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Ho sposato umilmente la causa della Storia dell'Arte per la primaria necessità di nobilitare il mio animo e conferirgli degnamente respiro. M'impegno quotidianamente, con i miei indiscussi limiti del caso, di trasmettere sentitamente ai miei simili, che la vita ha nominato miei interlocutori, non tanto il sapere, bensì l'amore per il sapere. E' l'unico patrimonio di cui dispongo al momento.

ESPLORIAMO L’OPERA: “PIETÀ CON SAN GIACOMO MAGGIORE” di FILIPPO PALADINI.

LA “PIETÀ CON SAN GIACOMO MAGGIORE” di FILIPPO PALADINI.

di Filippo Musumeci

  • Opera: Pietà con San Giacomo Maggiore” (1605)
    – Tecnica e dimensioni: olio su tela, 309 x 199 cm.
    – Ubicazione: Caltagirone (CT), Chiesa del Collegio del Gesù, Cappella di Don Michael Gravina, Barone di San Michele di Ganziaria (ultima cappella di sinistra)
    – Firmato e datato in basso a sinistra: PHIL’. PALAD’. FLOR’. – PINGEBAT. MDCV.
    – La firma sovrasta lo stemma del committente, come si rileva dall’iscrizione sottostante: DON. MICHAEL. GRAVINA – BARO. GANZARIAE. – 1.6.0.5.

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“Sporadicamente fruibile” a causa della chiusura prolungata del sito ospitante, l’opera è tra le più significative della prima produzione siciliana del pittore tardomanierista fiorentino: manifesto orientativo delle sue tendenze culturali di matrice indiscutibilmente toscana nonché linea di demarcazione tra la fase giovanile – pienamente coclusasi con il “Martirio di Sant’Agata” (1605) della Basilica Cattedrale di Catania (ne abbiamo parlato QUI) – e quella matura in continuo divenire, fino all’attenta meditazione sulle novità caravaggesche importate sull’isola dal maestro lombardo nel 1608.
Il gruppo centrale, di chiara ispirazione bronzinesca, si dispone lungo una linea ascendente dallo slancio verticalistico da condizionare l’intera struttura del drammatico compianto. Lo spazio ne risulta compresso in profondità, nonostante la presenza dell’oscura grotta rupestre, la quale a mò di sipario cela lo sfondo naturale, appena visibile sull’angolo superiore destro, contribuendo, in tal modo, a risaltare la consistenza plastica delle figure aggraziate dei dolenti dall’accento patetico e dal disegno netto, tra le quali spicca la straziante volumetria anatomica del Cristo vilipeso ed esanime. Quest’ultima è acutamente costruita con linee-forza spezzate con andamento a zig-zag e modellata su morbide ombreggiature dolcemente in accordo con i piani luministici stesi sulla levigata superficie materica dell’epidermide, memore della lezione bronzinesca succitata e concretizzata dalla “Pietà con la Maddalena”  degli Uffizi. E il suo essere fulcro della composizione lo mostra come asse portante del semicerchio forgiato dagli astanti, saldamente unificati da un respiro corale, dolcemente evidenziato da un fiocco di luce radente la cui origine appare (come in altre opere del Paladini) di difficile individuazione, dunque, astrattiva.

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Le mani, evidenziate dal tenue crinale luminoso, i panneggi ghiacciati delle vesti, segnate da profondi sottosquadri ombrati e da tinte schiarite (come il rosa dell’abito di San Giacomo) e, infine, gli scorci assottigliati, i quali, già, da soli rappresentano la cifra stilistica paladiniana, rimandano, oltre che al Bronzino, di cui si è già detto, agli ideali tardomanieristi di area fiorentina della formazione paladiniana: Andrea del Sanrto, Fra’ Bartolomeo,Barocci, Cigoli, Allori, Pontormo ed Empoli. Il rapporto con Pontormo, poi, fu raffisato dallo storico Carlo Ludovico Ragghianti, riconoscendo nel Paladini un «precursore di quella formula neopontormesca, insieme stilisticamente conservatrice e audacemente veristica e innovatrice nella composizione e nella iconografia» , i cui vertici sono da rintracciare nella poetica di Boscoli, Passagnano, Ciampelli, Santi di Tito e dell’Empoli. A quest’ultimo, secondo lo stesso Ragghianti, si deve il maggior contributo al processo formativo del Paladini, il cui stile aulico, continua lo studioso, è «di una elevata e appartata temperie culturale, di un rigore contenuto e distaccato, come di chi ha conscienza di una eredità formale le cui linee di ascendenza come le assegnate consenguenze, erano state, dopo il Vasari, accettate come la rappresentazione per antonomasia del processo storico dell’arte italiana» .

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Gli studi preliminari della tela sono dimostrati da sei disegni preparatori appartenenti al secondo volume dei due taccuini autografi conservati al Museo Civico siracusano di Palazzo Bellomo.
Di questi merita particolare attenzione il foglio n. 42, nel quale la figura del Cristo – abbandonata sulle ginocchia della Vergine, nitidamente descritta in modo analitico mediante il segno deciso delle anatomie, esaltate dai sottosquadri e dai chiaroscuri a reticolo fisso diagonale – presenta strettissime analogie con la versione pittorica in questione.

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P.S. Un capolavoro, insomma. L’ennesimo (e ignoto ai più) di una lunga serie che ci si ostina a sconfinare nell’oblio….perché costa meno tenerne le porte chiuse, perché più facile, perché meno “rognoso” che parlarne, perché, in definitiva, non farebbe “cassa!”.

