così.

Ch’è di ristoro a’ mali

La rosa io so per prova,

E che incorrotti giova

Gli estinti a conservar.

Invan spiegando l’ali

Va il tempo sul suo verde,

Ch’ella l’odor non perde

De’ giorni al trapassar.

Or sull’istessa cetra

Io ridirò cantando,

Com’ella nacque, e quando

Già dal terren spuntò.

Quel dì, che in faccia all’etra

Sulla cerulea culla

Venere ancor fanciulla

L’onda del mar mostrò,

Quel dì, che Giove, armata,

Spettacolo giocondo,

Espose al Cielo al Mondo

La Diva del saper,

Allor si vide ornata

La terra del bel fiore,

Ch’è degli Dei l’amore

Degli uomini il piacer.

Allora i Numi a gara

La pianta avventurosa

D’ambrosia rugiadosa

Presero ad irrigar:

E al buon Lièo sì cara,

La rosa porporina

Sulla nativa spina

Si vide germogliar.

(Anacreonte, “Sopra la rosa”, Ode LIII)

Quest’atto di alta poesia sarà traslato in altre nature morte in cui le rose lasceranno il posto alle calle bianche di trasparenza vitrea entro vasi di cristallo, dalle medesime qualità trasparenti, accostati a una cornice lignea dorata con foto in bianco e nero e con una tenda rossa drappeggiata sullo sfondo. Qui, Tamara ripropone le sensuali sinfonie di rossi, verdi e bianchi già abilmente composte nei ritratti di modelli degli anni Trenta (e di cui si dirà nella parte settima).

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Il genere della natura morta adottato dalla Lempicka non si limita soltanto ai soggetti floreali, bensì coinvolge anche la realtà domestica nella sua più intima e ordinaria frugalità. Ne sono esempi eloquenti le opere “La caraffa Luigi Filippo” (1923), “Natura morta con mandarini (1925 circa), “Natura morta con cavolfiore” (1925), “Natura morta” (“Il macinacaffé” 1941 circa) e “Coppa di frutta I” (Frutta su fondo nero, 1949), ove la visione lenticolare di lezione fiamminga si traduce in una solidità di volumi e una struttura compositiva equilibrata, cui fanno eco i calibratissimi accostamenti cromatici. Come afferma Gioia Mori, queste nature morte «narrano un quotidiano lento a trascorrere, dove il tempo è segnato da pasti poveri, fatti di mandarini sbucciati, arance squillanti come raggi di sole, cavolfiori dalle foglie color petrolio già di durezza metallica». 

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L’attenta riflessione sulla mimesi fiamminga giungerà a saggi virtuosistici di trompe-l’oeil, come nel già citato “Il macinacaffè” del 1941, ove l’indiscusso e superbo spessore illusionistico è esplicitato dalla brocca da cucina, resa nei suoi diversi materiali costitutivi e stagliata contro la parete di compensato, nonché dall’espediente del bianco cartiglio tenuto fermo da uno spillo di antica memoria quattro-cinquecentesca. Un cartiglio autografato dalla pittrice solo nel 1954, come dimostrato dalla brochure della mostra alle Courvoisier-Galleries di San Francisco del 1941.

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In quell’occasione, Christopher Stull, recensore del “San Francisco Chronicle”, scriveva a proposito delle capacità tecniche della pittrice polacca «Nelle sue nature morte si diverte con la durezza del metallo, con la semi-durezza del legno». E persino quell’umile strumento domestico, nella denudata crudezza della sua natura, viene qualificato per mano della Lempicka grazie alla purezza delle linee e alla perfezione delle forme. Nonostante i meriti riconosciutile dalla critica, il gusto statunitense datato anni Quaranta etichettava le nature morte della baronessa anacronistiche, quando non obsolete, facendole guadagnare l’ironico titolo di “Mme La Baroness, Modern Medievalist”.

Ciò, tuttavia, non turbò i propositi dell’artista, che, anzi, insistette per tutto l’arco del decennio successivo nel recupero del “mestiere”, cimentandosi nel trompe-l’oeil di tavole ricoperte da drappeggi dalla consistenza serica su cui fanno mostra frutti maturi o bacati, madreperle translucide e conchiglie dalla carità eroica manifesta, come ne “La conchiglia”, sempre del 1941. Uno splendido olio su tela in cui su di un drappeggio a motivi floreali sono stati adagiati, confondendosi, due conchiglie, due perle, un rametto di corallo e un bicchiere di cristallo: oggetti che per insite raffinate qualità, nonché per caratteri allegorici, sono direttamente riconducibili alla baronessa Kuffner, alla sua seduttiva femminilità, al suo dirompente charme. La composizione è tutta giocata sui toni rosa-verde-grigio con i quali si dà forza ai volumi solidi e leggerezza ai tessuti, restituendo la translucenza cromatica del guscio madreperlaceo.

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Alla produzione degli anni Quaranta appartengono anche alcuni dipinti in cui il soggetto attenzionato è quello delle mani, le quali, come afferma sempre Gioia Mori, sono: «vaganti su fondi monocromi, fluttuanti frammenti di energia». Il 5 febbraio 1940 confessa al “Los Angeles Examiner” l’intenzione di organizzare un’antologica di nature morte con unico soggetto “le mani”, concretizzatasi, poi,  solo alla fine degli anni Quaranta quale contributo a un soggetto già condotto negli anni Venti da altri artisti europei, come la polacca Maryla Lednicka, scultrice e amica di Tamara, tra le prime a creare opere con sole “mani”. Il più delle volte, sono citazioni di opere celeberrime come per “Mani e fiori” del 1949, il cui soggetto è ripreso dalle mani del ritratto raffaellesco di “Maddalena Strozzi; altre volte, invece, sono più semplicemente frutto del genio creativo della pittrice stessa, come per “Chiave e mano” del 1946 e “Mano surrealista” del 1947: la cui lirica intonazione è testimone muto di quell’inesorabile monito del divenire: “Tempus fugit cave tibi” (“Il tempo passa inesorabile, fai attenzione”).

