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Ho sposato umilmente la causa della Storia dell'Arte per la primaria necessità di nobilitare il mio animo e conferirgli degnamente respiro. M'impegno quotidianamente, con i miei indiscussi limiti del caso, di trasmettere sentitamente ai miei simili, che la vita ha nominato miei interlocutori, non tanto il sapere, bensì l'amore per il sapere. E' l'unico patrimonio di cui dispongo al momento.

“L’ASSUNTA” NEGATA! IL TRITTICO DIMENTICATO DI PIETRO NOVELLI.

 

“L’ASSUNTA” NEGATA!

IL TRITTICO DIMENTICATO DI PIETRO NOVELLI.

di Filippo Musumeci

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E incidentemente riaccade e nocivamente attecchisce! La modalità è la stessa come tradizione vuole: “stessa spiaggia, stesso mare!!”. Meraviglie da “cartolina” che non necessitano di ritocchino fotosphop alcuno: specialità della casa, Ladies and Gentlemen, di questo triangolo insulare baciato dal sole e lambito dal mare, che senza trucco e “tanto inganno” si barcamena, arranca e stenta a spiegare le vele. Ma il vento, ch’eppur soffia da queste parti, eccome, (specie d’estate) viaggia su onde piatte con la medesima, consolidata e obsoleta frequenza.
“Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi”, per dirla alla Verga:
“Proprio l’ideale dell’ostrica! E noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano”. (Giovanni Verga, da “Fantasticheria” in “Vita dei campi”,1880).
Un certo (e compianto) Pino Daniele nel 1993 cantava:
“Un posto ci sarà
fatto di lava e sole
dove la gente sa che è ora di cambiare!
Sicily terra e nisciuno!”.
Riportiamo qui il racconto (per certi versi spassoso) della visita “a metà” vissuta recentemente da una giovane coppia amica in vacanza nel ragusano, ove tra scenografici scorci barocchi e prelibatezze gastronomiche (anch’esse barocche) bisogna scornarsi con quella matassa burocratica “antigalileiana” per cui tutto “eppur non si move”.
– Adesso, non per esser disfattista, ma la gente continua a non cambiare e la Sicilia (te pareva) resta ancora “terra di nessuno”, direbbe qualcuno!
– Ricorda che siamo in vacanza! É meglio lasciare in standby la cronaca politica e parlar d’altro, per piacere!
– E di cosa, scusa?
– Bé, di “Bellezze artistiche”, ad esempio! Siamo o no in Sicilia? “La perla del Mediterraneo”, il tempio della Magna Graecia, la patria del Tardo-barocco. Devo farti la lista, adesso?
– Ah, ho capito. Quindi parliamo di politica!
– Ma sei proprio una piattola ogni qualvolta metti piede in Trinacria. Classica posizione di chi si lagna e non batte ciglio!
– No, cara! Conosciamo benissimo entrambi la storia e le sue ferite, ancora da cicatrizzare, che, poi, sono anche le mie, le nostre e di tutti coloro che hanno a cuore tutela e valorizzazione del Patrimonio culturale nazionale e no.
– Sarà! Ma al tuo posto non la farei così tragica, su! Io riesco ancora ad assaporare gli stessi odori e sapori decantati con dovizia da poeti e viaggiatori. Apprezzo ancora bellezze, usi e costumi di questa terra ove si piange due volte: quando si approda e quando la si lascia per ripartire!
– Dici bene! Bellezze, … e usi e costumi, soprattutto!
– Che vorresti insinuare? Non essere evasivo, e se riesci, neppure “leopardiano”.
– Premesso che Leopardi era “Rock” e il problema non era certo lui, ma ciò che lo circondava. E magari, poi, mi spiegherai questo “leopardiano”, che con il contesto ci azzecca davvero poco, da quale sepolcro l’hai riesumato. Tuttavia, vorrei insinuare, se mi consenti, gli usi e i costumi, per l’appunto, da te citati: quelli di pessimo gusto e agire “culturale”.
– In che senso?
– Sbaglio o parliamo di gestione del Patrimonio storico-artistico e culturale nostrano? Intendo dire che quest’eredità “culturale”, d’inestimabile valore e unicità di genere, è gestita in modo insindacabilmente scorretto, inadeguato e, aggiungerei, orribile!
– Ascolta, poiché so già dove vuoi andare a parare. Cambiamo discorso, e una buona volta per tutte! Capito? Non sarà che caponata e insalata di polipo ti sono andati giù pesanti stavolta? Abbiamo affrontato centinaia di volte quest’argomento, tesoro, e ogni volta l’epilogo è sempre lo stesso: diventi irascibile e ci stai male! Ripeto, lascia perdere!!
– Troppo facile! Ma credo sia la soluzione più comoda al momento per non guastarci le vacanze ansiosamente attese. Eppure di un caso “eclatante” di questa “cattiva gestione” di “tesori” nostrani desidererei parlarti, seppur brevemente e limitando ai minimi termini possibili (e sacrosante) polemiche.
– Di quale caso “eclatante” vorresti parlarmi, mi auguro brevemente?
– Di un’ “Assunta”.
– Un’Assunta?
– Sì, hai capito bene, un’ “Assunta!”
– Scusa la mia ignoranza! Potresti essere più esplicito? Grazie!
– Sai benissimo di quale “Assunta” parlo: quella del Monrealese. Un capolavoro assoluto del seicento barocco isolano, la cui visibilità è, da anni or sono, negata per inagibilità del sito ecclesiastico che lo ospita dal 1643. Vale a dire la Chiesa di Sant’Agata presso l’ex Convento dei PP. Cappuccini, ubicati all’interno del giardino ibleo di Ragusa Ibla.