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Bibliografia:

– Carlo Ludovico Ragghianti, Miscellanea minore di Critica d’Arte, Laterza, Roma – Bari, 1946, pp.163-165.

– Maria Grazia Paolini, Dante Bernini, Catalogo della mostra di Filippo Paladini, con saggio introduttivo di Cesare Brandi, Palermo, Palazzo dei Normanni, maggio – settembre 1967, Assemblea Regionale Siciliana.

– Sergio Troisi, Filippo Paladini, un manierista fiorentino in Sicilia, in «Kalòs», marzo – aprile 1997.

ESPLORIAMO L’OPERA: “MARTIRIO DI SANT’AGATA” DI FILIPPO PALADINI

Opera: Martirio di S. Agata”

– Anno: 1605

– Tecnica e dimensioni: olio su tela, 300 x 227cm.

– Firmato e datato al centro fra i due gruppi di astanti: PHILIPP. PLAD. FLORENTIN. PINGEBAT. MDCV

– Ubicazione: Catania, Basilica Cattedrale S. Agata – Quinto altare della navata laterale sinistra.

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L’opera segna il tramonto della fase giovanile di Filippo Paladini, la cui maturità sarà inaugurata, piuttosto, dalla “Pietà con San Giacomo” (di cui si è parlato QUI).

Probabilmente commissionata dal Vescovo Gian Domenico Rebiba nel 1605, si salvò “miracolosamente” dal terribile terremoto dell’11 gennaio 1693 che dilaniò la fascia insulare sud-est e al seguito del quale si diede vita alla rinascita tardo-barocca, dal 2002 Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Più volte restaurata: nel 1926 dal De Bacci Venuti, nel 1950 dal Nicolosi e recentemente nel 2012, intervento quest’ultimo, grazie al quale è stato possibile recuperare le cromie originali mediante la rimozione dei depositi di polvere che ne rendevano la superficie pittorica offuscata e significativamente annerita.

Preceduta da quattordici studi preparatori, la scena rappresenta l’episodio citato nel Martirologio della Santa catanese e relativo al taglio delle mammelle: secondo dei tre tormenti vissuti per la fede dalla stessa nel 251 d.C. per ordine del console romano Quinziano. L’impianto compositivo è di chiara derivazione sartesca, tanto caro ai fiorentini della seconda metà del Cinquecento (Maso da S. Friano, Macchietti, Cavalori) con quel preponderante sviluppo di un lato del fondale architettonico e lo scarso rilievo dell’altra quinta scenografica: tale soluzione avrà larga fortuna presso la pittura fiorentina di fine XVI sec., riformata attraverso debiti veneti giunti in città con il Ligozzi e il Passignano.

Evidenti influssi tosco-veneti si colgono sul fondale aperto dietro i due gruppi di astanti posti in primo piano, ove la scelta delle scenografiche architetture scorciate – le cui rette convergono verso il punto di fuga della composizione, fissato nella figura decentrata dell’eroina –, l’altrettanto scorcio dell’angelo in volo e lo sfondo paesaggistico derivano dalla lezione manieristica diffusamente radicata in area centro-settentrionale.

Tuttavia, nonostante l’adozione della loggia veronesiana, combinata in primo piano con elementi plastico-architettonici squisitamente fiorentini (memori del Buontalenti e Caccini), il Paladini, pare, non ne tragga occasione per un’impostazione prospettica rigidamente geometrica, dunque veridica, della scena, contrariamente alle profonde vedute spaziale ricreata in seguito in altri lavori  di tarda produzione (le cinque tele del “Ciclo mariano” del Duomo di Enna, datate 1601-13).

Cesare Brandi coglie nelle tele paladiniane una verticalità assoluta, in cui è drizzato la scena, «per cui i piani non si scaglionano, si sovrappongono. E basterebbero gli squarci paesistici, che sono piuttosto un quadro nel quadro, non sfondano, cioè, non portano ad un orizzonte lontano, oltre il sipario da cui funge il dipinto».

La rappresentazione del martirio appare convenzionalmente concepita sia nella disposizione dei gruppi che nella versione delle posture assunte, ma, tuttavia, la figura di Sant’Agata si staglia come un asse luminoso che decentra il punto di gravitazione del quadro. La preminenza che essa acquista è anche in diretto rapporto al felice trattamento pittorico: il busto è incastonato nel drappeggio bagnato di luce; mentre la veste è scompartita da mirabili cangianti.

Significativi effetti veneteggianti si hanno anche nella veste e nel cimiero dell’astante di tergo, mentre il cesto, posto in primo piano, tagliato irregolarmente dall’ombra appartiene a certe citazioni di umile verità che attenuano il tono leggermente aulico e sostenuto dell’insieme.

In occasione della storica mostra palermitana del 1967, l’opera fu, giustamente, messa in rapporto da Dante Bernini con il dipinto del 1600 circa attribuito a Jacopo Ligozzi e custodito nella Basilica – Cattedrale di Piazza Armerina (EN), per via di evidenti analogie riscontrate nell’impostazione scenica e nelle soluzioni luministiche.

(Filippo Musumeci)

AGATA LIGOZZI

“PHILIPPUS PALADINUS FLORENTINUS”: UN MANIERISTA NELLA CULTURA FIGURATIVA SICILIANA TRA CINQUE E SEICENTO

“PHILIPPUS PALADINUS FLORENTINUS”:

UN MANIERISTA NELLA CULTURA FIGURATIVA SICILIANA TRA CINQUE E SEICENTO

di Filippo Musumeci

A’ Filippo Paladini

 È questa quella man, che può Natura

Spesso sfidare à le più nobili opre?