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Le cause di tale scelta sono da ricercare nella volontà di apportare migliorie nella resa di un particolare anatomico su cui sovente la critica aveva avanzato pareri poco lusinghieri, come nel caso di Berthélot, il quale nel 1931 ritenne severamente le mani forgiate dalla pittrice simili a elementi meccanici dalle giunture d’acciaio, parlando di difetti e malformazioni. Berthélot era in torto! Non comprese appieno il valore rivoluzionario di quelle figure modellate dalla Lempicka e il messaggio di quel “metallismo”, poi, invece, compreso e magnificamente illustrato da Giancarlo Marmori nel 1977. Attraverso un’opera di contestualizzazione, sono state scoperte da Gioia Mori straordinarie consonanze tra dipinti, sculture e fotografie dal soggetto succitato. Specie la fotografia trovò nei lavori degli anni Trenta di artisti tra i quali si ricordano Berenice Abbott, André Kertész, François Kollar, Dora Maar, Gisèle Freund e Thérèse Bonney i protagonisti di un nuovo genere che qualificava l’identità di un personaggio per mezzo delle sole “mani”, ritenute per la loro riconoscibile autenticità più vere e credibili del volto umano, non di rado celato da trucchi e maschere sociali. Tra le creazioni più significative si ricorda la poesia surrealista della “Mano-conchiglia” (1934) di Dora Maar, compagna di Picasso dal 1935 al 1944, e gli scatti dello sloveno François Kollar dedicati alle mani di celebri stiliste di mode come Suzy e Agnès ed Elsa Schiaparelli.

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Alle “mani” la Lempicka, rispetto ai suoi colleghi, ha aggiunto il “calore dell’evocazione”: «se infatti nelle foto il resto del corpo viene suggerito da un ‘ombra, un dettaglio, nei dipinti della Lempicka le mani sembrano i frammenti spaesati e vaganti di un corpo dissolto, muti depositari di emozioni e sentimenti» (Gioia Mori).

P.S. Vi diamo appuntamento alla parte quinta del nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

BIBLIOGRAFIA

Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (PARTE SECONDA)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DECÓ”

(parte seconda) 

“Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”:

l’infanzia a San Pietroburgo, gli esordi parigini

e il primo soggiorno negli State.

 (1910-1929)

di Filippo Musumeci

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L’anno è il 1910 e il luogo San Pietroburgo. Questo l’anno e questo l’insigne palcoscenico, custode dell’Ermitage e dell’Accademia Imperiale russa di Belle Arti, ove l’appena dodicenne Tamara Rosalia Gurwik-Gorska mosse i primi passi del suo precoce talento artistico, documentato da quel “diario figurato” di deliziosi acquerelli adolescenziali con nature morte floreali (di cui si dirà nel quarto articolo dedicato all’artista).

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Ospite, assieme alla madre Malvina e alla sorella Adrienne, della zia materna Stefa e del marito Maurice Stifter, direttore di una succursale del Crédit Lyonnais, Tamara conduce una vita mondana tra feste in maschera e cene con i membri della famiglia reale Poniatowski. E fu proprio in una di queste feste aperte all’alta società russa che la giovane artista (per l’occasione vestita da contadina polacca con oca al guinzaglio) conobbe nel 1911 il nobile avvocato polacco, Tadeusz Lempicki Junozsa, che cinque anni più tardi, nel 1916, avrebbe sposato in prime nozze nella Cappella dei Cavalieri di Malta della stessa città, ribattezzata nel 1914 Pietrogrado. Appena pochi mesi dopo il matrimonio la nascita in quel 16 settembre della loro unica figlia, Marie Christine, detta Kizette (di cui si dirà nel quinto articolo).

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A seguito della Rivoluzione d’Ottobre nel febbraio 1917 e la caduta dell’Impero zarista, la famiglia di Tamara si rifugia nella capitale danese, Copenhagen, mentre la donna e il marito restano a San Pietroburgo fino all’anno seguente. Nel 1918, Tadeusz, accusato dalla Ceka di far parte della polizia segreta dello zar, viene condannato a sei mesi di prigionia, durante i quali Tamara ottiene dal console svedese il lasciapassare con il quale raggiungere la famiglia in Danimarca, attraverso la Finlandia, e poi Parigi, ove il marito la seguirà dopo lo sconto della pena in patria.

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Finalmente Parigi, finalmente Montmatre, finalmente Montparnasse!!

Eppure gli esordi parigini non furono dei più felici e da esule russa, una fra tante, visse nella città scenario di rifugiati politici e sopravvissuti: generali senza più plotone, militari senza più uniforme, se non quella delle catene di montaggio, governatori senza potere e improvvisatisi fotografi, granduchesse adesso declassate al rango di ricamatrici e cucitrici di abiti per bambole destinate al mercato borghese. Lo stesso Tadeusz deve inventarsi una nuova professione come commerciante di tesori fuoriusciti dalla Russia, tra cui una serie di tappezzerie Beauvais e Gobelins, già di proprietà di nobili storici. E così sarà fino al 1924, anno in cui l’uomo accetterà un impiego presso la Banque de Commerce.