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– Ah, e qui si scoprono gli altarini! Sei proprio un martello pneumatico alle volte! Guarda caso, ci troviamo a Ibla per un’agognata passeggiata e tu cogli la ghiotta occasione per polemizzare su un monumento artistico coi sigilli apposti alle porte. E poi, scusa, eh, basta, dai! Sempre stò scalcagnato del Monrealese. Ma poveraccio, lascialo in pace! Le tue inossidabili frecciatine etiche sono l’ultima cosa di cui ha bisogno per essere “riscoperto” degnamente. Del resto, (e immagino la tua imminente quanto accesa reazione!) se storici e critici hanno deciso negli ultimi trent’anni, e di comune accordo, di oscurarlo un motivo di fondo ci sarà. No?
– No!
– Mi sarei stupita di sentirti profferire un sì affermativo!!
– Non è un problema editoriale ma semplicemente di disinteresse scientifico-didattico, gravemente avvallato da un deficit nel piano di riconquista e rivalorizzazione degli artisti di spessore di “scuola siciliana”, dall’indiscussa valenza storico-artistica. Come se il barocco siciliano, in definitiva, avesse una prerogativa esclusivamente architettonica. Hai notato da te, quando si ha l’opportunità di visitare una nuova meta, le strategie messe in atto in altre realtà della Penisola: artisti (sconosciuti ai più) presentati come orgoglio identitario e per i quali è stato possibile articolare un adeguato circuito “musealizzato” al fine di condurre il visitatore, occasionale e non, alla conoscenza del proprio patrimonio, ovvero, per restare in tema, le “specialità” della casa!

– Ma cos’è che ti rode di più di tutta questa storia?
– Mi rode sapere che un’opera di inestimabile valore storico-stilistico resti violentemente incarcerata all’interno di una struttura inagibile, con tutti i rischi che ciò comporta. Se il trittico fosse stato realizzato da Caravaggio, Tiziano, Raffaello & Co. (e dinanzi ai quali m’inchino devotamente e umilmente) col cavolo che lo si lasciava marcire in un rudere. Ma siccome si tratta di quello scalcagnato (come lo definisci te!) del Monrealese, che bisogno c’è di traslarlo in altro sito, magari al Duomo di San Giorgio? Ma del resto di cosa stiamo parlando? La Galleria di Palazzo Abatellis di Palermo ha i depositi stipati delle sue opere, limitandone la visione nelle sale espositive a un numero risicatissimo di lavori. Se vuoi osare, piuttosto, fai prima a pianificare un tour nelle chiese palermitane e, sperando anche in questo caso di trovare accesso libero, di vedere lì solo una parte dei pregevoli pezzi dell’artista.
– Hai perfettamente ragione! Ma come devo dirtelo? Non puoi cambiare le teste delle persone. Qui le cose vanno così e tutto si dà al raddoppio! Lo stesso tempo presenta leggi fisiche a sé. Come dire: ci si dà alla mollezza! Sarà il caldo, ma “cala” la palpebra e con essa la voglia! E poi, è un retaggio ancestrale inestirpabile.
– E dunque siamo punto e a capo! A proposito di caldo, sai quella gelateria in piazza Duomo famosa per i gusti al vino? Però, dopo, si “rivisita” il Duomo di San Giorgio, ok? Almeno diamo un senso “culturale”, e perché no, “montalbanese”, a questa capatina ragusana.
– D’accordo! Vada per il gelato e per il Duomo. Tanto lo so che ti senti un po’ “Montalbano” quando passeggi per questi luoghi.
– Se lo dici tu!
– Dico, dico!!

