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Ho sposato umilmente la causa della Storia dell'Arte per la primaria necessità di nobilitare il mio animo e conferirgli degnamente respiro. M'impegno quotidianamente, con i miei indiscussi limiti del caso, di trasmettere sentitamente ai miei simili, che la vita ha nominato miei interlocutori, non tanto il sapere, bensì l'amore per il sapere. E' l'unico patrimonio di cui dispongo al momento.

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

“BEATA BEATRIX”: LA “MIRABILE VISIONE” di DANTE GABRIEL ROSSETTI

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Beata Beatrix”
    – Anno: 1863-70 ca.
    – Tecnica e dimensioni: olio su tela, 88,4 x 66 cm.
    – Luogo di ubicazione: Londra, Tate Britain Gallery
    – Donato nel 1889 dalla baronessa Georgiana Mount Temple in memoria del marito, il barone Francis Mount Temple.

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Oltre la spera che più larga gira,
passa ‘l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur sù lo tira.
Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore,
e luce sì che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ‘l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ‘ntendo ben, donne mie care.
Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui «qui est per omnia secula benedictus».
(Dante Alighieri, Vita Nova, XLIII canto)

I versi con i quali il “Sommo Poeta” chiude il celeberrimo manoscritto dedicato all’amata Beatrice Portinari sono la diretta e primaria fonte dell’opera pittorica presa in esame, probabilmente, la più carica d’intenso lirismo dal profondo carattere evocativo dell’intero corpus figurativo di Dante Gabriel Rossetti, fondatore della Confraternita dei Preraffaelliti.

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Della mostra torinese “Preraffaelliti, l’utopia della bellezza”, curata da Alison Smith e allestita negli spazi rimodernati di Palazzo Chiablese (18 aprile – 14 luglio 2014. Catalogo della Mostra realizzato da 24 ORE Cultura) e, nello specifico, dell’ “Ophelia” di John Everett Millais, si ebbe occasione di parlarvi QUI.
Visto l’indiscutibile charme esercitato dalle creature nate dal pennello del gruppo inglese, non è mai semplice come mandar giù un bicchier d’acqua compiere una cernita e selezionarne “una” tra le tante. Specie per me, “eterno indeciso” dal cuore d’asino, che a furia dei soliti «Non saprei, temporeggio ancora!!»… la vita mia, ormai, divien vetusta, altro che “nova!”. “Adesso mi metto pure a fare le rime!! Lascia perdere, che è meglio!”.
Tuttavia, a seguito di crogiolarmi nell’andirivieni cerebrale lungo 48 ore, sono felicemente giunto a conclusione certa… O no!!! “Cerchiamo di quagliare, mò!!”.
L’olio su tela dal titolo “Beata Beatrix” assume una duplice valenza simbolica agli occhi del suo autore per via della sovente, e fortemente voluta da questi, identificazione della moglie, Elisabeth Eleanor Siddall (Londra, 25 luglio 1829 – Londra, 11 febbraio 1862) – passata alla storia con il diminutivo Lizzy o Lizzie: modella, poetessa, pittrice e, dal 1860 al 1862, moglie di Dante Gabriel Rossetti – con la Beatrice Portinari di dantesca memoria. Tale parallelismo, meramente intellettuale, fu elaborato da Gabriel Rossetti a partire dagli Cinquanta dell’Ottocento in seno alla produzione ad acquerello su carta di temi neo-medievali danteschi e cavallereschi, oltre che shakesperiani, ove i toni liricamente melodrammatici ne costituiscono l’eloquente cifra stilistica.
Le atmosfere immaginifiche di questi lavori sono dominate da alte, pallide e snelle eroine i cui tratti fisionomici rievocano la figura tormentata e malinconica di Lizzie, indimenticata musa ispiratrice del pittore. È il caso di due squisiti acquerelli della Tate Britain Gallery di Londra: “La visione di Dante: Rachele e Lia” (1855) e “Il sogno di Dante alla morte di Beatrice” (1856), quest’ultimo riprodotto con alcune varianti anche su tela per commessa del pittore e critico William Graham Robertson – il lavoro, ultimato nel 1871, risultò di dimensione triplicate rispetto alle richieste del committente, motivo per il quale finì per essere acquistato dal National Museums di Liverpool – e rappresenta il dipinto di maggior formato mai realizzato da Rossetti nella sua lunga carriera. In una scena lacrimevole, ispirata al sogno del poeta della Vita Nova (tradotta in inglese da Rossetti alla fine degli anni Quaranta), Cupìdo alato, riconoscibile dall’arco e frecce, è presentato sotto forma angeliche nell’atto di baciare sulla fronte la defunta Beatrice, afferrando contemporaneamente la mano di Dante.