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La capitale francese era rifugio anche del popolo della provincia russa, artisti ebrei dell’Est sfuggiti ai Pogrom (sollevazione violenta popolare, dalle finalità antisemite, contro le comunità ebraiche), i quali avevano ricreato uno shtetl (insediamento ebraico) in un unico e disperato falansterio, La Ruche, nata dallo smantellamento dell’Esposizione Universale del 1900, poco distante dai macelli di Vaugirard. Qui, ove ognuno dei residenti aveva una piccola stanza chiamata “bara”, nel 1910 approdò Marc Chagall e nel 1912 Soutine. Non furono i soli! Tanti gli artisti ivi installati, come il russo Archipenko, Zadkine, Mané-Katz da Kiev e la scultrice Chana Orloff, amici di Tamara.

Una nuova esistenza, dunque, tutta da reinventare e pianificare nell’affollato e palpitante teatro de “la vie moderne”.

Tamara e Tadeusz non possiedono ancora una fissa dimora e per due anni (1918-20) vivono stanze di modesti alberghi di periferia sbarcando il lunario con la vendita dei gioielli della donna. Ma la polacca è tenace e determinata a restare a galla e non lasciarsi inghiottire da fame e miseria.

Ella vuol dar voce al suo talento, vuole che la gente la conosca, che la critica si accorga di lei; vuole, insomma, diventare un’icona della modernità. E ci riuscirà presto!

Come già detto nel precedente articolo, sarà la sorella Adrienne a svolgere un ruolo determinante per la carriera di Tamara; lei a stimolarla e persuaderla a frequentare i corsi di pittura del simbolista Maurice Denis presso l’Académie Ranson sin dal 1920. Sarà solo l’inizio!

L’anno seguente, il 1921, è quello della svolta: diventa allieva del franco-cubista André Lhote, l’artista che ricorderà come suo unico maestro, e debutta nel mondo della moda parigina, disegnando cappelli e toque neri per le stiliste Camille Roger e Marie Crozer. Questa svolta comporta di conseguenza, sempre nello stesso anno, l’abbandono della precarietà degli alberghi periferici per un più dignitoso domicilio presso l’uguale periferia di Place Wagram, 1, 17° arrodissement, ove risiederà col marito fino alla metà del 1923.

E il 1921 sarà anche l’anno di un’altra svolta nella vita “privata” dell’artista, ossia la scoperta della propria bisessualità e l’inizio della relazione con la vicina di Place Wagram, Ira Perrot, amante, musa e modella, almeno fino al 1932, di alcune tra le più celebri tele della pittrice.

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Lo studio-abitazione di Place Wagram,1, fu documentato in un servizio fotografico del 1923 da Costantin Stifter (cugino della Lempicka, figlio degli zii materni di questa, Stefa Decler e Maurice Stifter), per il numero del 15 gennaio 1924 della rivista “Arlequin” – il quindicinale fondato da Max Viterbo, direttore del locale “Le Cigale”, tra i cui collaboratori comparivano nomi come Capiello, Van Dongen, Larionov, Foujita e il grande Picasso – dal titolo Les envois de Mne Sempitzky aux Indépendants.

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Questi spazi interni sono restituiti in tutta la loro fedeltà dalla stessa Tamara nel dipinto “Angolo d’atelier” (1924 circa; olio su tela, 73 x 50 cm. Collezione Yves e Françoise Plantin), ove i ricordi dei modelli cubisti lhotiani sono giocati sui toni del blu dell’angolo scarno della stanza, composto solamente dalla minimale cassapanca lignea e da tre ripiani, altrettanto lignei, occupati da pochi oggetti utili, per lo più, alla resa di nature morte: otto libri, variamente disposti, un portacandela (anch’esso blu) e una bottiglia di vino rosso (per metà vuota). E la scelta di una semplificazione cromatica è rappresentata dal netto contratto tra le tonalità di blu e quelle grigiastre della parete accanto, con l’ampia apertura verso i tetti della piazza sottostante, e dall’ocra del parquet, diligentemente riprodotto.

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In quell’occasione l’obiettivo fotografico di Costantin Stifter immortalò diversi lavori della cugina: “Il cinese” (1921 circa; olio su tela, 35 x 27 cm. Le Havre, Musée d’Art moderne André Malraux), presentata al Salon d’Automne del 1922 e “numero 1” del suo catalogo generale, in cui la pittrice combina modelli espressionistici e cubisti lhotiani; e “Strade nella notte” (1923 circa; olio su catone, 50 x 33,5 cm. Stati Uniti, collezione Richard e Anne Paddy), anch’esso composto sui modelli lhotiani ed espressionistici a cui si sommano le rimembranze degli amici futuristi. Il buio della città è schiarito dalle luci artificiali dei lampioni tradotti dall’artista come paralumi dai riflessi conici su uno scorcio notturno dal profilo tagliente e dinamico, tutti giocati sui colori terrosi.

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A proposito di futuristi, con Filippo Tommaso Martinetti la Lempicka fu legata da un’intensa amicizia e comunanza di ideali, come quella volta in cui i due si lasciarono andare a una moralitè lègendaire. La donna narrò quell’aneddoto notturno a La Coupole di Montparnasse quando Martinetti la invitò con altri del gruppo a sedersi al tavolo del locale per pianificare l’incendio del Louvre, visto come mausoleo dell’arte ritenuta, ormai, morta. Ma l’autovettura della Lempicka, scelta come mezzo di trasporto, non fu più trovata ove la donna ricordava di averla posteggiata. E fu così che anziché appiccare il fuoco al museo  si ritrovarono in commissariato a denunciare il furto dell’auto, esaurendo, in tal modo, l’istintiva sregolatezza bohème, esplosa, come tante, nel fervore delle notti parigine.

