INTERVISTA DI FRANCESCA BIANCHI ALLA PITTRICE VENEZIANA FERNANDA FACCIOLLI.

Viaggio alla scoperta dei culti ancestrali greci con Fernanda Facciolli

di Francesca Bianchi
La scorsa settimana ho avuto l’immenso piacere di incontrare la pittrice e professoressa veneziana Fernanda Facciolli. Con la cortesia e l’ospitalità che la contraddistinguono, l’artista e suo marito Emmet ci hanno aperto le porte del Dictynneion, il loro spazio espositivo, sito in Campiello del Sole, a Rialto, permeato dalla presenza di antiche spiritualità femminili. Varcando la soglia, sembra di essere immersi in uno spazio sacro, in cui prendono corpo le forze primordiali della natura, venerate nel mondo preclassico del Mediterraneo.
Donna di straordinaria cultura ed eleganza, nel corso della nostra entusiasmante chiacchierata la pittrice ha ripercorso le tappe più importanti della sua vita e della sua carriera, soffermandosi con estrema minuzia sui temi cardine della sua arte: l’amore, i miti greci e il culto preistorico della Grande Madre mediterranea. Con orgoglio ci ha anche raccontato la genesi del suo libro “Con Pausania sulle tracce di Esiodo”, frutto delle scoperte fatte nei suoi numerosi viaggi in Grecia in compagnia del marito, sotto la guida fedele del geografo greco Pausania (II sec. d.C.).
Mossa da una grande desiderio di conoscenza e da un’inesauribile energia, la pittrice è fortemente persuasa che con l’eterno e universale linguaggio dell’arte possa rendere partecipi delle sue scoperte gli ammiratori dei suoi dipinti, trasmettendo loro la stessa gioia di vivere che da sempre anima la sua creatività.