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Prima di tornare alla “Beata Beatrix”, conviene, per maggior chiarezza, aprire una breve parentesi sulla produzione ad acquerello dell’artista.
Rossetti fu l’unico della Confraternita a ripudiare (per pochi anni, s’intenda) la pittura a olio in seguito alla prima fase sperimentale degli anni Cinquanta, preferendovi l’acquerello su carta per la più spedita tecnica esecutiva adatta alla minor scala, nonché per la sua attività di scrittore e poeta, poiché il supporto cartaceo favoriva una lettura più attenta ai dettagli di matrice simbolica, quasi fossero una forma poetica trasposta in pittura, con l’impiego di raffinati motivi decorativi e vibranti colori prismatici ispirati ai codici miniati di età medievale, tanto amati dal pittore. La tecnica di questi lavori è arricchita dalle soluzioni di gomme e vernici al fine d’intensificarne i toni e modificarne le proprietà acquose dovute all’acquerello. I restauri hanno dimostrato che Rossetti applicava i colori in modo apparentemente illogico, stendendo sulla carta prima il colore asciutto e successivamente vi costruiva le forme con sottili pennellate, ricreando i neutri bianchi attraverso il ricorso a modalità diverse, quali la raschiatura e il bianco piombo. Quest’ultimo ha subito un processo di sbiadimento per effetto degli agenti atmosferici inquinanti da combustione di carbone, compromettendo, in tal modo, il ruolo originario del bianco di accentuare i cangianti schemi cromatici della composizione. I restauri, ancora, hanno dimostrato come Rossetti, rispetto ai suoi “confratelli” come William Holman Hunt ed Edward Burne-Jones, prestasse minor cura alla stabilità cromatica, prediligendovi, piuttosto, la brillantezza immediata.
Ancora i restauri degli acquerelli avvalorano la tesi che Rossetti non fosse neppure un artigiano meticoloso quanto i colleghi, essendo più incline all’idea ispiratrice del soggetto che alle meccaniche dell’esecuzione. Non di rado, l’artista integrava il supporto cartaceo con strisce supplementari dello stesso materiale lungo i bordi non appena la composizione si fosse spinta oltre i margini consentiti del formato. Quest’ultimo aspetto della prassi metodologia accompagnerà l’artista anche dopo gli anni Cinquanta dell’Ottocento e il trionfale ritorno alla monumentalità delle scene eseguita a olio su tela.
Non stupisce, quindi, che proprio “Beata Beatrix” comprenda ben sei parti supplementari in tela integrate al supporto originario al fine di creare lo spazio necessario intorno alle mani della donna e alla profondità del fondale. A ciò, si sommino le lacune nello strato preparatorio bianco, nonché i residui di materiali di bottega e i peli di pennello intrappolati nella pellicola pittorica.
Gli aspetti succitati divennero oggetto di pesanti critiche da parte di colleghi, e lo stesso Holman Hunt, nonostante le affinità artistiche con Rossetti, non esitò a criticarne l’infelice prassi metodologica, affermando che l’amico «alla fin fine era solo un dilettante» , sminuendo, in definitiva, le qualità tecniche.
Non meno violento fu l’affondo dello stesso William Graham Robertson (il committente del “Il sogno di Dante alla morte di Beatrice” del 1871, oggi al National Museums di Liverpool), il quale nelle sue memorie del 1931 dal titolo Time Was, descrive le qualità tecniche“dilettantesche” di Rossetti, ricordandone l’orrore provato a una mostra al cospetto di un suo dipinto (non specificato) dal «disegno distorto» e dalla «pittura tormentata, come imbrattata». Eppure Robertson prosegue ammettendo come l’immagine, in fondo, lo avesse profondamente ossessinato per la sua intima bellezza, concludendo che l’essenza di un’opera risiede nella sua idea anziché nella resa finale.
A tal proposito, interviene Alison Smith, affermando che Rossetti differisce dai colleghi Preraffaelliti: «perché usava il colore e la consistenza dei suoi dipinti come mezzo per distogliere l’attenzione dall’osservatore da qualsiasi presunto mondo esterno; il colore, la linea e il motivo erano invece usati per evocare la tattilità e il suono in una sorta di sinestesia, quasi l’artista si rivolgesse direttamente alla fantasia uditiva dell’osservatore».
Chiusa questa breve parentesi, torniamo a “Beata Beatrix”.

L’iconografia dell’opera è incentrata sulla figura di Beatrice Portinari a cui Rossetti ha intenzionalmente voluto dare i delicati tratti fisionomici della sua compianta Lizzie, morta suicida l’11 febbraio del 1862 a soli 32 anni per overdose di laudano (un sedativo medico, usato sovente come sostanza stupefacente, estratta dal papavero da oppio (conosciuto come Papaver somniferum, appartenente alla famiglia Papaveraceae), di cui la donna faceva, pare, abuso, minandone la cagionevole salute, seriamente compromessa dopo la bronchite causata a seguito deella sfortunata seduta di posa per l’ “Ophelia” di Millais, di cui si è, già, parlato nel precedente articolo.