E le notti parigine, con la poesia dei suoi scorci e l’eterogeneità dei suoi abitanti, ispirò, come oggi, rinomati fotografi dell’Est e tedeschi come Mario von Bucovich, Germaine Krull, Moï Ver, Ilja Ehrenburg e degli ungheresi André Ketész e Gyula Halsz, che nel 1932 assumerà lo pseudonimo di Brassaï. Questi giunge nella capitale francese nel 1924 come pittore e giornalista, ma a seguito dell’incontro con Ketész si dà alla fotografia, documentando nel volume illustrato “Paris de nuit” (1933) alcuni degli angoli più noti della città, svuotati, però, del loro caotico ritmo diurno e assopiti nel loro lirico silenzio. Stessa operazione sarà ripetuta dallo stesso André Ketész nel suo volume illustrato “Paris vu par André Ketész” (1934), il quale sin dal 1925, anno del suo arrivo a Parigi, immortala affinità elettive stabilite con i tanti volti della città.

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Del 1923 è anche “Il fondo rosa” (“Ritratto di Bibi Zogbè”; olio su tela, 47 x 38,7 cm. Collezione privata), ove Tamara continua a sperimentale i modelli cubisti lhotiani ed espressionistici verso una ricomposizione geometrica della struttura anatomica della modella Bibi Zogbè, ovvero la pittrice e amica argentino-libanese specializzata in natura morte floreali, «della quale la Lempicka coglie la fisionomia, ma anche la particolare gestualità: i grandi occhi sbarrati, il naso  importante e, atteggiamento che doveva esserle abituale, la mano portata al volto» (Gioia Mori).

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Nello stesso anno espone al Salon des Indépendants (10 febbraio – 11 marzo) e al Salon d’Automne (1 novembre – 16 dicembre) di Parigi, ove è presentato per la prima volta la tela che le darà i primi consensi critici, “Prospettiva” (“Le due amiche”, 1923; olio su tela, 130 x 160 cm. Ginevra, Association des Amis du Petit Palais), in vendita alla considerevole cifra di 15000 franchi (di cui si dirà nell’ottavo articolo).

Tra aprile e ottobre dello stesso 1923 la Lempicka si trasferisce con Tadeusz al numero 5 di rue Guy de Maupassant, 17° arrondissement, nel cuore di Montparnasse, appartamento che occuperà fino al 1930.

Sono anni di frenetica attività creativa in cui realizzerà gran parte dei soggetti che la renderanno immortale già presso i contemporanei, di viaggi tra Roma, Firenze e Venezia, di esposizioni personali e collettive, di riconoscimenti e onori. Ma tutto ciò è accompagnato da altrettanti frenetici eccessi di frivolezza e spensieratezze mondane che il paziente marito riesce a stento a tollerare: gli incontri extraconiugali e la solida relazione con Ira Perrot; l’abuso di cocaina, le notti bianche tra night e bordelli, nonché le lunghe sedute di lavoro fino all’alba in compagnia delle sinfonie di Wagner a volume insostenibile. Intanto, intraprende nuove relazioni omosessuali, senza, comunque, interrompere quella con la Perrot: con Rafaëla nel 1927 e la cantante-attrice Susy Rocher Solidor nel 1932, entrambe muse e modelle della Lempicka.

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Il marito sopporta ancora per qualche anno: cinque per l’esattezza, fino al 1928. Poi la rottura! Partito l’anno prima per lavoro alla volta della Polonia, Tadeusz conosce Irene Spiess, che sposerà cinque anni più tardi a Lodz, il 19 marzo del 1932. Tamara subisce il colpo ed è costretta ad accettare il nuovo legame dell’ormai ex marito, ma seguito del quale vivrà un profondo stato depressivo, che l’affliggerà fino alla fine degli anni Trenta.

Tuttavia, un’artista come lei non può darsi certo per vinta! Nonostante tutto, non si lascia soffocare dalle vicende personali e continua a dipingere con maggiore enfasi e ardente ricerca.

Il 1928 è ricordato non solo per il divorzio da Tadeusz, ma anche per l’incontro con il barone ebreo austro-ungarico Raoul Kuffner de Dioszegh, che sposerà nel 1934 a seguito della morte della moglie di questi, la viennese Cara Carolina von Haebler. Nonostante fosse sposato e padre di due figli, Peter e Louisianne, Kuffner conduceva a Parigi una vita piuttosto libertina, ove era nota la sua relazione con la ballerina spagnola Nana de Herera, per la quale il barone commissionò alla polacca un ritratto, diventandone, poi, anche uno dei maggiori collezionisti.

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Fu, questa, l’occasione che fece “scoccare la scintilla” tra i due, uniti per oltre un trentennio, fino alla morte dell’uomo in quel 3 novembre 1961 durante la traversata oceanica dall’Europa agli State.

Il continente americano accolse con entusiasmo la prima visita ufficiale della Lempicka, approdata nella Grande Mela il 3 aprile 1929 a bordo del transatlantico “Paris” con un permesso di soli sessanta giorni, presto prorogato di due anni, nei quali l’artista si divise tra New York, Chicago, Santa Fe e Detroit, contesa da milionari, collezionisti e galleristi, le cui commesse le frutteranno, pare, un milione di dollari.