E dopo il dolce non poteva mancare l’amaro, specie quando ci si illude caparbiamente che per qualche pseudomagia qualcosa di buono e “nuovo” possa accadere.
Il sito resta tutt’oggi interdetto alle visite, con buona pace dei sensi!!
In effetti, a dirla tutta, in data 5 febbraio i portali ragusani riportano la news di un finanziamento da parte della Conferenza episcopale italiana di 246.390 euro destinato ai lavori di restauro e messa in sicurezza della Chiesa di Sant’Agata a Ibla.
Ma pare, rimembrando i tempi piuttosto dilatati della burocrazia insulare, che quel poveraccio del Monrealese, per la cronaca, Pietro Novelli da Monreale, dovrà aspettare ancora a lungo prima di rincontrare gli sguardi di masse distratte e sporadicamente incuriosite da quel Trittico menzionato qua e là nelle guide turistiche. Forse un giorno, chissà quando, le porte del vestibolo saranno varcate da un animo nobile che, anziché semplicemente curioso, sarà sinceramente interessato al Maestro seicentesco e ripagato dopo tanta snervante attesa e più di un centinaio di km marciati sull’asfalto rovente (oltre che disconnesso), tra gallerie solo parzialmente illuminate (tanto per andare al risparmio) e cartellonistica  mangiata dal sole perché marchiata anni Ottanta. L’ignoto temerario (eroe dei nostri giorni), ne ammirerà la visione d’insieme: quella coralità sacrale che squilla al pari dei lumi chiaroscurati sui volti degli astanti e increduli apostoli; ne scruterà, ancora, la qualità pittorica, la resa dei particolare, l’introspezione psicologica abilmente indagata e, non ultimo, quell’umano vissuto, già prodigioso al pari del dogma immortalato sulla tela. Un’illuminazione repentina darà vita a un’esperienza sensoriale che troverà il suo culmine quando lo sguardo indagatore incontrerà quello dello stesso Monrealese, autoritrattosi tra gli apostoli e voltatosi un solo istante perché distratto dal vocio contemporaneo o fosse anche e più alacremente per suggerirci la sua presenza come testimone oculare del mistero contemplativo.

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Ecco, tutto questo potrebbe succedere un giorno! Ma qui (o lì) tutto è imprevedibile e su certe questioni temporeggiare è d’obbligo. E come un altro illustre compianto insegna, un certo Dalla:
“E tra le case ancora da finire noi continuiamo, continuiamo a far l’amore”. (Lucio Dalla, da “Siciliano” in “Luna Matana”, 2001).
Della serie: “E che fretta c’è? Mangiamo, beviamo e amoreggiamo! Per tutto il resto c’è sempre tempo. E buonanotte al secchio!”.
Questo racconto ha un finale a metà strada tra la cronaca e la favola. Ma premesso che oggigiorno di fantasticherie se ne producono a iosa, non sarà certo quest’ultima, immaginaria chissà, a irritare la sensibilità etica di chi di dovere.