L’iconologia del soggetto fu illustrata dallo stesso artista, il quale ribadì come “Beata Beatrix” non fosse una diretta trasposizione figurativa del poema dantesco, quanto la sua complessa interpretazione: «Il quadro, naturalmente, non deve essere considerato una rappresentazione dell’evento della morte di Beatrice, bensì un’idealizzazione del soggetto, simboleggiata da una stato di trance o di improvvisa trasfigurazione spirituale. Beatrice, palesemente assorta in una visione celeste, scorge gli occhi chiusi (come dice Dante in conclusione della Vita Nuova) ‘colui qui est per ominia soecula benedictus’». (Lettera a William Graham Robertson, 11 marzo 1873).
Rossetti, dunque, trasfigura l’opera in un’allegoria amorosa dei sensi e dello spirito per mezzo della rievocazione del XLIII canto della Vita Nova e traccia, a tal fine, un preciso parallelismo tra sé e Dante, identificando il tormento vissuto per la dipartita dell’amata moglie Lizzie con il sentimento lirico cantato dal poeta per la morte di Beatrice.
Il carattere trascendente della scena si materializza in una visione onirica ove l’atmosfera rarefatta dalla vibrazione cromatica nonché dall’indeterminatezza dei volumi si traducono in una dimensione angelicamente sospesa e melanconica, dolcemente rischiarata dalla calda e carezzole luce dorata, come infinitesime particelle del pulviscolo atmosferico.
La donna, dalla lunga chima rossa lucente, siede di scorcio al centro della scena in una posa intrisa di carica erotica, le cui morbide labbra dischiuse e le palpebre serrate sono gli indicatori dell’abbandono del corpo nell’estasi mistica, amplificata dal sentito ricorso a particolari simbolici.
Il livido incarnato del volto segna l’imminente trapasso di Beatrice, le cui mani, ripiegate a conchiglia, attendono di accogliere entro il proprio grembo un papavero bianco da oppio portatole, in becco, da una colomba aureolata – esplicita allusione simbolica allo Spirito Santo – tuttavia, anziché bianca come tradizionalmente indicato nei sacri testi biblici, è di un rosso splendente, quale simbolo di passione amorosa, non ultimo di morte. Le intenzioni sono confermate dallo stesso Rossetti: «un uccello splendente, messaggero di morte, lascia cadere un papavero bianco sulle sue mani aperte». (Lettera a William Graham Robertson, cit.).
Secondo la critica, la scelta del pittore di adottare sia la colomba che il papavero bianco non sarebbe casuale, bensì voluta e assumerebbe i connotati di una diretta allusione alla morte della moglie Lizzie , soprannominata dal marito “The Dove” (la Colomba), e tragicamente deceduta, come succitato, per abuso di laudano, ricavato dal papavero da oppio, una cui varietà bianca con petali macchiati, simile a quello riprodotto da Rossetti, cresce selvatica proprio in alcuna zone dell’ Inghilterra. Ma gli effetti di apparente sollievo dovuti alla somministrazione dello stupefacente lattiginoso si tingono di puro inganno, di ennesima illusione, di vuoto esistenziale, oltre i quali non può esservi alcuna salvezza se non attraverso la soglia della tormentata contorsione dell’essere fino all’ultimo fremito di vita.
Il critico d’arte inglese e amico di Rossetti, Frederic George Stephens, sostenne come anche i colori grigio e verde dell’abito della donna siano stati impiegati in funzione simbolica, alludendo alla speranza e alla vita, il verde; al dolore sepolcrale, dunque alla morte, il grigio.
Alle spalle di Beatrice si scorge un muretto in blocchi lisci isodomi alla destra del cui piano è posta una meridiana indicante il numero 9, dal potere fortemente evocativo relativamente alla sfera dei ricordi danteschi. Esso, infatti, allude, come spiegò Rossetti, all’età e al decesso della Portinari: «La incontra all’età di nove anni, muore alle nove del 9 giugno 1290» (Lettera a Ellen Heaton, 19 maggio 1863).
Ma le associzioni implicano indirettamente altre sottili sfumature, poiché il numero 9 è multiplo di 3: numero perfetto per antonomasia, poiché simbolo del Dio Uno e Trino associato alla perfezione del Creato e all’Opera Salvifica Cristologica, nonché schema metrico delle terzine dei canti della Divina Commedia. Al di là del muretto l’attenzione si focalizza su due figure vestite di rosso, quella di sinistra, di verde, quella di destra: «Dante in persona […] fissa lo sguardo sulla figura di Amore, sul lato opposto del quadro, nella cui mano la vita della sua donna tremola e si affievolisce come un’esangue fiammella» (Lettera a William Graham Robertson, cit).
Grazie alle numerose versioni del medesimo soggetto eseguite dallo stesso Rossetti (oltre che da seguaci), è possibile comprendere le masse volumetriche che si ergono dietro Amore (Cupìdo) e Dante, poco leggibili nella versione indagata per via dei loro profili indefiniti. Uno scenario campestre di gusto medievale, con la presenza di un pozzo dietro la sagoma del poeta, incornicia la visione delle due figure nelle versione del 1869 di Harvard, del 1871-72 di Chicago, come pure nella copia di Murray del 1900-10 di Wilmington; mentre nella versione del 1877-82 custodita a Birminghan il fondale vegetale dietro Amore lascia spazio a un edificio archtettonico ecclesiastico, identificato dalla croce incisa sul paramento murario esterno.

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Lo sfondo è dominato dalla profondità spaziale che si dipana all’orizzonte verso il profilo orizzontale e arcuato di Ponte Vecchio a Firenze, città che lega idealmente il pittore al genio dantesco di cui si sentiva erede, incarnadone instancabilmente la figura.

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Come da manuale, anche la cornice è stata progettata dal pittore con iscrizioni allusive al XXIX canto della Vita Nova per mezzo della Lamentazione “Quomodo sedet Sola civitas” (“Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo”), con cui Dante vuole estendere il lutto per la morte di Beatrice a tutta la città toscana. E ai versi immediatamente successivi del medesimo canto si deve l’ideazione e il titolo del soggetto stesso del dipinto, poiché:

Io era nel proponimento ancora di questa canzone,
e compiuta n’avea questa soprascritta stanzia,
quando lo signore de la giustizia chiamòe
questa gentilissima a gloriare sotto la insegna
di quella regina benedetta virgo Maria,
lo cui nome fue in grandissima reverenzia
ne le parole di questa Beatrice beata”. (Vita Nova, XXIX canto).
E, infine, persino i tondi della cornice alludono alla poetica dantesca, stavolta al finale della Commedia:
“l’amor che move il sole e l’altre stelle”. (Paradiso, XXXIII canto).

Come afferma lo storico Giuseppe Nifosì «Beatrice incarna un ideale di donna ben diverso dall’originale dantesco, ritroso e riservato. Creatura terrena e celeste insieme, spirituale e sensuale a un tempo, la Beatrice di Rossetti diventa l’icona della donna irresistibile e fatale, fortunatissimo soggetto dalla poetica simbolista di fine secolo». (Giuseppe Nifosì, Arte in Opera. Dal Naturalismo seicentesco all’Impressionismo, vol 4, Editori Laterza, 2015).