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Ma anche due anni di nuovi stimoli e ispirazioni, scaturiti dall’ammirazione per i profili avanguardistici dei grattacieli, deputati quale sfondo urbano ideale per i suoi nudi seducenti e “metanatomici”.

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P.S. Appuntamento con la Terza Parte del nostro viaggio nell’arte di Tamara de Lempicka.

BIBLIOGRAFIA

Tamara de Lempicka, catalogo della mostra a cura di Gioia Mori (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

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TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (Prima parte)

 “LA REGINA DELL’ART DÉCO”

di Filippo Musumeci

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Ho provato le febbricitanti passioni, le spasmodiche pulsioni, le indomabili trepidazioni. E tutto ciò per una creatura nobile, una donna eccentrica, un’artista sublime.

Invaghirsi di una “Gran Dama” di vocazione internazionalistica e di labile identità; di colei che incarnò la raffinatezza blasonata dell’Art Déco, la fece propria e la riscrisse con l’inconfondibile charme del suo glamour, fino a divenirne la rappresentazione iconica più autentica. Non è un azzardo dichiarare come l’Art Déco sia nata con lei e in lei dimorò per tutto il corso della sua costellata e osannata esistenza, lunga un ottantennio.

Una russo-polacca bianca “anticomunista” che della sua dichiarata bisessualità, della sua natura trasgressiva, del suo dandysmo declinato al femminile ne fece l’anticonformistico vanto della propria libertà intellettuale, creativa e socio-culturale. Nessuno seppe sottrarsi all’incantesimo della sua eleganza: Imperatori, zaristi, nobili magnati, collezionisti e galleristi fecero a gara per aggiudicarsi una sua creazione, e senza badare troppo alle vertiginose quotazioni di cui godeva già in vita. In un articolo della rivista “Donna” dell’aprile 1930, Luigi Chiarelli la descrisse in questi termini:

“Alta, morbida ed armoniosa, nelle movenze, tutta accesa di vita, col volto illuminato dai grandi occhi un poco artificiali, con la bocca facile al sorriso e rossa dei più rari rouges parigini, ella fa convergere sulla sua persona tutti gli sguardi e tutte le curiosità. Che passi inosservata non è possibile tanto splende nei colori dei suoi abiti, nei toni della pelle, nella femminilità raggiante da tutta la persona”.

Fu lei la “Regina” di una fede avanguardistica vissuta fra decadenze e ricercatezze, lustri e debolezze, ambizioni e contraddizioni per il fine ultimo “d’imprimere l’impronta dei tempi moderni”.

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Tamara Rosalia Gurwik Gorska, passata alla gloria come Tamara de Lempicka Junozsa, Baronessa Kuffner de Dioszegh, per via dei due titoli nobiliari acquisiti dai due matrimoni: il primo con il nobile avvocato polacco Tadeusz Lempicki Junozsa (1916-28); il secondo con il barone ebreo austro-ungarico Raoul Kuffner de Dioszegh (1934-61).

Luogo e data di nascita restano avvolti nel mistero alimentato dalla stessa e mai svelato: Varsavia, Mosca o San Pietroburgo? E, soprattutto, quando tra il 1895 e 1898? Improbabile il 1902, anno erroneamente riportato sul certificato di morte. Solo su quest’ultima, tuttavia, non si hanno dubbi: il 18 marzo 1980 a Cuernavaca (Messico), località scelta nel 1976 da Tamara come suo ultimo rifugio.

E il luogo di sepoltura? Neppure questo esiste! Il 27 marzo dello stesso anno, a seguito della solenne celebrazione funebre in Cattedrale, la figlia Marie Christine detta Kizette, nata dal primo matrimonio (1916-2001) e l’ultimo giovane compagno della Lempicka, Victor Manuel Contreras, prendono posto su di un elicottero portando con sé l’urna contenente le ceneri della “dama polacca” per il loro ultimo solenne viaggio: il vulcano Popocatepetl, sopra il quale verranno sparse.

Volgeva così al termine l’avventura terrena di un’artista “pura” e di una donna “unica”. Tuttavia, ciò non segnò la nascita del suo mito, come sovente accadde (e accade tutt’oggi, ahimè!) per numerosi artisti. Il mito della Lempicka nacque prima, … parecchi decenni prima! Quando la sua aurea splendeva e illuminava lo stile, il gusto e la moda degli anni Venti e Trenta dei due continenti, Europa e America, in cui dimorò e regnò incontrastata e sovrana.

E quel mito rivive oggi più che mai per l’eco dell’antologica italiana fortemente voluta dalla più accreditata studiosa vivente della Lempicka, la storica d’arte Gioia Mori, la quale ha curato e coordinato egregiamente le due tappe nostrane di Palazzo Chiablese di Torino, prima, (19 marzo – 06 settembre 2015) e Palazzo Forti di Verona, poi, (20 settembre 2015 al 31 gennaio 2016).