3 faccioli
Signora Facciolli, quando è entrata l’arte nella sua vita?
Essendo figlia d’arte, ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente in cui si coltivava grande passione per l’espressione artistica. Mio padre era un famoso ritrattista paesaggista e ogni domenica mi portava a visitare gallerie d’arte. All’età di due anni realizzai la mia prima figura umana, gelosamente conservata da mia madre. Da allora ho fatto del disegno quasi l’unico mio gioco di bambina.
Terminati gli studi artistici, sono approdata al mondo della grafica, per poi gettarmi definitivamente nella pittura, fino a sviluppare in questi ultimi anni idee e contenuti legati alla dimensione preistorica della dea Madre. All’età di 25 anni ho vinto un concorso per una cattedra di pittura, affiancando così all’avventura artistica, fatta di mostre collettive e personali, quella della didattica, che mi ha consentito di trasmettere ai miei allievi il bello e il buono, arricchiti con l’esperienza della professione artistica.
Il Suo sogno di bambina era quello di fare la pittrice?
No, da bambina sognavo di fare la maestra, perché per me la maestra era la più grande figura di potere. A 14 anni, invece, avrei voluto fare la pittrice, con la speranza di realizzare così un sogno di mio padre. Il destino ha voluto che nella mia vita sia riuscita a fare sia la pittrice che l’insegnante.
Cosa significa per una pittrice insegnare l’arte?
Per me insegnare significa passare a qualcuno che ne farà buon uso il meglio che ho raccolto dalle mie esperienze. Devo dire che più faccio esperienze, più nasce in me un immenso desiderio di raccontarle. Credo che compito primario di ogni artista sia quello di scorgere il bello e, una volta trovato, farlo vedere agli altri. Chi ha avuto modo di vedere i miei lavori, ne ha ricevuto, credo, un’intensa elevazione spirituale: per me questa è la gratificazione più importante.
Quanto incide l’aspetto spirituale e trascendentale nella Sua ricerca pittorica?
Avendo cantato in gioventù come soprano nel Coro Polifonico Veneziano, ho cercato di trasporre la polifonia dei canti nella mia pittura, maturando fin dall’inizio un linguaggio segnico e compositivo, in cui le vibrazioni sensoriali ed emotive si scompongono e si ricompongono, armonizzandosi in un movimento fluido e polifonico. Poi, constatato che nell’arte vengono rappresentate o scene di sesso o di violenza, ho deciso di rappresentare il bello, l’amore, la serenità. Per me non c’è niente di più bello dell’amore, motore immobile e sostegno dell’umanità. Nei miei quadri spesso racconto l’amore attraverso il simbolismo di un bacio o di un abbraccio.
I sentimenti che scaturiscono dai Suoi quadri sono stati una costante della Sua vita…
Sì, soprattutto l’immenso amore tra me e mia figlia Galadriel, venuta a mancare all’età di 10 anni. Quando è nata, ho provato la gioia più grande della mia vita. I dieci anni vissuti con lei, seppur brevi, sono stati gli anni più intensi e più belli. Il destino mi ha messo a dura prova, ma sono stata tanto amata. L’amore, mia figlia e l’arte sono stati i regali più preziosi che la vita potesse farmi.
Quali sono stati i Suoi maestri?
I miei primi maestri sono stati mio padre e mia madre. Poi Michelangelo, di cui fin da giovane ho apprezzato il modo in cui riusciva ad avvitare su se stesse figure. Ho sempre cercato di mettere nei miei disegni la torsione dei corpi e il dinamismo michelangiolesco. Del resto l’amore, tema costante della mia pittura, è una cosa dinamica.
Come è nata l’idea di trasporre il mito greco nei Suoi dipinti?
Ho iniziato facendo principalmente ritratti e rappresentazioni simboliche del sentimento dell’amore. E’ stato mio marito ad esortarmi a mettere sulla tela i miti greci, mia grande passione. Il mito racconta degli inizi dell’avventura umana; per comprenderlo interamente occorre risalire i tempi della storia fin oltre la storia, ben prima dei testi scritti, e imparare nuovamente a leggere ed ascoltare la Natura, novello Oracolo assolutamente attendibile. Percorrendo la Grecia, le primigenie voci della Natura sono ovunque, sottolineate da una religiosità millenaria che ha conservato, con i segni della fede, i luoghi degli antichi santuari delle Dee Madri.
Come è nata l’idea di dare alle stampe il libro “Con Pausania sulle tracce di Esiodo”?
Con mio marito Emmet abbiamo trascorso tre mesi e mezzo a Tebe, guidati come sempre da Pausania, alla ricerca di testimonianze archeologiche e naturalistiche. Abbiamo realizzato dei quadri, ispirati alle nostre scoperte, facendo così rivivere i miti della città di Tebe. Ci siamo resi conto che una mostra normale non era sufficiente per contenere almeno una parte dei miti più importanti. Così abbiamo allestito una mostra a Venezia in quattro sedi diverse. A causa della mole delle storie citate, nessuno si sentiva in grado di scrivere il testo per un catalogo della mostra. Allora, terminata la realizzazione dei quadri, ho deciso di scrivere personalmente un libro corredato di trentasei opere pittoriche, con annesse fotografie dei siti archeologici, un saggio a metà strada tra il catalogo d’arte e la trattazione scientifica e filologica. In esso svelo l’originaria essenza dei miti e delle religioni dell’età del Bronzo in Beozia, ripercorrendo i luoghi degli antichi santuari.
Studiando l’etimologia dei nomi e associandola ad osservazioni in loco, dimostro che re, principesse ed eroi mitologici erano in realtà elementi della natura: fiumi, fonti, montagne ed alberi pluricentenari. Dopo il Medioevo Ellenico non capivano più che si trattava di elementi naturali, ma li interpretavano come esseri umani.
Nel catalogo c’è un dipinto a cui è particolarmente legata?
Sì, il quadro a cui tengo di più è quello intitolato “La Sfinge di Tebe”. Ai tempi di Pausania era sopravvissuto il ricordo di una dea dal corpo mostruoso, la Sfinge appunto, nemica degli stranieri, che difendeva i confini di Tebe. In realtà, però, la Sfinge era una montagna a forma di leonessa alata in procinto di spiccare il volo. Esiodo, che scriveva in dialetto beotico, nella sua Teogonia chiama la Sfinge Φίξ, genitivo Fikòs. Figòs significa “quercia”, figoon “querceto”. Ne ho dedotto che il monte della Sfinge, lo Sfinghion, il monte beota di Tebe, era il monte del querceto, ricoperto di splendide querce, alberi simbolo della forza che viene donata dal cielo attraverso le acque. Probabilmente, in epoca preistorica, lì sorgeva un santuario dedicato alla Signora del Querceto o della Montagna, una dea del cielo e della fertilità che veniva rappresentata come un animale ibrido con testa umana, corpo di leonessa e ali d’aquila. Visitando gli scavi archeologici del Santuario dei Cabiri, di cui parla Pausania, abbiamo potuto ammirare una montagna enorme, modellata dalla natura in forma di leonessa alata che sta per emergere dalla pianura, allargando le possenti ali. Nel mio dipinto ho umanizzato la montagna, che ho voluto effigiare come la dea egizia Sekmet, con corpo di donna e testa di leonessa, a cui ho aggiunto ali d’uccello. Così la Sfinge per me era la montagna che dall’alto guardava la città di Tebe e la proteggeva con il suo corpo imponente. Nel dipinto, in basso a destra, ho inserito anche il geroglifico egizio che simboleggia la città: un cerchio tagliato in due da una croce centrale.