Un ultimo lirico canto d’amore, quello di Dante Gabriel Rossetti, alla sua musa, modella, compagna, emulando quel sentire stilnovista di languida poesia, ove nell’amorosa visione, perché “mirabile”, il canto di lode è per la sola amata “beatitudine”, seppur nell’intimo addio:

“O amore, mio amore…Dovessi io non più vedere
Te o neanche, in terra, l’ombra di te,
né il riflesseo dei tuoi occhi in una fonte,
come suonerebbe – per l’oscuro pendio della vita –
il turbinio delle perse foglie di Speranza,
l’aliare dell’imperitura ala di Morte?

(Dante Gabriel Rossetti, Amorosa visione)

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“T’AMO COME SI AMANO CERTE COSE OSCURE, SEGRETAMENTE, TRA L’OMBRA E L’ANIMA.” di NOEMI BOLOGNESI.

di Noemi Bolognesi

E’ difficile spiegare come mai la vita mi abbia indirizzato verso questa strada.

Cominciai a innamorarmi davvero della Storia dell’Arte grazie al modo di insegnare del mio professore Filippo Musumeci in Terza Superiore. Mi sentivo coinvolta, tanto da poter vedere con la forza dell’immaginazione ciò che spiegava, ne sentivo le emozioni e alcune volte addirittura riuscivo a percepirne il tatto. Per questo motivo non nego che qualche volta scappò qualche lacrima.

Il suo modo di insegnare era a dir poco straordinario, diceva così tante cose in quelle ore come se volesse trasmetterci non solo le conoscenze ma sopratutto la passione. Mi affezionai molto a lui e l’Arte diventò piano piano la protagonista delle mie giornate.

La mia vita non mi regalò molte gioie ma la Storia dell’Arte colmava tutto il mio vuoto, ed entrava dentro me come un jolly sistemandosi in tutti i pezzi mancanti del mio puzzle. La sentivo mia, parte di me stessa, e scappavo da Lei ogni volta che volevo sentirmi viva e serena. Come la musica, sembrava darmi proprio quello di cui avevo bisogno nel momento giusto. Sentivo le sue braccia avvolgermi e magicamente mi ritrovavo in un mondo diverso, fatto di colori, di emozioni, di gioie e di sensazioni forti e piacevoli. Piano Piano la frequenza con cui scappavo da Lei aumentava sempre di più, diventando quasi la ragione di ogni mia giornata, la mia vera gioia.

Fatta la maturità, avrei voluto fare di tutto tranne gli Studi Umanistici. Questa esclusione era dovuta solo dalla grande paura riguardo al mio futuro. Nonostante amassi l’Arte, non riuscivo a vederla come lavoro, ma bensì solo come passione.

Questo forse perché volevo proteggerla dalle paure, dalle circostanze, tenendola così un pensiero felice, trasparente e spensierato.

Mi sono ritrovata sulla scrivania Alphatest di Medicina, di Professioni Sanitarie, di Economia e addirittura di Scienze della Formazione (i bambini, l’altra mia grande gioia).

Quell’estate fu lunga e difficile. Una sera facendo una simulazione di Medicina qualcosa in me si ribellò: chiusi tutti quei libri, li misi via dalla mia vista e mi rifugiai in un angolo a leggere un libro di Storia dell’Arte. Improvvisamente non mi sentii più persa, mi ritrovai.

Ero felice ma spaventata, pensavo di continuo al “Sto facendo la strada giusta? Questo campo é cosi ristretto e difficile. Tutti questi sacrifici mi porteranno delle soddisfazioni o mi ritroverò poi in mezzo ad una strada?”.

Tutti i miei familiari continuavano a starmi vicino e a ripetermi che dovevo studiare ciò che amavo davvero ma io avevo gli occhi e il cuore coperti dalla paura.

Un giorno mio papà mi convinse, le sue parole furono un raggio di sole in un tunnel che pareva lungo e buio.

“I tuoi sacrifici saranno ricompensati se li impieghi in ciò che ami. Nessuno studio ha delle garanzie o delle sicurezze, ciò che senti son solo dicerie. Ognuno di noi deve affrontare prove difficili nel mondo del lavoro, non c’è uno studio migliore di un altro. Sei tu che fai la differenza”.

E’ normale sentirsi in difficoltà quando si sta facendo qualcosa di importante, ma non bisogna mai avere così tanta paura da voler abbandonare un percorso.

Io ho imparato che la Vita è come un aquilone: vola in alto, influenzato dal vento si sposta da una parte all’altra, ma è indispensabile che siano le nostre mani a guidarlo, sempre. In questo modo l’aquilone sì, si sposterà senza preavvisi, ma restando sempre all’interno di una traiettoria definita da noi stessi.

Mio papà mi fece capire che quella era la mia strada, ed io lo nascondevo a me stessa e così facendo rischiavo di portarmi un grande rimorso se avessi fatto altro.

La sua presenza fu per me un’ancora che finalmente mi trascinò in fondo al mare, decisa e senza ripensamenti.

Sembrerà strano per voi il fatto che io associ la figura dell’ancora in questo modo, ma vi posso assicurare che la sensazione fu forte e significativa. E da quel giorno rimasi ancorata toccando le profondità più nascoste, ammirando le meraviglie con gioia e senza paura.

Così mi iscrissi a Beni Culturali a Torino, e lì cominciò la mia Vita. Da quel giorno la Storia dell’Arte rappresenta un’isola felice, e le tante lacrime che mi bagnano il viso davanti ad un’Opera sono per me la soddisfazione più grande. Sento che voglio costruire la mia vita su questa emozione, non importa cosa sarà di me tra 10 o 20 anni. Ma non voglio e non devo preoccuparmi di qualcosa che ora non esiste. Ora devo preoccuparmi soltanto del presente, portando i migliori risultati nella mia carriera universitaria, concentrandomi anche sulle esperienze che mi formeranno sul campo.