È questa, che qua giù spiega e discuopre

L’eccellenze c’hà il cielo, oltra misura?

O man, raggio di Dio, che ‘n questa oscura

Età riluci; e quanto avien, ch’adopre

Tuo gran valor, non mai turba, ò ricuopre,

oblio, mà lungamente e dura.

 

In tua virtù sì di rinascer degno

Foss’io, come ti stringo, e come presto

Di riverirti e d’honorar m’ ingegno.

 

Ma poi noin giunge à sì felice segno

Il merto mio ch’io per te viva; questo

Ricevi almen di puro affetto pegno.

 

Chi fu quel “Philippus Paladinus Florentinus” liricamente celebrato dall’umanista siciliano Filippo Paruta[1] e oggi imperdonabilmente snobbato dalla critica post-novecentesca? Quella stessa critica di élite che indispettita emette sentenze dalla propria inespugnabile torre d’avorio, sancendo per il singolo croce o delizia, plauso o oblio, vita o morte.

Ci fu un tempo per quest’uomo e artista… e oggi non c’è più, ahimè! Ma le sue opere, ostinatamente, continuano a parlare con toni raffinati e colti non appena ci si arresti al loro cospetto per riammirarle e riscoprirle, ogniqualvolta con rinnovato sguardo.

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Filippo Paladini, Presentazione del Bambino al Tempio (1613); olio su tela, 458 x 258 cm. Enna, Cattedrale.

Mi si perdoni lo sfogo, ma possibile che nessuno abbia meditato sull’ipotesi che l’Arte in Sicilia possa essersi spinta oltre (e ben oltre) il Quattrocento di Antonello da Messina? Ehi, dico a voi! Ci sentite di lassù? Mah!! Misteri profondi della psiche umana.

Eh, no, dai!! Che non si sfoderi adesso il jolly del “provincialismo” un’altra volta, perché ne abbiamo le tasche piene di questi affondi azzardatissimi.

Solo a titolo informativo, s’intenda (non per altro), a un pittore “provinciale”, secondo il vostro disinteressatissimo parere, il Gran Maestro del potentissimo Ordine gerosolimitano dei Cavalieri di Malta, Ugone de Loubenx de Verdalle, avrebbe commissionato dal 1589 in poi diverse opere su tela, fra le quali merita menzione almeno la pala d’altare, per la Cappella Palatina del Gran Maestro alla Valletta, con la Madonna in trono fra i Santi e Cavalieri (oggi al Palazzo Arcivescovile dell’isola), e sempre per lo stesso edificio (tanto per non farsi mancare niente) perfino il ciclo di affreschi con Storie del Battista?  E ancora, le due pale d’altare per la Chiesa dei Gesuiti della capitale maltese con la Circoncisione e il Naufragio di San Paolo?[2] Uhmm, Direi che si fa sempre presto, molto presto, a parlare di “provinciale” e del suo ismo.

Ok! Questo sarà un altro sciocco, banale e futile articolo che pochi, pochissimi leggeranno furtivamente, uniformandosi, chissà, al pensiero convenzionale. E come dar loro torto, del resto? Farei la stessa cosa anch’io se mi presentassero il profilo di un artista riesumato dal sarcofago di damnatio memoriae.

E posso pure immaginare i probabilissimi e, perché no, sacrosanti commenti dei pochi, pochissimi lettori: «Ma chi si crede di essere questo mediocre blogger da due soldi? Ma guarda te stò sfigato! Tornatene da dove sei venuto e restaci pure!».  

Sì, sì, lo so!! Ne sono conscio. Ma stavolta ho deciso di osare! Una tantum! Che sarà mai? Lo fanno in così tanti di questi ultimi tempi!! Non temete, il fine è il medesimo del blog: quello di raccontare umilmente una storia per cui si crede valsa la pena disquisire in assenza di pregiudizi di “maniera”.

Osare, sì, non per indottrinare, non per illuminare (non ne possiedo mica gli strumenti!) fosse solo per chiarire e/o informare i temerari di un prossimo tour in Trinacria che c’è dell’altro oltre ai siti archeologici e architettonici, giustamente, riconosciuti dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. C’è dell’altro oltre all’immenso Antonello da Messina; c’è dell’altro che non si vede seppur pienamente visibile e bramoso di esser visto; c’è dell’altro che impazientemente attente un vostro sguardo, distratto no, vi prego! Attento sì, potreste ricredervi! C’è dell’altro con nomi propri di persona intrisi di vigore dignitoso e talento ignoto: Domenico e Antonello Gagini, Pietro Novelli, Giacomo Serpotta, Francesco Lojacono e il nostro Filippo Paladini.

Mio Dio, che maestri mortificatamente “disgraziati” in una terra magnifica e non meno “disgraziata”.

C’è dell’altro laggiù, che qualcuno, come me, ha scovato senza averlo mai appreso dalla saggistica di voga, ma da studi trasversali e alternativi votati all’arte di singolari personalità che hanno dato e lasciato tanto, pur ricevendo appena esigui sprazzi di luce, repentinamente spenti e affogati nell’oceano dell’oblio.

Anni fa lo promisi a me stesso e oggi rendo questo inoffensivo, forse insipido (non certo per me) omaggio a un artista che ha saputo dar colore a molti, troppi uggiosi miei diurni esistenziali, con lo squincio delle sue vedute, la cromia dei suoi volumi, lo spessore dei suoi lumi.