– Sei contento adesso? Hai voluto tentare nella speranza di trovar la chiesa aperta. I lavori di restauro devono ancora cominciare, ma vedrai che fra un anno saremo più fortunati.
– Già, l’anno prossimo! È ciò che mi ripetesti speranzosa l’anno scorso in questo stesso punto. Ascolta, ti va di andare avanti con la bimba e di aspettarmi al bar? Arrivo subito! Ho bisogno di un attimo solo con me stesso.
– Ok, tranquillo! Non farmi aspettare 20 minuti però!
– Ti raggiungo subito, amore! Grazie!
– Prego! Papà arriva subito, tesoro! Deve parlare con il suo amico, il Monrealese, ahhhh!!!!
– Spiritosa!! Uhm, non ha poi tutti i torti! Del resto chi mi conosce meglio di lei? Va bè, ti saluto Pietro e stammi bene! Vorrà dire che sarà per l’anno prossimo…si spera!!

– Me lo auguro anch’io, amico mio! Me lo auguro per te…e anche un po’ per me!! Perché in quelle tele ho ritratto la mia anima e la mia anima ivi dimora. Non chiedo tanto, se non altro quella riconoscenza che la sorte mi ha indebitamente sottratto e tristemente attendo! (Pietro Novelli, il Monrealese)

N.B. Dei rapporto tra l’Assunta di Ragusa e l’Elezione di San Mattia all’apostolato di Leonforte (Enna), altro capolavoro novelliano, abbiamo scritto QUI.

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“QUEL CIAK CHE SA DI QUADRO”. EDWARD HOPPER E LA SETTIMA ARTE.

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“QUEL CIAK CHE SA DI QUADRO”. EDWARD HOPPER E LA SETTIMA ARTE

di Filippo Musumeci

Dei rapporti tra le opere di Edward Hopper e la “settima arte” – non necessariemente di matrice statunitense – s’indaga e discute, oggi più di ieri, in modo sistematico e, di volta in volta, con maggior respiro.
Per la critica italiana l’occasione ghiotta si concretizzò a monte della doppia e fortunata esposizione antologica hopperiana milanese (Palazzo Reale, 14 ottobre 2009 – 31 gennaio 2010) e romana (Fondazione Roma Museo, 16 febbraio – 13 giugno 2010).
Il ricordo della visita in quel di Milano è ancora lucidissimo e serbo soprattutto l’immagine delle ripetute ed estasiate soste dinanzi a Moning Sun (Sole del mattino, 1962; olio su tela. Columbus Museum of Art, Ohio) e Second Story Sunlight (Secondo piano al sole, 1960; olio su tela. Whitney Museum of American Art, New York).

 

Il catalogo della mostra Edward Hopper (a cura di Carter E. Foster. Skira editore), offrì preziosi spunti di riflessione per comprendere più dettagliatamente la produzione figurativa del pittore realista e il suo sguardo indagatore sulla società americana tra gli anni Dieci e Sessanta del Novecento.
Tra i saggi proposti, quello di Goffredo Fofi, “Hopper e il cinema”, più di altri contribuisce a ricostruire le influenze largamente esercitate dall’artista sul processo creativo di celebri cineasti: Howard Hawks (The Big sleep), Billy Wilder (The lost weekend), Win Wenders (Non bussare alla mia porta, Paris e Texas), Jim Jamusch (Broken flowers), Todd Hayner (Far from Heaven), Michelangelo Antonioni (Deserto rosso e Il grido), Dario Argento (Deep Red), Brian De Palma (Gli intoccabili), John Huston (Il mistero del falco), Herbert Ross (Pennies from heaven), Woody Allen (Manhattan), Terrence Malick (Days of Heaven) e, non ultimo, Alfred Hitchcock (Psycho, La finestra sul cortile, Vertigo e Intrigo internazionale).

4  Sono questi i maggiori e dichiarati debitori dell’arte di Hopper: coloro che hanno volutamente ridipingere in pellicola le inquadrature paesaggistiche e gli scorci urbani immortalati dal pittore sulla tela. Tuttavia l’elenco è più nutrito di quanto si possa credere e non sarebbe difficile, attraverso un lavoro di confronto e fermo immagine, riscontrare rimandi visivi alle opere di Hopper, reinterpretate in singoli fotogrammi sin dagli anni Quaranta del secolo scorso.
Ma questa non è la sede più specificatamente idonea per un’operazione così certosina. Qui, al più, si vuole attenzionare, senza pretesa alcuna, il palese e incontrovertibile rapporto tra due generi artistici, pittura e cinema, apparentemente diversi, ma profondamente affini.
Basti pensare ad alcune scene di Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) di Hitchcock, ove il “genio del brivido” scruta l’intimità (oggi diremmo la privacy) degli appartamenti dirimpettai del fotoreporter L.B. “Jeff” Jeffries servendosi proprio dell’occhio “esterno” di quest’ultimo e ricreando la stessa silente sensuale atmosfera contenuta negli innumerevoli interni metropolitani di Hopper, come Night Windows (1928), da cui il regista prende in prestito perfino il particolare del dorso inclinato dell’ignota donna in abito rosa del dipinto, ripetuto da Miss Torse, la procace ballerina della pellicola.