Sono entusiasta della mia scelta, mi sento appagata ogni giorno. La Nike non mi abbandona, farò della mia vita una continua Vittoria.

A te, meravigliosa Arte, madre di cotante meraviglie, dedico questa Poesia.

Non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio

o freccia di garofani che propagano il fuoco:

t’amo come si amano certe cose oscure,

segretamente, tra l’ombra e l’anima.

T’amo come la pianta che non fiorisce e reca

dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;

grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo

il concentrato aroma che ascese dalla terra.

T’amo senza sapere come, né quando, né da dove,

t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:

così ti amo perché non so amare altrimenti

che così, in questo modo in cui non sono e non sei,

così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,

così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.
(Pablo Neruda)

E’ meraviglioso poter scrivere per “Sul Parnaso”, un’altra meraviglia che mi tratterrà ancorata alle profondità.

Non voglio salire in superficie, questo è il mio posto e non ho bisogno di respirare. Non ho paura di restare.

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“PALAZZO DELLA SECESSIONE” (WIENER SECESSIONSGEBÄUDE) di JOSEPH MARIA OLBRICH

“PALAZZO DELLA SECESSIONE” (WIENER SECESSIONSGEBÄUDE) di JOSEPH MARIA OLBRICH

di Filippo Musumeci

Il Palazzo della Secessione (in tedesco “Wiener Secessionsgebäude”) fu progettato e costruito tra il 1897-98 dall’allievo di Otto Wagner, Joseph Maria Olbrich (Troppau, 22 dicembre 1867 – Düsseldorf, 8 agosto 1908), su commissione degli artisti secessionisti, desiderosi di un luogo da destinare come sede operativa e spazio espositivo ufficiale del gruppo, funzione a cui è adibito ancora oggi. La sua immagine è strettamente legata al celebre “Beethovenfries” (il Fregio di Beethoven) di Gustav Klimt (di cui vi abbiamo parlato QUI) custodito permanentemente al suo interno in un locale sotterraneo, appositamente realizzato nel 1986.

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Concepito come tempio dell’arte moderna, il monumento divenne dal momento della sua inaugurazione (1898) il simbolo della Gesamtkunstwerk di wagneriana memoria (letteralmente “Opera d’arte totale”), ovvero l’unione tra le Arti: architettura, pittura, scultura, poesia, musica e danza, ospitando, oltre a quelle locali, diverse esposizioni di artisti moderni stranieri: Rodin, Van Gogh, Gauguin, Toulouse-Lautrec, Denis, Redon, Segantini, Böcklin, Von Stuck, Munch e, nel 1900, anche una monografica sull’arte giapponese, quale riconoscimento dell’influenza esercitata sul gusto occidentale relativo ai raffinati linearismi, la riduzione delle forme e le superfici piatte, prive di profondità spaziale. E l’attività espositiva proseguì nel tempo con la sola interruzione durante il Primo conflitto mondiale, quando il Palazzo fu adibito a ospedale. Ancora, tra il 1937 al 1945 fu occupato dai nazisti, i quali privilegiarono mostre di architettura, vietando l’esposizione agli artisti di origine ebraica, fino all’incendio doloso nel Secondo conflitto mondale sempre a opera dei tedeschi. Restaurato nel 1964, nel 1986 fu riallestito secondo gli attuali criteri museali.

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La planimetria presenta uno sviluppo a croce greca con una struttura elegante e rigorosamente geometrica costituita essenzialmente da parallelepipedi compatti con superfici bianche ravvivate da elementi decorativi floreali dorati incisi sull’intonaco. L’architetto riprese dal suo maestro Otto Wagner il motivo delle murature esterne piatte, chiuse dal segno netto di una semplice cornice aggettante, priva di ornamentazione classica.
Olbrich elabora la pianta sul “modulo” geometrico del cerchio, quadrato e cubo sul quale si sviluppa il volume, composto da pareti lisce e apparentemente disadorne, ma, in realtà, arricchito per tutto il suo perimetro da elementi floreali e zoomorfi stilizzati: foglie di alloro, tartarughe, lucertole, gufi; e geometrici: sfere e triangoli posti a coronamento delle lesène.
Il risultato è quello di un montaggio paratattico (giustapposto) di forme che mantengono, tuttavia, la loro autonoma austerità e monumentalità.

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Nel prospetto principale due ali laterali dai volumi pieni e privi di finestre delimitano la profonda apertura al centro, ove è collocato, in posizione arretrata, memore dei templi divini egizi, il portale d’ingresso. Al di sopra di quest’ultimo è posto il bassorilievo in stucco con le teste serpeggianti delle tre Gòrgoni (Steno: la perversione sessuale; Eurìale: la perversione morale; e Medusa: la perversione intellettuale) al di sotto delle quali appaiono i termini in ferro dorato: Malerei, Architektur, Plastik (Pittura, Architettura, Scultura), al fine di sottolineare la sinergia tra le tre Arti Maggiori.
Proseguendo ancora verso l’alto, su di una larga trabeazione, è riportato il motto della secessione: “Al tempo (Ad ogni epoca) la sua arte, all’arte la sua libertà” (Der Zeit ihre Kunst / der Kunst ihre Freiheit), suggerita dal critico Ludwig Hevesi e rimossa dai nazisti nel 1938.