Le sue rappresentazioni mi parlarono per la primissima volta nella Basilica Cattedrale del capoluogo etneo, ove si conserva la raffinatissima pala con il Martirio di Sant’Agata del 1605 (di cui si dirà nel prossimo articolo), patrona della città. Le ripetute (direi quotidiane) visioni si vestirono di inedito stupore, forzatamente tenuto a freno. Fu amore, di quell’amore, oggi a distanza, di cui avverto l’eco del dolce canto come ricordo di quei devoti e furtivi attimi che furono, lì, a due passi dal Sacro Sacello dell’eroina catanese. Quella sacralità iconica pur nella tragedia, quella grazia gestuale pur nel dramma, quella folgore luministica pur nella cecità tiranna, si spiegarono dirimpetto alla mia acerba conoscenza, tracciando una via senza ritorno.

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Filippo Paladini, Martirio di S. Agata (1605); olio su tela, 300 x 227cm. Catania, Basilica Cattedrale S. Agata.

Chi fu costui, dunque, a cui si devono tali devoti e furtivi attimi? Chi quell’abile pittore di prodiga arte – disseminata tra la natia provincia fiorentina e le terre ospitanti di Malta e Sicilia –  che tanto di lei fece indagare e discutere presso i suoi contemporanei e i posteri del secolo scorso?

Non è tempo di matasse dialettiche né di arbitrari sillogismi atti a confutare una pagina di cronaca dall’indubbia veridicità. Quel Paladini tanto snobbato, tanto declassato, tanto ignorato, fu un “Maestro” di formazione forbita e colta nel senso più classico del termine: un protagonista dell’ultimo Manierismo di area toscana, aperto ai nuovi influssi di matrice caravaggesca, scoperta, scrutata, adottata e fatta propria negli anni del fortunato e florido soggiorno siciliano.

Verrebbe da dire: “Quando il fato ci mette lo zampino” e, a mò di giocoliere circense, compie il proprio numero servendosi abilmente di umane esistenze.

Quel Caravaggio, forse mai conosciuto personalmente dal Paladini; forse a quest’ultimo mai così familiare per assonanze biografiche, non meno che stilistiche.

Un uomo piuttosto noto alle Forze dell’Ordine nella Firenze medicea di fine Cinquecento dei fratelli e granduchi di Toscana, Francesco e Ferdinando I, per via di certi reati, in seguito ascrivibili (e comunemente più celebri) anche al genio lombardo: possesso illecito di armi, aggressioni e scontri armati, denunce e ripetuti arresti, fuga con relativi soggiorni maltese e siciliano, fino alla grazia ottenuta per intercessioni aristocratiche.

Cambia solo il finale in quest’intreccio di vite parallele: graziato, riscattato e celebrato, il Paladini; fuggiasco, braccato, sconfitto (apparentemente) e (ironia della sorte) graziato post-mortem, il Merisi.

Sono tanti i dipinti del Paladini che ho imparato a leggere e amare fin dai miei primi e timidi esordi nell’universo dell’Arte; lunghe le soste solitarie col naso all’insù presso ignoti altari, sovente elusi; lunghe riflessioni su quel modo originalissimo di trattare le forme mediante la dotta lezione assorbita sugli illustri esempi di Andrea del Sarto, fra Bartolomeo, Pontormo, Bronzino e, il già citato, Caravaggio.

E poiché qualcuno disse che la fortuna dei “grandi” artisti la fanno gli altrettanti “grandi” storici e critici, basterà, in definitiva, riportare le conclusioni alle quali giunse quell’illustre senese Professore (con la P maiuscola) di Cesare Brandi nella sua magistrale analisi di fine secolo scorso, compiuta durante gli anni di docenza presso l’Università palermitana.

«Potrebbe sembrare che il caso di Filippo Paladini rientrasse pacificamente nel quadro della pittura manieristica fiorentina, e di questa fosse anzi un episodio attardato, anche per il fatto che l’artista operò fuori patria, in un ambiente che quasi si potrebbe ritenere vergine, come quello di Malta e della Sicilia. In quest’ambiente, che in realtà era tutt’altro che vergine, almeno se ci si riferisca alla Sicilia, tuttavia il Paladini si poneva come l’unica propaggine del ramo più alto della pittura manieristica toscana, di quella cioè che discendeva in linea primogenita più ancora che da Michelangiolo, dal Pontormo. Codesta pittura era giunta, di raffinamento in raffinamento, e di estenuazione in estenuazione, allo “Studiolo di Francesco I”; dove si era fermata.  […].  Investe cioè il recupero di una personalità singolarissima, che, proprio nel periodo più tardo della sua vita, arriva a porre a contatto, senza incenerirle a vicenda, due culture agli antipodi; come quella di derivazione pontormesca e quella del Caravaggio: due culture, di cui la seconda doveva apparire, più che la negazione, la vanificazione della prima. E lo fu ovunque, ma non per il Paladini […]. Nel Paladini l’impianto manieristico non venne mai meno, né il codice con cui l’esprime, ma la progressiva presa di coscienza della pittura del Caravaggio produce come una interna rigenerazione. La parola è provvisoria, ma centra il fatto che assicura al Paladini un’emergenza inattesa nella pittura manieristica, anche se per le date appartenga al primo Seicento. […] Ad un tratto nel lume universale che bagna le sue figure s’insinua un raggio, un’incidenza: ecco un’ombra portata, ecco un volto bagnato da un’ombra che non è chiaroscuro., ecco l’improvviso emergere di un particolare, che sia una mano o un lembo di vestito, che è come se venisse fuori dal pelo dell’acqua. Di colpo tutto il quadro è come trasformato: la tensione che si produce, le opposizioni che si rivelano, mettono in evidenza una struttura dinamica che l’apparente (ma spesso non solo apparente, in verità) uniformità di flessione celava. Sono questi i momenti maggiori del Paladini, quelli che dimostrano come l’accostamento al Caravaggio non fosse nel senso di arricchire il suo codice di elementi contradditori, mutuati per scarsa coerenza. […] Donde la felice contaminazione caravaggesca serve al Paladini per rigenerare la stanca matrice manieristica ma non a sostituirla, non a surrogarla. Per questo la pittura del Paladini, anche se non fosse stata rinserrata in una zona periferica della cultura, come Malta o la Sicilia, non avrebbe rappresentato un’alternativa al Caravaggio o ai Caracci. Resta, la pittura del Paladini, l’ultima e tardiva fioritura di quell’arte che era nata a seguito del Tondo Doni di Michelangiolo: appartiene al Manierismo, non è una svolta nuova. Ma non è un fenomeno provinciale, non caratterizza una posizione arretrata. Nell’unione impossibile che realizza fra una cultura in estinzione e una cultura al suo sorgere, il Paladini da forse l’ultimo sprazzo vivido di luce pittorica del Cinquecento fiorentino»[3]. (Cesare Brandi, 1967)