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Anche Woody Allen rese omaggio al pittore in una scena di Manhattan (1979) in cui Isaac Davis e Mary Wilke, seduti di spalle su di una panchina di fronte all’East River, fissano l’orizzonte riprendendo lo scorcio prospettico di Queensborough Bridge (1913).

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Ancora, Billy Wilder cita la serie dedicata da Hopper agli “interni di caffè”, Automat (1927), Clop Suey (1929) e il celeberrimo Nightawks (1942), in più scene di The Lost weekend (1945) in cui Ray Milland – nel ruolo che nel 1946 gli valse l’oscar come miglior attore protagonista – , ormai schiacciato dall’alcolismo, vive l’epilogo tragico dei tanti “giorni perduti” occupando in solitaria i freddi tavoli dei locali newyorkesi, nella disperata ricerca di un precario appiglio per il quale archiviare una carriera costellata di insucessi letterari.
Sono dipinti, questi, che attraggono il nostro sguardo perché costruiti con diagonali che esaltano l’immobilità autoreferenziale dei personaggi e la loro realtà materica oltre il moltiplicarsi delle fonti luminose e i densi spessori volumetrici della città.

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Si è accennato a Nightawks (Nottambuli, 1942) con il bar Phillies, forse il più celebre dell’intera produzione pittorica hopperiana, ma indubbiamente il più “ridipinto” in celluloide nell’arco di oltre un sessantennio da maestri della cinepresa succitati e per il quale lo stesso pittore disse: «Inconsciamente, forse, ho dipinto la solitudine di una grande città».

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In una scena di The maltese falcon (Il mistero del falco 1941) di John Huston, Humphrey Bogart attente due loschi personaggi all’interno di un locale di San Francisco del tutto simile a quello creato da Hopper. Ma, al di là di questi espliciti adattamenti scenografici di location, basterebbe soffermarsi sulla coppia seduta al bancone del locale per scorgerne attinenze estetiche tra l’uomo col borsalino e sigaretta in mano e l’archetipa immagine costruita da Humphrey Bogart nelle sue storiche performance.