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La copertura è dominata da un’originalissima cupola arborescente traforata (che i contemporanei soprannominarono spregiativamente “cavolo dorato”) la cui sontuosità crea un’aurea magica, presentandosi come l’unica fonte di luce dello spazio interno: incastonata da quattro bassi corpi troncopiramidali, ha una struttura metallica sferica, rivestita da 3000 foglie di alloro in laminate d’oro con motivi circolari concentrici che creano un contrasto netto con il candore delle murature sottostanti. Essa è la “Laurea Insignis”,vale a dire la Corona di alloro, simbolo della consacrazione ad Apollo, dio delle Arti, nonché del trionfo della creatività e della libertà artistiche.

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Totalmente nuova è anche la concezione dello spazio interno, pensato come un ambiente neutro e sobrio, coperto di lucernari di vetro, adatto per gli allestimenti delle mostre estemporanee: le strutture fisse sono ridotte al minimo e lo spazio è definito attraverso pareti mobili, che di volta in volta possono ridisegnare le planimetrie relativamente alle esigenze espositive, plasmandosi, in tal modo, in metafora della frenesia estetica moderna.
Non a caso, le esposizioni erano allestite con un’attenzione rigorosa, finalizzata a creare una perfetta organicità estetica tra pezzi esposti e arredo, coerentemente con l’ideale dell’ “Opera d’arte totale”.
«Olbrich ricercò un monumentalismo di stampo esotico, conciliando la volumetria dell’architettura con la fragile gracilità e la variopinta vibrazione dei particolari decorativi: un decorativismo che corrisponde da vicino ai fulgidi mosaici e alle tele di Gustav Klimt» (Giuseppe Nifosì).

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LETTURA OPERA: LA “RESURREZIONE DI CRISTO” DI PIERO DELLA FRANCESCA.

LA “RESURREZIONE DI CRISTO” DI PIERO DELLA FRANCESCA

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Resurrezione di Cristo”
    – Anno: 1459-65 ca.
    – Affresco, 225 x 200 cm.
    – Collocazione: Borgo Sansepolcro, Museo Civico di Palazzo dei Conservatori.
    «E nel Palazzo de’ Conservadori un Resurrezione di Cristo, la quale è tenuta dell’opere che sono in detta città e di tutte le sue, la migliore.» (Giorgio Vasari, Vita di Piero della Francesca, 1550-68).

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Certo che quel furbastro del Vasari la sapeva lunga…e ci vedeva lungo!!! Possedeva il talento dell’indagine attenta e scrupolosa, la tecnica dell’affondo deciso: mirava e faceva centro sul bersaglio!! Con questo non oso assolutamente asserire che le altre creazioni del genio di Borgo Sansepolcro facciano pietà! Per carità di Dio, vi prego di non fare equazioni! Ma vero è (o almeno per il sottoscritto appare) che l’affresco in questione è “lungamente” osannato dalla storiografia dell’ultimo mezzo millennio fra le opere più riuscite dedicate al tema pasquale cristiano. E poiché oggi, secondo il vigente calendario gregoriano, che crediate o no, si festeggia la vigilia di quell’evento “prodigioso”, ho creduto (bene o male poca importa) di stendere due righe su un capolavoro di Piero che non ha certo alcun bisogno della mia presentazione, ma che, al contrario, si presenta magnificamente, già, da solo. Ma in qualche modo questi due giorni di vacanza occorre pur impiegarli per evitare il “dolce far niente”. Ergo, ne dirò comunque. E voi sarete ovviamente liberi di leggere e condividere, oppure di obliare.
L’affresco di grande formato domina simile a uno stendardo processionale la Sala dell’Udienza del Palazzo dei Conservatori del borgo natio del maestro, precedendo la Sala Grande. E proprio alla patria dell’artista farebbe riferimento il profondo significato simbolico del tema iconografico, poiché la sua fondazione ebbe vita dal culto delle sacre reliquie del Santo Sepolcro di Gerusalemme, qui traslate dai pellegrini Egidio e Arcano. Il fine dell’opera, dunque, sarebbe duplice: rappresentare l’identità storica e l’orgoglio del borgo toscano e svolgere una funzione protettiva sull’intera Val Tiberina, caduta di recente, nel 1441, sotto il dominio medìceo.
A seguito della sottomissione alla Signoria dei Medici, il Palazzo di città ove è ospitato il dipinto divenne sede della Magistratura e ribattezzato “della Residenza”, nome che mantenne fino al 1456, quando fu riconcesso ai Conservatori e ai due Consigli affinchè recuperasse il lustro e l’autonomia di un tempo, negati per oltre un ottantennio dall’egemonia fiorentina. Fu a seguito di tale “riconquista” che vennero intrapresi lavori di ristrutturazione che si protrassero al 1458 e in occasione dei quali si decise, verosimilmente di far affrescare la Sala d’ingresso del sito con l’immagine-simbolo della città. In mancanza di fonti storiche certe relative alla decorazione della parete e considerando il soggiorno romano del maestro nel 1459, gli storici collocano l’esecuzione dell’affresco tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta del Quattrocento, vale a direnello stesso arco temporale delle ultime “Storie della vera Croce” sulla parete orientale del coro di San Francesco ad Arezzo. Disgraziatamente decurtato ai lati e alla sommità, privandolo di una porzione, pare, considerevole di inquadratura architettonica di cui resta visibile solo parte delle colonne scanalate con capitelli corinzi, pur senza trabeazione.