[1] Paolo Russo e Vittorio Ugo Vicari, Filippo Paladini e la cultura figurativa nella Sicilia centro-meridionale tra Cinque e Seicento, Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2007, p. 43.

[2] Per i cenni biografici si veda: Mostra di Filippo Paladini. Catalogo della mostra, Palermo, Palazzo dei Normanni, maggio-settembre 1967, a cura di Maria Grazia Paolini e Dante Bernini, Industria Grafica Nazionale S. Cosentino & G. Sconzo, Palermo 1967, pp. 15, 20; Paolo Russo e Vittorio Ugo Vicari, Filippo Paladini e la cultura figurativa nella Sicilia centro-meridionale tra Cinque e Seicento, op. cit.

[3] Cesare Brandi, Saggio introduttivo in Mostra di Filippo Paladini. Catalogo della mostra, op. cit. pp. 15, 19, 20.

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LA BELLEZZA DEL CORAGGIO

LA BELLEZZA DEL CORAGGIO

d Filippo Musumeci

Mezzanotte alle porte, ove il dì muore e l’altro scorre.
Entro mute pareti di quartiere il cadenzato vissuto retablo,
in cuor suo, fiacco di gesti vani e pensieri oziati.
Desìo del segno copioso, che scuoti il nervo con tratto distorto
e di razzia sia dell’arcigna viltà invitta.
Tempo malsano, spazio svuotato, bieco disincanto.
Ove febbrile danza di fecondi sguardi,
di acuti interscambi, di folgori illuminanti? (Filippo Musumeci)