Un archivio pari a 2168 documenti, capillarmente visionati dalla Mori (e per la quale non ancora del tutto completo!), al fine di ricostruire le 114 tappe espositive della baronessa Kuffner:

  • 42 presenze ai Salon parigini: (14 al Salon d’Automne; 12 al Salon des Indépendants; 8 al Salon des Tuileries; 7 al Salon FAM; 1 al Salon des femmes peintres et sculpteurs).
  • 16 mostre personali: 7 a Parigi (1930, 31, 32, 55, 61, 72, 80); 3 a New York (1939, 41, 61); 2 in Italia (Milano, 1925; Roma, 1957); 1 a Vichy (1961); 1 a Los Angeles (1941); 1 a San Francisco (1941); 1 a Milwaukee (1942).
  • 56 mostre collettive: 29 in Francia, 14 negli Stati Uniti, 4 in Gran Bretagna, 2 in Italia, 2 in Polonia, 1 in Canada, 1 in Germania, 1 in Svezia, 1 in Belgio, 1 in Cecoslovacchia.

Ma cosa fece scattare la scintilla tra la baronessa e il mondo fatato dell’Arte? Chi fu artefice di cotanta riuscita simbiosi? Chi (mi si perdoni l’anglicismo), il suo talent scout?

La Lempicka nacque da Boris Gurwik-Gorska, di origini russe, e da Malvina Decler, polacca di origini francesi. Ebbe n fratello maggiore, Stanczyk, e una sorella minore, Adrienne (1899-1969), futuro e celebre architetto, insignita della Legion d’Onore nel 1939, nonché futura moglie dell’altrettanto celebre collega Pierre de Montaut.

Ebbene, si deve proprio ad Adrienne il merito di aver scoperto il talento innato della sorella maggiore, incoraggiandola nel 1920 a frequentare i corsi di pittura tenuti dal simbolista Maurice Denis presso l’Académie Ranson di Parigi, ma già abbandonati l’anno dopo, nel 1921, a favore delle lezioni franco-cubiste di André Lhote, artista che la Lempicka riconoscerà come suo unico maestro. E sempre ad Adrienne si deve l’influenza esercitata su Tamara nel persuaderla per il suo primo debutto pubblico al Salon d’Automne del 1922.

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Tuttavia, gli anni della formazione presso Denis e Lhote sono preceduti, già dal 1907 – vale a dire all’età di circa 9-10 anni? Probabile, considerando il 1898 come anno di nascita – da una timida e intima attività figurativa ad acquerello, documentata da un giovanile diario figurato di fogli da disegno con nature morte floreali: primo genere pittorico su cui l’artista testa la sua abilità nell’indagine di oggetti “messi in posa” alla maniera fiamminga (e di cui si dirà nei prossimi articoli, già in cantiere).

E poi, come dimenticare gli esordi nell’universo stellato della moda come illustratrice e indossatrice a partire dal 1921? Collabora con le celebri stiliste Camille Roger e Marie Crozet, per le quali disegna, rispettivamente, capelli e toque, con Rose Descat, Le Monnier, Lucien Lelong e Marcel Rochas. O ancora, le affinità con la “Settima arte” e gli scatti fotografici di André Ketèsz, Brassai, Francois Kollar e Laure Albin Guillot.

Dunque, una personalità poliedrica, capace di spaziare da un campo creativo all’altro con assoluta disinvoltura e padronanza di competenze stilistiche.

“Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”, per dirla alla Gioia Mori! Che è, poi, il leitmotiv dell’esposizione italiana suddivisa in sette sezioni (1. “Tutti i mondi di Tamara de Lempicka”, 2. Madame le Baronesse, Modern Medievalist, 3. The Artist’s Daughter, 4. Sacre Visioni, 5. Dandy déco, 6. Scandalosa Tamara, 7. Le “Visioni amorose”), per mezzo delle quali al visitare è dato modo di esplorare le variopinte sfaccettature di quella che D’Annunzio soprannominò “la donna d’oro”: «Un affresco a tutto tondo di una sensibilità femminile piena di contraddizioni e aspirazioni, che con freddezza e volontà aveva trovato spazio nell’affollato mondo artistico di Montparnasse, e con sapienza, reticenze, bugie, oscuramenti e strategia aveva creato l’immagine affascinate e seduttiva di un’artista in cui frivolezza e leggerezza opportunamente celavano fatiche, studio, delusioni. La profondità, insomma» (Gioia Mori).

Giancarlo Marmori nel suo storico saggio del 1977 dedicato alla pittrice polacca scrive che nei dipinti di questa “le iperboli sulla bravura della pittrice vanno a mescolarsi all’esaltazione della sua bellezza ed eleganza impareggiabili”.

Ed è questo lo spirito che ha dato linfa e forma a questo progetto di Sul Parnaso, strutturato in dieci articoli in cui si racconterà del percorso iconografico pianificato e proposto nella mostra appena conclusasi in quel di Torino e ora diretta in quel di Verona. Otto articoli per raccontarvi e rimembrare quelle che non sono state semplici visite (ripetute regolarmente), bensì, suggestioni, emozioni, visioni cerebrali dall’inguaribile carica seduttiva e generate da un’artista “divina”.