2 sfinge

Come mai nei Suoi quadri spesso compaiono animali, quali l’oca, l’asina, la scrofa, associati a divinità?
Perché penso fermamente che bisogni restituire la dovuta dignità ad alcuni animali che oggi sono profondamente disprezzati, ma che nell’antichità erano considerati sacri. L’oca degli allevamenti intensivi, finché vive, patisce sofferenze atroci. Allora, memore di Pausania che ci parla di una bimba, Ercina, con l’oca in braccio, ho creato il quadro “Ercina e l’oca”. Ercina in greco si scrive Erkyna, nome composto da er- che significa “su”, “che sta su”, e -kyna, che significa “oca”. Ercina probabilmente designava l’ “Oca delle altezze” o “Oca Celeste”, considerando questi uccelli che volano altissimo e popolano le acque dei fiumi, come le creature inviate dalla dea del Cielo per mostrare agli uomini dove si nascondano le acque della salvezza. Io ho voluto rappresentare il fiume Ercina nella sua doppia veste: umanizzata, come nello stile classico, tramandatoci da Pausania, e “animalizzata”, come nel codice simbolico preistorico. Ho usato anche i colori in modo simbolico: il blu per l’oca, che rappresenta il fiume, e il rosso per la bambina, che rappresenta la terra dell’alveo.

1 ercina

Anche la scrofa e l’asina sono animali da riabilitare. Spesso Atena veniva associata all’asina e gli antichi adoratori in questa associazione vedevano la tenerezza materna.
La scrofa, invece, con le sue 14-18 mammelle era considerata la madre delle madri, simbolo per eccellenza di ricchezza ed abbondanza della Madre Terra che nutre i suoi figli.
La presenza di divinità femminili e una profonda e sincera venerazione per l’antica Dea Madre mediterranea dei tempi preistorici sono temi costanti della Sua arte. Quando e come ha deciso di fare propri questi temi?
Ho trovato grande ispirazione nei testi di Robert Graves e di Marija Gimbutas, dove si dice chiaramente che le varie divinità femminili facevano capo o alla Dea Luna, creatrice e dominatrice delle acque, o alla Madre Terra, dispensatrice di vita per tutti gli esseri viventi. A Volos, in Tessaglia, ho avuto modo di ammirare le statuine votive della Dea Madre, risalenti al 6000 a.C.
Nei tempi più antichi della colonizzazione umana del territorio greco, i primi abitanti cercavano l’acqua dolce, prima di stanziarsi in un determinato luogo. Quando la trovavano, erano profondamente grati verso la roccia che donava la fonte o alla Madre Terra che faceva scaturire l’acqua dal suolo. In cambio di questo prezioso dono, gli antichi Greci onoravano la fonte, il fiume o la montagna con offerte di primizie o fiori. La montagna era considerata il seno della Dea Madre Terra e il fiume o la fonte era la Dea Figlia. Pure gli alberi selvatici o coltivati erano Figlie della Montagna, che a loro volta divenivano le madri dei frutti che nutrivano i nostri antenati. Anche il Cielo veniva riconosciuto come donatore dell’acqua, poiché la terra e la montagna, per donarla agli uomini, dovevano prima raccogliere la pioggia dal cielo. Per questo motivo la volta celeste era per i Greci l’Alta Signora Madre delle acque e la Luna era la sua testa e il suo volto.
E’ sorprendente notare la continuità tra i culti preistorici e quelli cristiani: girando per i paesini della Beozia, nella ricerca dell’ubicazione esatta degli antichi santuari, siamo stati aiutati molto dalla presenza di chiesette ed edicole votive cristiane, che ci segnalavano la presenza dei luoghi sacri antichi e moderni. La sacralità di un luogo derivava dalla presenza di una fonte o di un torrente antichi: allora si ringraziava la Ninfa della fonte o qualche divinità delle acque, oggi si ringrazia la Madonna o qualche santo cristiano, specialmente di sesso femminile, come Santa Paraskevì, ossia Santa Venerdì che, come la dea Venere, favorisce i concepimenti.
Ha qualche sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe che la mia città desse più importanza ai pittori veneziani. Inoltre vorrei che la città di Padova mi permettesse di allestire una mostra dedicata a Reitia, dea degli antichi Veneti. Credo che ogni città debba cercare un’arte contemporanea che faccia uso prezioso dell’antichità e della storia locale: con un’espressività moderna è possibile rappresentare e tramandare la grandiosità dei nostri antenati. Sono sicura che se recuperassimo l’orgoglio locale, le persone sarebbero più serene e consapevoli. Infine mi auguro di riuscire a vivere almeno fino a 80 anni per diffondere nuove ed interessanti storie e tradizioni che sono certa di scoprire nei miei prossimi viaggi in Grecia.

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