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A te il mio pensiero, caro Oscar, nel fitto blu di questa notte, rischiarato solo a tratti dall’artificio delle urbane luci, tra alternati cigolii motori incisi sull’asfalto da ignote viventi figure. Un sibilo e un altro ancora… poi, il silenzio, presto spezzato. Quella morsa al petto ti opprime e non l’arresti; sadica ti sfida e sadica s’imprime, ora, mentre tace il domestico focolare.
A te il mio De Profundis con le medesime tue parole, poiché «la sofferenza (per quanto ciò ti possa apparire strano) è ciò che ci tiene in vita, poiché essa è l’unico modo che abbiamo per avvertire la vita». E per avvertire codesta vita rimetti ogni dovuta speranza, ogni labile ambizione, nelle mani di altri simili che il caso o fato ha posto guardingo al tuo cospetto, pronti, loro, a edificare l’irrevocabile giudizio sul tuo operato che non puoi declinare, che non puoi ignorare.
Da qui la mossa con cui ti giochi la tua credibilità. Tre soli imperativi: convincere, emozionare, stupire. Costi quel che costi, perché tu stesso m’insegni che «esistono due modi per non apprezzare l’arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell’apprezzarla con razionalità.»
Bernard Berenson era lapidario: «credo che un vero amore per l’arte sia un dono, quanto il crearla; e può anche essere che entrambi scaturiscano dalla stessa sorgente.»
Sagge parole! Ma se del dono si è privi (e non di rado) la sorgente ne risulta arida e spetta a chi di dovere alimentarla con nuova enfasi e nuova esperienza.
Ricordi quando dicesti che «Respingere le proprie esperienze significa arrestare il proprio sviluppo. Rinnegare le proprie esperienze significa mettere una menzogna sulle labbra della propria vita»?
E di tale esperienza il tuo fantasma assiso mi dice di far tesoro senza “ma” e senza “se”, seppur dei miei limiti non faccio mistero.
Medita studente, medita!! Perché la nostra epoca è fuggente quanto vana; predica bene e razzola male; propina stereotipi effimeri, come effimeri gli effetti che ne verranno.
L’amico Oscar continua a ripetermi imperterrito che «le cose sono nella loro essernza quel che noi vogliamo fare di esse. Quel che una cosa è dipende dal modo in cui la guardiamo». Ed io voglio guardare ancora a questa bellezza che di me fa una persona migliore; voglio ancora ardere nei piaceri dell’arte, sentirne l’odore e assoporarne il sapore insaziabilmente. Di questo coraggio morale ho bisogno. Ma ciò «potrà avvenire solo se lo accetterò come parte inevitabile dell’evoluzione della mia vita e del mio carattere».
Su questo punto siamo d’accordo, caro Oscar. È coraggio, infatti, quello di briosi studenti, come molti incontrati, che dalla massa conforme cercano fuga e forgiano l’alternativa solida e lungimirante, poiché essa è possibile ancora!
Al dì, coloro compiono il passo cadenzato varcando la soglia di un fabbricato che dell’usura del tempo porta in sé segni evidenti, ma, da questi, vissuto come scrigno del sapere e giammai come penitenziario. Muniti d’intriso garbo non arretrano e sfidano la prova, come molti, più degli altri. Allievi poco lenti e tanto rock, con un sorriso così: di quelli che ti stendono e che a raccimolarne i cocci di quell’uggioso umore che indossavi curvo all’alba, appena ridestatoti, si fa fatica, poi, rimodellare.
Il loro è coraggio morale! Quello delle grandi occasioni; da aggiudicarsene il lotto all’asta con tenace astuzia, poiché se n é compreso il vero valore, al di là d’ogni irragionevole dubbio. Il loro è l’esempio di una svolta possibile e concreta, purché sentita e vissuta senza remora alcuna. Di questa bellezza si ha disperato bisogno! Di queste opere viventi in controcorrente se ne sente la presenza al pari di un caldo e stretto abbraccio nella gelida superficialità – senza distinzioni d’età anagrafica – di sboccati eccessi, tutti in marcia alla conquista di “carni di bambola”.
Rimembro commosso le felici scelte di Sara, Noemi e Giulia (prossime e brillanti docenti di Storia dell’Arte); di Elisa, Nichol e Irene divise tra Architettura e Accademia. Rimembro altrettanto commosso Omar, Carlo Maria, Serena, Silvietta & Co., che pur avendo intrapreso altre strade non mancarono, anni or sono, di entusiasmarsi sinceramente in quel di Roma dinanzi alle eterne vestigia dell’Impero Romano e alla gloria della Renovatio urbe Romae condotta da Bramante, Raffaello, Michelangelo, Fontana e seguenti. Si sentirono spettatori delle scenografiche creazioni di Bernini, Borromini e Cortona; ed esterefatti rimasero, poi, al cospetto delle scene immortalate da quel genio che è l’altro amato Michelangelo… il Merisi da Caravaggio.
Onore a voi tutti, cari studenti, al vostro ardire, al vostro ardore, per cui ci si spende in pensieri e parole affinché tutto non fugga via e sia vano, ma evolutivo.
Onore per le “notti insonni” trascorse a capo chino su volumi corposi e ostici tra l’andirivieni di pesanti dolenti palpebre, mentre tutto fuori è chiassoso rumore, condannato a spegnersi senza sconto né alcun clamore.
Onore al vostro etico coraggio, che di Aristotele n è degno figlio quando questi chiosò che il singolo «temerà, dunque, anche le cose a misura d’uomo, ma vi farà fronte come si deve e come vuole la ragione, in vista del bello, perché questo è il fine della virtù».
Oscar sta per lasciare queste quattro mura e ritornare all’Olimpo dei “Superiori”, non prima, però, di regalarmi l’ennesimo sguardo e un ultimo saluto, che entrambi ricambio.
– A presto, amico mio! Ci si rivede, non dubitarne!! Sei ancora giovane, mentre io porto il fardello dei secoli già andati. Lord Henry non fu, certo, uno stinco di santo, lo sappiamo bene, e lo stesso Dorian ne pagò le conseguenze sulla propria pelle. Tuttavia disse anche cose sagge, come questa che ti lascio e che potresti rivolgere ai tuoi studenti: «Oggigiorno la gente ha paura di se stessa. Tutti hanno dimenticato quello che è il più alto di tutti i doveri, il dovere che abbiamo verso noi stessi».

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“Laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche” . Esploriamo l’opera: l’utopia della bellezza nell’ “ophelia” di john everett millais

Se si pensa alla Tate Britain Gallery di Londra è spontaneamente inevitabile pensare ai Preraffaelliti, così com’è inevitabilmente spontaneo pensare alle loro opere e, fra tutte, a “Ophelia” di John Everett Millais – coofondatore a Londra nel 1848, assieme a Dante Gabriel Rossetti e Holman Hunt, della Confraternita romantica inglese – di cui si indagherà la genesi in questo scritto in coda al breve prologo che segue.