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La figlia Kizette fornisce un quadro completo del carattere della madre nella biografia “Passion by Design: The Art and Times of Tamare de Lempicka”, redatta con Charles Phillips ed edita nel 1987:

«Aveva le sue leggi, ed erano quelle degli anni Venti. Le interessavano soltanto quelle persone che lei chiamava “le migliori”: gli aristocratici, i ricchi e l’élite intellettuale. Come qualunque persona di talento, anche mia madre era convinta di meritarsi tutto ciò che il mondo poteva offrire e questo le dava la libertà di frequentare solo chi poteva aiutarla o contribuire a sviluppare il suo ego. Viveva sulla Rive Gauche, dove dovevano vivere gli artisti e detestava tutto ciò che era borghese, mediocre e “carino”. Indossava solo abiti di lusso per accecare il pubblico e creare un’aura di mistero attorno al suo passato, alla su età, alla sua vita in Polonia e in Russia, e perfino sulla sua stessa famiglia. La ragazza polacca di buona famiglia, la sposa bambina, l’emigrante, la madre giovanissima furono inghiottite dai suoi dipinti come paraventi del camerino di un diva. Al loro posto comparve la bellezza moderna, affascinante, raffinata e persino decadente del celebre autoritratto che pochi anni dopo avrebbe dipinto per la copertina della rivista di moda Die Dame. “Io vivo ai margini della società, diceva Tamara. “Per quelli come me le regole comuni non valgono”. Fin dal principio, mia madre aveva puntato tutto sullo stile».

Vi diamo appuntamento al prossimo articolo sulla “Regina dell’Art Déco”.

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EDWARD HOPPER: QUEL CIAK CHE SA DI “QUADRO”

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Dei rapporti tra le opere di Edward Hopper e la “settima arte” – non necessariemente di matrice statunitense – s’indaga e discute, oggi più di ieri, in modo sistematico e, di volta in volta, con maggior respiro.
Per la critica italiana l’occasione ghiotta si concretizzò a monte della doppia e fortunata esposizione antologica hopperiana milanese (Palazzo Reale, 14 ottobre 2009 – 31 gennaio 2010) e romana (Fondazione Roma Museo, 16 febbraio – 13 giugno 2010).
Il ricordo della visita in quel di Milano è ancora lucidissimo e serbo soprattutto l’immagine delle ripetute ed estasiate soste dinanzi a Moning Sun (Sole del mattino, 1962; olio su tela. Columbus Museum of Art, Ohio) e Second Story Sunlight (Secondo piano al sole, 1960; olio su tela. Whitney Museum of American Art, New York).

 

Il catalogo della mostra Edward Hopper (a cura di Carter E. Foster. Skira editore), offrì preziosi spunti di riflessione per comprendere più dettagliatamente la produzione figurativa del pittore realista e il suo sguardo indagatore sulla società americana tra gli anni ’10 e ’60 del Novecento.
Tra i saggi proposti, quello di Goffredo Fofi, “Hopper e il cinema”, più di altri contribuisce a ricostruire le influenze largamente esercitate dall’artista sul processo creativo di celebri cineasti: Howard Hawks (The Big sleep), Billy Wilder (The lost weekend), Win Wenders (Non bussare alla mia porta, Paris e Texas), Jim Jamusch (Broken flowers), Todd Hayner (Far from Heaven), Michelangelo Antonioni (Deserto rosso e Il grido), Dario Argento (Deep Red), Brian De Palma (Gli intoccabili), John Huston (Il mistero del falco), Herbert Ross (Pennies from heaven), Woody Allen (Manhattan), Terrence Malick (Days of Heaven) e, non ultimo, Alfred Hitchcock (Psycho, La finestra sul cortile, Vertigo e Intrigo internazionale).

4  Sono questi i maggiori e dichiarati debitori dell’arte di Hopper: coloro che hanno volutamente ridipingere in pellicola le inquadrature paesaggistiche e gli scorci urbani immortalati dal pittore sulla tela. Tuttavia l’elenco è più nutrito di quanto si possa credere e non sarebbe difficile, attraverso un lavoro di confronto e fermo immagine, riscontrare rimandi visivi alle opere di Hopper, reinterpretate in singoli fotogrammi sin dagli anni ’40 del secolo scorso.
Ma questa non è la sede più specificatamente idonea per un’operazione così certosina. Qui, al più, si vuole attenzionare, senza pretesa alcuna, il palese e incontrovertibile rapporto tra due generi artistici, pittura e cinema, apparentemente diversi, ma profondamente affini.
Basti pensare ad alcune scene di Rear Window (1954) di Hitchcock, ove il “genio del brivido” scruta l’intimità (oggi diremmo la privacy) degli appartamenti dirimpettai del fotoreporter L.B. “Jeff” Jeffries servendosi proprio dell’occhio “esterno” di quest’ultimo e ricreando la stessa silente sensuale atmosfera contenuta negli innumerevoli interni metropolitani di Hopper, come Night Windows (1928), da cui il regista prende in prestito perfino il particolare del dorso inclinato dell’ignota donna in abito rosa del dipinto, ripetuto da miss Torse, la procace ballerina della pellicola.

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Anche Woody Allen rese omaggio al pittore in una scena di Manhattan (1979) in cui Isaac Davis e Mary Wilke, seduti di spalle su di una panchina di fronte all’East River, fissano l’orizzonte riprendendo lo scorcio prospettico di Queensborough Bridge (1913).

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Ancora, Billy Wilder cita la serie dedicata da Hopper agli “interni di caffè”, Automat (1927), Clop Suey (1929) e il celeberrimo Nightawks (1942), in più scene di The Lost weekend (1945) in cui Ray Milland – nel ruolo che nel 1946 gli valse l’oscar come miglior attore protagonista – , ormai schiacciato dall’alcolismo, vive l’epilogo tragico dei tanti “giorni perduti” occupando in solitaria i freddi tavoli dei locali newyorkesi, nella disperata ricerca di un precario appiglio per il quale archiviare una carriera costellata di insucessi letterari.
Sono dipinti, questi, che attraggono il nostro sguardo perché costruiti con diagonali che esaltano l’immobilità autoreferenziale dei personaggi e la loro realtà materica oltre il moltiplicarsi delle fonti luminose e i densi spessori volumetrici della città.