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Ciò fece avanzare l’ipotesi del Berti e del Tolnay, comprovata da un documento, di un suo possibile distacco e trasferimento sull’attuale parete del Palazzo, forse, già, nel 1474 o, comunque, prima del 1480, data a cui risalirebbero le mutilazioni e le integrazioni architettoniche succitate.
Sulla bisettrice della scena s’impone allo spettatore la frontalità dell’immagine silenziosamente statica, solitaria e ieratica del Risorto, perno dell’intera composizione che emerge dal sarcofago marmoreo, simile a un altare posto in primissimo piano, con tutta la sua maestosa autorevolezza e la fissità del suo sguardo indagatore: il “Cristo silvano e quasi bovino” e “Dio Campagnolo” rispettivamente di Roberto Longhi e Kenneth Clark.
La sua gamba sinistra è saldamente appoggiata sul bordo, ma la destra resta ancora all’interno del detto sarcofago; la mano sinistra, piegata per reggere un lembo del manto rosso-rosato, mostra le ferite causate al costato e agli arti dalla crocifissione, mentre la destra tiene il vessillo rossocrociato, simbolo dell’opera salvifica della croce e, altresì, asse strutturale della scena speculare alla massa corporea di Cristo; ai suoi piedi la monumentale solidità e le posture variegate dei quattro armigeri romani avvinti ancora da un sonno profondo. Questi sono disposti a semicerchio, secondo un espediente caro al pittore: due appoggiati sul fronte del sarcofago stesso – di cui quello di sinistra sarebbe un autoritratto di Piero –, e gli altri due – quello di destra scorciato con il gomito destro puntato al suolo; e quello di sinistra di profilo con le mani al volto – agli estremi del riquadro.
La scena è costruita mediante un punto di vista ribassato, collocato all’altezza del bordo del sarcofago, ma eluso nella parte superiore del dipinto per consentire all’immagine del Redentore una «perfetta frontalità quasi bizantina al volto e al busto». (Emanuela Daffra). Ne deriva una dimensione di arresto, d’immobilità senza tempo, che «il paesaggio, semplificato e tuttavia madido di luce concorre a intensificare». (Pierluigi De Vecchi).

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Piero della Francesca decide di bloccare l’evento evangelico in una specifica fase della domenica pasquale, vale a dire quella dell’alba, intesa come nascita non di “un” nuovo giorno bensì “del” nuovo giorno, ovvero d’una nuova era, quella salvifica compiutasi attraverso il sacrificio della croce e “risorta” lucente dal buio fitto sepolcrale. Un cielo striato di grigiastre nuvole la cui conformazione ripete lo scorcio “a disco” dell’aureola del Messia contro uno scenario collinare ancora segnato dalle ombre della notte appena trascorsa e dolorosamente consumata dagli apostoli entro chissà quali silenti mura del loro rifugio gerosolimitano.
Della simbologia annidata dietro la vegetazione paesaggistica, nitidamente esplicitata dagli alberi spogli-brulli di sinistra e rigogliosi-verdeggianti di destra, parla il Tolnay in un articolo del 1954, sostenendo la tesi cosmica della rigenerazione in Cristo quale allusione al ciclico ripetersi della stagione primaverile o, per meglio dire, allo stretto legame tra resurrezione del creato e di Cristo. La tesi è riproposta nel 2000 da Anna Maria Maetzke per la quale: «Il significato della Resurrezione,sottolineato nel dipinto anche dal sorgente in lontananza,si amplifica nel paesaggio con un’allusione alla capacità della natura di rinascere ogni anno in primavera.», moltiplicando, a tal fine, le possibilità interpretative alla «redenzione dei peccati, alla nuova vita che la morta e resurrezione del Cristo ha portato sulla terra». (Giuseppe Nifosì).
Alcuni studi hanno proposto come plausibile e diretto modello iconografico dell’affresco la tavola del senese Niccolò Segna con la “Resurrezione di Cristo” al centro del “Polittico di Santa Chiara” (oggi sull’altare maggiore della Cattedrale di Borgo Sansepolcro), di cui il maestro riprenderebbe sia la presentazione frontale e l’esatta postura del Redentore, sia gli atteggiamenti supini dei centurioni assopiti.

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Non c’è nulla nella “Resurrezione” di Piero di convenzionalmente usuale e “aspettato”, poiché di norma (salvo rari casi come quello del Segna appena citato), come ricorda Longhi, il corpo del Risorto «svolerebbe nell’aria inarcandosi flessuoso con l’ausilio delle ali di panneggi garrenti». Lo scopo del maestro di Borgo, sempre secondo la lettura longhiana, è quello di tradurre la scena in una solida e “intangibile” composizione piramidale avente il vertice nel volto di Cristo, centro focale e asse dell’opera, in una «costruzione di corpi umani inamovibili cioè in relazione architettonica, e di piani».

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E questa piramide pierfrancescana accoglie in sé tinte cromatiche armoniosamente accordate nei rossi-rosati, nei verdi, nei bruni e negli avori degli incarnati, sapientemente amplificati, continua Longhi «sul celo nel quale ritornano i toni chiari d’azzurro impaludato di nubi a striature di viola soffocato e di rosa!»

P.S. E questo è tutto! “Buona Pasqua” a chi crede e “Buone Feste” a chi no!

N.B. Si è discusso sull’arte di Piero della Francesca anche QUI.

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LETTURA OPERA: LA “PIETÀ DI SANTA CHIARA” DI PIETRO NOVELLI IL MONREALESE.

LA “PIETÀ DI SANTA CHIARA” DI PIETRO NOVELLI IL MONREALESE

di Filippo Musumeci

  • Opera: “Pietà di Santa Chiara”

– Anno:1646 ca.

– Tecnica: olio su tela

– Dimensioni: 336 x 220 cm.

– Ubicazione originaria: fino al 1827, prima Cappella della navata destra della chiesa di Santa Chiara di Palermo; successivamente fu traslata nella chiesa del Reclusorio “di Saladino” (dal nome del benefattore committente), ove rimase fino al 1940.

– Ubicazione attuale: dal 1940, Palermo, Museo Diocesano.