Galeotta fu la mostra torinese “Preraffaelliti, l’utopia della bellezza” curata da Alison Smith e allestita negli spazi rimodernati di Palazzo Chiablese (18 aprile – 14 luglio 2014. Catalogo della Mostra realizzato da 24 ORE Cultura), con l’esposizione di 67 opere tra disegni, acquerelli e dipinti a olio provenienti dalle collezione della rinomata galleria londinese.
Come indica il nome stesso adottato, l’ideale estetico del giovane gruppo è forgiato principalmente sull’arte che precede il Rinascimento maturo cinquecentesco (di cui Michelangelo, Leonardo e Raffaello rappresentano il culmine): vale a dire quella del Medioevo e, in misura anche maggiore, del Quattrocento italiano.
Il fine dei Preraffaelliti risiede nella volontà di liberarsi dal dilatante accademismo di maniera di stampo neoclassico, promosso dalla Royal Academy Schools, a favore di un’arte che miri al recupero del rapporto diretto con la natura e dell’estrinsecazione dei sentimenti secondo i dettami romantici.
Furono il senso “etico” dell’operare e quell’arcaica “onestà” del dipingere, tradita (a partire dall’epoca raffaellesca) da un’arte divenuta meramente intellettuale e priva di originalità, a guidare le scelte stilistiche innovative e il pensiero estetico, socio-politico e religioso di tipo riformista del preraffaellismo: per il quale “Naturalismo” e “Primitivismo” divennero i due poli su cui fondare la “nuova” pittura, espressa attraverso temi religiosi, storici e soprattutto letterari, di cui Dante Alighieri e William Shakespeare rappresenteranno le più eloquenti fonti d’ispirazione.
Incoraggiati dal fervido sostegno di John Ruskin (il più illustre critico dell’epoca) e mossi dall’entusiasmo diffuso per la storia naturale, specie per la geologia e la botanica, i Preraffaelliti indagarono la natura con dovizia di particolare e desiderio di svelarne i segreti del passato per comprenderne il presente. Adottarono un disegno compatto, lineare, netto e privo di ombre di chiaro gusto gotico, atto ad accogliere “colori stridenti”, dissonanti e brillanti, come li definì il grande storico e critico d’arte Ernst Gombrich.
Esponendo i propri lavori alle mostre annuali della Royal Academy (al tempo la sede più prestigiosa delle esposizioni temporanee britanniche), Gabriel Rossetti e compagni lanciarono un’ambiziosa sfida pubblica fondata sulle qualità innovative delle loro creazione, al punto tale da influenzare vari accademici affermati della generazione precedente come Dyce, Richard Redgrave e Daniel Maclise, i quali modificarono i programmi di studi della Royal Academy promuovendo, altresì, le novità tecnico-stilistiche introdotte dalla Confraternita.
Quali queste novità tecnico-stilistiche adottate dai giovani artisti succitati?
Come ricorda nel suo saggio Alison Smith, curatore della mostra, “Tecniche e metodi della pittura preraffaellita”, furono respinti soprattutto «sia il metodo tradizionale della preparazione del fondo nelle tonalità di terra per definire le aree più scure di una composizione, sia l’uso del chiaroscuro, impiegato per definire ampie zone di luce e ombra e stabilire aree principali e secondarie all’inteno di un quadro. Abbandonarono anche la tecnica accademica della facture, o pennallata ben visibile per trasmettere consistenza, e la fusione delle tonalità per armonizzare i diversi elementi di un disegno».

Trassero, invece, ispirazione dalle pratiche emergenti del loro tempo, come la dagherrotipia, attraverso la quale era possibile ricavare nitide immagini fotografiche dalla luminosità vitrea; oppure l’acquerello e l’applicazione dei colori dati a piccoli tocchi su fondo preparato con imprimitura in bianco di zinco anziché quello in piombo (che ingialliva col tempo), in modo che il supporto assumesse quella che Hunt definì “durezza della pietra”, fresco e privo di imperfezioni.
Il bianco di zinco iniziò a circolare diffusamente grazie all’industria dalla fine delgi Quaranta dell’Ottocento, offrendo ai preraffaelliti di sfruttare la luminosità del fondo, mantenendo la trasparenza nell’applicazione delgi strati cromatici successivi.
Sempre lo Smith continua: «l’obiettivo era evitare a ogni costo l’effetto di morbidezza causato dall’applicazione del colore su un fondo preparato con mezzi toni. […] applicavano poi macchie di colore a mosaico con un singolo strato sottile di colore puro, per lo più non mescolato, senza velatura e con poche pennellate leggere». Questo metodo accentuava la luminosità, lasciando che il fondo trasparisse per mezzo di strati di colore spessi ma traslucidi, stesi con i pennelli di zibellino tipici dell’acquerello, anziché con quelli di scoiattolo e maiale, utilizzati per la pittura a olio.
E ancora, guardando alle tecniche pre-rinascimentali, recuperarono per l’incarnato l’uso del tratteggio a pennellate sottile secondo le antiche tecniche della miniatura impiegate nei manoscritti medievali; i colori levigate delle tempere e degli oli quattrocenteschi italiani e fiamminghi e la lucida brillantezza delle vetrate gotiche istoriate.
I pigmenti prediletti restavano quelli trasparenti come il verde smeraldo, il blu cobalto e oltremare, il rosso carminio e la gommagutta (un giallo trasparente), tutti impiegati al fine di ottenere un’intensità cromatica uniforme in tutta la composizione. E questi erano miscelati non colil tradizionale olio, bensì con il coppale (resina naturale utilizzata per ricavare una vernice durevole e di alta qualità) per sua natura più lucido e capace di donare alla pellicola pittorica una maggiore lucentezza colorata in un solo strato, simile, non a caso, alle vetrate istoriate.
La mostra torinese, suddivisa in sette sezioni (la storia, la religione, il paesaggio, la vita moderna, la poesia, la bellezza e il simbolismo), si apriva con la celebre “Ophelia” di Millais.