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Si è accennato a Nightawks (1942) con il bar Phillies, forse il più celebre dell’intera produzione pittorica hopperiana, ma indubbiamente il più “ridipinto” in celluloide nell’arco di oltre un sessantennio da maestri della cinepresa succitati e per il quale lo stesso pittore disse: «Inconsciamente, forse, ho dipinto la solitudine di una grande città».

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In una scena di The maltese falcon (Il mistero del falco 1941) di John Huston, Humphrey Bogart attente due loschi personaggi all’interno di un locale di San Francisco del tutto simile a quello creato da Hopper. Ma, al di là di questi espliciti adattamenti scenografici di location, basterebbe soffermarsi sulla coppia seduta al bancone del locale per scorgerne attinenze estetiche tra l’uomo col borsalino e sigaretta in mano e l’archetipa immagine costruita da Humphrey Bogart nelle sue storiche performance.

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Goffredo Fofi scrive nel suo, già, citato saggio che l’opera di Hopper è: «contenuta, controllata, apparentemente distante, fredda, attenta alle solitudini e non alle folle di una società in movimento, alle sue agitazioni scomposte e spesso frenetiche».
Sempre Fofi scrive: «Nell’opera di Hopper c’è un doppio movimento dell’occhio non – selvaggio, anzi educatissimo: quello che va da fuori il quadro a dentro, e il suo contrario. C’è l’occhio che guarda dall’esterno dentro le stanze, i bar, gli uffici, come da cinematrografiche gru o da carrelli immobilizzati al punto giusto, il punto geometrico che solo l’intuito del regista sa fissare (si vede il regista, dicevano i grandi registi hollywoodiani, da dove piazza la macchina da presa), ed è qui che l’occhio della macchina diventa quello dello spettatore».
Quindi l’occhio dell’artista è simile a quello di un regista o di un fotografo, in quanto è questi a fornire massimo valore al rapporto tra personaggi e ambiente, decidendone pose e atteggiamenti, l’intensità più adatta delle sue luci e la disposizione dei vari volumi nella scena.
Pittura paesaggistica, ma soprattutto metropolitana e marcatamente americana, quella di Hopper. Eppure, le sue storie si muovono su sfondi scenografici assolutamente privi di automobili e di folle vocianti, nonostante il crescente boom economico a stelle e strisce, in cui esterni e interni si compenetrano e si conseguono in un’unica indissolubile soluzione.
Gli scatti decisi dal pittore, infatti, sono dei “ciak” ove poche figure in pose composte, provvisorie e bloccate, guardano fuori dall’inquadratura verso ampie distese di praterie o ristretti scorci urbani, come fossero in pausa, in sosta o in perenne attesa. E quest’eterna attesa altro non è che “solitudine”: il male che non si debella, la condanna infertile del loro vissuto, quella che non porterà nulla di nuovo nelle loro esistenze e che lascerà tutto com’era e come dovrà essere.
Queste figure, a loro volte, sono osservate dallo spettatore con occhio attento e a “distanza”, oltre le vetrate, le finestre, le porte: figure che occupano strade e vie della metropoli; oppure gli interni di stanze d’albergo, caffè notturni, sale d’attesa, uffici,verande o semplicemente camere dei propri solitari appartamenti, delle proprie abitazioni, alla ricerca di un rifugio di pacifico silenzio.
Ed è la casa, intesa come dimora della “solitudine”, tra le scenografie più accuratamente indagate dal pennello di Hopper, come House by the Railboard (La casa sulla ferrovia, 1925: il primo dipinto dell’artista entrato nelle collezioni del Moma di New York), fonte d’ispirazione per Days of Heaven di Terrence Malick e Psycho di Hitchcock. In quest’ultimo, soprattutto, l’immagine della casa “vittoriana” come dimora della “solitudine” muta, piuttosto, in luogo di mistero e condanna ove si consuma il male abilmente architettato dallo psicopatico Norman Bates, soltanto sul finale svelato.

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Come ricorda la storica d’arte Orietta Rossi Pinelli, il quadro di Hopper ben di prestava al soggetto hitchcockiano per la collocazione solitaria e misteriosa; «unica presenza, ma neppure in primo piano; per quella possibilità di una vita all’interno che si presume solo da qualche persiana alzata; per quella sospensione del tempo che esclude ogni possibilità di azione».
Paradigma della pittura americana oggettivistica, House by the Railboard, in quanto segno della civiltà, ha caratteri antropomorfi, a cui sono contrapposti i binari della ferrovia, aventi la funzione di una linea d’orizzonte posta in primo piano. Secondo lo storico d’arte tedesco Ivo kranzfelder, «Hitchcock ha ripreso la tecnica di Hopper della visuale dal basso e dei piani inclinati nel film Psycho. […] Il dipinto ha l’effetto di un’istantanea presa da un treno in corsa, ma sono le stesse rotaie, sulle quali il treno dovrebbe muoversi, a scorrere nel quadro. Il movimento è congelato, esso non si attua nel dipinto, nella realtà dell’immagine».

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E dopo Hichcock è tutto un continuo remake di quella casa “vittoriana” dal carattere “gotico”, cioè sinistro, che sfocia fino a risultati più “commercialmente” intesi e di qualità opinabile, seppur di magnetica presa sugli amanti del genere horror e conseguenti facili guadagni al botteghino.

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Ma il mondo è bello perché vario e questa, per concludere, è fortunatamente un’altra storia!

Filippo Musumeci