– Ultima esposizione: Mostra “Gesù. Il Corpo, il Volto nell’arte”, a cura di Timothy Verdon, Scuderie Juvarriane della Reggia di Venaria Reale (To), 1 aprile – 1 agosto 2010. A Repetita iuvant…Repetita Novelli!!!  Si è già avuto modo di parlarne QUI. Il fine è quello di presentare ai nostri gentili lettori un maestro del Seicento inviso alla storiografia 2.0 e sconosciuto, se non altro, dagli studenti e/o amanti dell’arte di nuova generazione. Come affermava il Di Giovanni nelle sue “Opere d’arte nelle chiese di Palermo” (1827) si tratterebbe dell’ «ultima opera di Pietro Novelli, che può pareggiare colle migliori opere dei più valenti maestri». Il soggetto dell’opera in esame sembrerebbe interpretare l’intitolazione della cappella palermitana per la quale fu concepita, presentando il consolidato tema iconografico della “pietà” della Vergine Addolorata sul corpo del Cristo deposto sul Golgota e coppia di angeli ai lati. Nonostante oggi la tela appaia in taluni punti appesantita da vistose ridipinture, essa rievoca chiare suggestioni caravaggesche e carraccesche, riberesche- stanzionesche: al primo stile si ascrive l’assimilazione della stesura drammatica compostamente interiorizzata; mentre al secondo l’impianto stilistico d’insieme, in linea con il classicismo barocco, e rintracciabile, in particolar modo, nella “Pietà” della Certosa di San Martino di Massimo Stanzione, datata 1638, e nell’altra, di egual soggetto, del Museo napoletano di Capodimonte di Annibale Carracci, collocabile negli anni 1599-1600. Tuttavia, attraverso una meditata semplificazione formale, il Monrealese seppe sintetizzare la tragedia evangelica stagliando a sinistra il fusto di un albero reciso, simbolo del “Sacro legno”, e sul torace del Cristo esanime la ferita al costato da cui sgorga un rigolo di sangue, già, riverso sulla coscia e assorbito dal candore del lenzuolo. E di rosso sono unti anche gli strumenti della Passio come i chiodi e la corona di spine, scorciati in primo piano a guisa del Redentore.

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L’opera è in linea con i dettami controriformisti, saldamente radicati nell’isola a metà Seicento, per i quali le scene relative all’opera salvifica della croce avrebbero dovuto mirare in primaria istanza a suscitare presso i fedeli sentimenti di struggimento e misericordia, facendo leva sull’enfatizzazione del pathos: la Vergine mostra un dolore intenso ma degnamente contenuto, limitandosi a un dialogo diretto con la presenza invisibile del Creatore, verso cui cerca conforto volgendo un ultimo rassegnato languido sguardo, amplificato dalla linea tagliente della mano destra indicante il Figlio, ormai, spirato, la quale, altresì, squarcia incisivamente lo spazio intercorrente tra la tela e lo spettatore. Calibratissimo, poi, il compendio tra la solida inquadratura compositiva e la forza espressiva dei giochi chiaroscurali, intrisi, questi, sullo sfondo di note di quel “tenebrismo” ampiamente maturato dal Novelli sulla lezione, come succitato, di Caravaggio, Ribera e Stanzione, a cui fa da cornice l’indiscutibile contributo offerto dalla riflessione sull’esperienza vandyckiana, assimilata a seguito del soggiorno palermitano del maestro di Anversa tra il 1624 e 1625. Se, come si è detto, il gruppo delle figure pare trovi le sue dirette fonti iconografiche nella “Pietà” dello Stanzione e, in parte, in quella carraccesca, è, a ragion di logica, plausibile, se non altrettanto diretto, il richiamo al modello compositivo dell’ “Immacolata Concezione” proposto dallo stesso Novelli per l’omonima chiesa palermitana nel 1637-40. D Un attento confronto tra le due opere ci permetterebbe di notare in entrambe lo stesso impianto scenografico con schema compositivo geometrico curvilineo, costituito: dalla coppia di angeli prossimi al corpo esanime di Cristo, avvolto nel sudario dall’andamento circolare, e dalla Vergine Addolorata sulla bisettrice nella “Pietà”; dalla coperta di nuvole anch’esse dall’andamento curvo, ma stavolta ellittico, su cui poggiano putti alati e il trio di angeli prossimi, anche in questo caso, alla bisettrice della Vergine Immacolata. Speculari, poi, la gestualità, la postura e il cromatismo dei due angeli rispettivamente ai lati del Cristo nella prima opera e dell’Immacolata nella seconda: in ambo i casi gli angeli in questione sono ubicati nelle medesime posizioni compiendo i medesimi gesti di orazione e di “reggidrappeggio”. FG Si diceva pure dell’impianto luministico affidato al sapiente contrasto chiaroscurale di scuola seicentesca, ove i profili plastici sono modellati dalla sorgente di luce diretta obliquamente da destra (la sinistra di chi guarda) verso sinistra (la destra di chi guarda), definendo in maniera analitica i volumi torniti di Cristo e i drappeggi morbidamente forgiati da un deciso cromatismo, tutto giocato sui timbri del primari blu, rosso e giallo, maggiormente esaltati dagli squilli del neutro bianco del sudario. Sono questi lampi cromatici chiaroscurati a distaccare le figure dal tetro fondo nebuloso permettendo loro di emergere con tutta la forza della loro vigorosa massa. Perché come ricorda Vicenzo Scuderi (1990): «quella luce caravaggesca che, prima e dopo dell’aristocratico tono vandyckiano, fu esperienza e suggestione profonda e determinante della sua giovinezza; esperienza e suggestione poi più volte non senza significato e sino al momento conclusivo della sua vicenda, richiamata, coltivata e rivissuta in tante accezioni, ‘tra reale e ideale’»

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