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Il pittore iniziò l’opera a Ewell, nel Surrey, nel giugno del 1851 e vi lavorò per circa sei mesi allo sfondo, dipingendolo centimetro per centimetro al cospetto di prati e ruscelli, indagando scientificamente le specie vegetali. Ritemprato dal soggiorno in campagna e dalla conseguente libertà da obblighi artistici e sociali, Millais ritornò al Londra in dicembre, con la tela completata, salvo che nella parte centrale, rimasta in bianco nell’attesa dell’inseriemento del soggetto shakespeariano.
La modella prescelta fu l’inglese Elisabeth Siddall (passata alla storia con il diminutivo Lizzy o Lizzie), modella, poetessa, pittrice e futura moglie di Dante Gabriel Rossetti (di cui si parla anche QUI) La giovane ragazza (figlia di un negoziante di ferramenta e ammirata per i suoi lunghi capelli rossi, oltre che per la sua singolare bellezza), fu scoperta da Walter Deverell, associato americano dei Preraffaelliti.
Millais la fece posare per circa quattro mesi in una vasca da bagno riscaldata da una lampada nel suo appartamento in Gower Street, con l’intento di realizzare un’immagine autentica della sventurata amante di Amleto, annegata nel celebre dramma teatrale. Ma prima di procedere con la puntigliosa precisione che glie ra consueta, l’artista elaborò diversi studi preparatori, anche di singole parti del corpo e solo successivamente diede vita alla figura dipinta dal vero.
Tuttavia, per ironia della sorte, in una sola delle tante sedute di posa, la lampada che riscaldava la vasca da bagno si spense e l’acqua gelida fu la causa di una grave bronchite che colpì Lizzie, minandone la cagionevole salute, già segnata dall’abuso di laudano (una sostanza stupefacente di uso medico che veniva usata anche come droga e di cui ne fu vittima lo scrittore Edgar Allan Poe).
L’accaduto fu il pretesto che spinse il padre della ragazza a ritenere responsabile Millais, minacciandolo di agire legalmente se non avesse pagato personalmente le spese mediche necessarie alla guarigione della figlia.
Tornando al dipinto, esso con la sua patetica eroina e il lussereggiante fogliame ritratto nel momento di massimo rigoglio, è un emblema dell’approccio dei Preraffaelliti alla natura, alla psicologia e alla narrazione di soggetti storico-letterari. Il momento scelto dal pittore è tratto dalla settima scena del IV atto della tragedia shakespeariana citata, in cui la regina Gertrude ricorda la morte della giovane Ofelia, impazzita a seguito dell’omicidio del padre, avvenuto per mano dell’amato Amleto, e successivamente annegata nel fiume mentre era impegnata a intrecciare ghirlande di fiori:

C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute
nella vitrea corrente; laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli,
di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno
un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto.

Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine,
un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa
nel piangente ruscello.

Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero,
mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo
stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento.

Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi,
trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.

(Regina Gertrude in William Shakesperare, “Amleto”– Atto IV, Scena settima, 1600-02)
L’infelice fanciulla giace supina, rigida come un’effigie sopra una tomba di ricordo gotico, sostenuta e al tempo stesso avviluppata dall’acqua che diventerà il suo sepolcro, impigliata in una rigorosa vegetazione e cosparsa di fiori variopinti, simboli eloquenti della vita da lei, ormai, rifiutata.
Il corpo di Ofelia è collocato in uno spazio efficacemente autentico con la presenza anche di esemplari di fauna, come un pettirosso e un topo d’acqua.
Ciò rispecchia gli interessi microscopici e domestici di naturalisti, proprietari di acquari e di terreri, collezionisti di felci e botanici dilettanti appartenti alle associazioni locali che costituivano un tratto distintivo della scienza accessibile in età vittoriana.
La vegetazione è ripresa dal vero poiché ogni dettaglio è reso con impressionante rigore e precisione, a testimonianza di un rapporto profondo ed emozionale con il dato naturale. Tuttavia, questo è fabbricato appositamente per la scena dipinta, poiché le specie inserite dall’artista non fioriscono nello stesso periodo dell’anno, ma hanno, piuttosto, una funzione fortemente simbolica, fornendo maggior risalto al soggetto. Questa precisione botanica nonché la visione ravvicinata della scena, riprodotta con dovizia di particolari, trasfigurano l’opera in un simbolo della storia naturale d’interesse artistico.
Alla bellezza della modella dai lunghi capelli rossi che emergono dallo specchio l’acqua in tutta la loro brillantezza, sono associate le rose rappresentate vicino alle sue guance, caricandosi di una forte valenza simbolica, cui non sono da meno il salice piangente e le margherite, associate all’abbandono in amore, al dolore e all’innocenza; e il papavero, infine, che spicca vicino alla mano destra di Lizzie, simbolo di morte e fragilità.
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Il dipinto esemplifica e afferma le innovative caratteristiche della pittura storica della Confraternità, attingendo a un soggetto popolare, reinterpretato per l’occasione come episodio di un dramma molto amato dal pubblico e trattandolo come fosse avvenuto realmente.
Il dipinto soddisfa ogni precetto del primo preraffaellismo con la sua poetica visualizzazione del tragico destino dell’infelice fanciulla, come quest’ultima rappresenta l’attuazione dei principi tematici del gruppo relativi alla pittur adi paesaggio al servizio di soggetti letterari e moralistici. La critica non ebbe molto da ridire sulla scelta del soggetto, in linea con la tradizione teatrale presente nell’arte inglese del tempo, bensì tutti rimasero affascinati dalla concezione naturalistica, considerandola l’elemento stilistico determinante del movimento.
L’innovativo metodo di lavoro messo a punto da Millais lo costrinse ad allontanarsi dalla caotica Londra al fine di ritrarre la natura dal vero in una località identificata in un tratto delfiume Hogsmill presso Malden, rimasto tutt’oggi pressoché inalterato.
Esposta a Londra nel 1852, “Fraser’s Magazine” elogiò l’opera, citando il pathos del volto di Ofelia e la realtà poetica dell’ambiente naturale, unita alla determinazione dell’artista di “prendere la Natura così com’è, invece di comporla in un quadro”, adottadando una tecnica descrittiva inedita e priva di artificio.

(Filippo Musumeci)