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Goffredo Fofi scrive nel suo, già, citato saggio che l’opera di Hopper è: «contenuta, controllata, apparentemente distante, fredda, attenta alle solitudini e non alle folle di una società in movimento, alle sue agitazioni scomposte e spesso frenetiche».
Sempre Fofi scrive: «Nell’opera di Hopper c’è un doppio movimento dell’occhio non – selvaggio, anzi educatissimo: quello che va da fuori il quadro a dentro, e il suo contrario. C’è l’occhio che guarda dall’esterno dentro le stanze, i bar, gli uffici, come da cinematrografiche gru o da carrelli immobilizzati al punto giusto, il punto geometrico che solo l’intuito del regista sa fissare (si vede il regista, dicevano i grandi registi hollywoodiani, da dove piazza la macchina da presa), ed è qui che l’occhio della macchina diventa quello dello spettatore».
Quindi l’occhio dell’artista è simile a quello di un regista o di un fotografo, in quanto è questi a fornire massimo valore al rapporto tra personaggi e ambiente, decidendone pose e atteggiamenti, l’intensità più adatta delle sue luci e la disposizione dei vari volumi nella scena.
Pittura paesaggistica, ma soprattutto metropolitana e marcatamente americana, quella di Hopper. Eppure, le sue storie si muovono su sfondi scenografici privi di automobili e di folle vocianti, nonostante il crescente boom economico a stelle e strisce, in cui esterni e interni si compenetrano e si conseguono in un’unica indissolubile soluzione.
Gli scatti decisi dal pittore, infatti, sono dei “ciak” ove poche figure in pose composte, provvisorie e bloccate, guardano fuori dall’inquadratura verso ampie distese di praterie o ristretti scorci urbani, come fossero in pausa, in sosta o in perenne attesa. E quest’eterna attesa altro non è che “solitudine”: il male che non si debella, la condanna infertile del loro vissuto, quella che non porterà nulla di nuovo nelle loro esistenze e che lascerà tutto com’era e come dovrà essere.
Queste figure, a loro volte, sono osservate dallo spettatore con occhio attento e a “distanza”, oltre le vetrate, le finestre, le porte: figure che occupano strade e vie della metropoli; oppure gli interni di stanze d’albergo, caffè notturni, sale d’attesa, uffici,verande o semplicemente camere dei propri solitari appartamenti, delle proprie abitazioni, alla ricerca di un rifugio di pacifico silenzio.
Ed è la casa, intesa come dimora della “solitudine”, tra le scenografie più accuratamente indagate dal pennello di Hopper, come House by the Railboard (La casa sulla ferrovia, 1925: il primo dipinto dell’artista entrato nelle collezioni del Moma di New York), fonte d’ispirazione per Days of Heaven di Terrence Malick e Psycho di Hitchcock. In quest’ultimo, soprattutto, l’immagine della casa “vittoriana” come dimora della “solitudine” muta, piuttosto, in luogo di mistero e condanna ove si consuma il male abilmente architettato dallo psicopatico Norman Bates, soltanto sul finale svelato.

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Come ricorda la storica d’arte Orietta Rossi Pinelli, il quadro di Hopper ben di prestava al soggetto hitchcockiano per la collocazione solitaria e misteriosa; «unica presenza, ma neppure in primo piano; per quella possibilità di una vita all’interno che si presume solo da qualche persiana alzata; per quella sospensione del tempo che esclude ogni possibilità di azione».
Paradigma della pittura americana oggettivistica, House by the Railboard, in quanto segno della civiltà, ha caratteri antropomorfi, a cui sono contrapposti i binari della ferrovia, aventi la funzione di una linea d’orizzonte posta in primo piano. Secondo lo storico d’arte tedesco Ivo kranzfelder, «Hitchcock ha ripreso la tecnica di Hopper della visuale dal basso e dei piani inclinati nel film Psycho. […] Il dipinto ha l’effetto di un’istantanea presa da un treno in corsa, ma sono le stesse rotaie, sulle quali il treno dovrebbe muoversi, a scorrere nel quadro. Il movimento è congelato, esso non si attua nel dipinto, nella realtà dell’immagine».

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E dopo Hichcock è tutto un continuo remake di quella casa “vittoriana” dal carattere “gotico”, cioè sinistro, che sfocia fino a risultati più “commercialmente” intesi e di qualità opinabile, seppur di magnetica presa sugli amanti del genere horror e conseguenti facili guadagni al botteghino.

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Ma il mondo è bello perché vario e questa, per concludere, è fortunatamente un’altra storia!

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ESPLORIAMO L’OPERA: IL “FREGIO DI BEETHOVEN” DI GUSTAV KLIMT.

IL “FREGIO DI BEETHOVEN” (BEETHOVENFRIES)
di
GUSTAV KLIMT

di Filippo Musumeci

«So dipingere e disegnare. Lo penso io e lo dicono anche gli altri, ma non sono sicuro che sia vero. Di sicuro so soltanto due cose:
1. Non ho mai dipinto un autoritratto. La mia persona come soggetto di un quadro non mi interessa. Mi interessano gli altri, soprattutto le donne e più ancora le altre forme. Credo che in me non ci sia niente di particolare da vedere. Sono un pittore che dipinge tutti i giorni, dalla mattina alla sera: figure, paesaggi e, più raramente, ritratti.
2. Non valgo molto con le parole, non sono capace di parlare e di scrivere, soprattutto se devo dire qualcosa di me o del mio lavoro. Anche se devo scrivere una cosa se avessi la nausea. Bisognerà dunque rinunciare a un mio autoritratto, artistico o letterario. Non sarà una grande perdita: chi vuole sapere qualcosa di me come artista (che è l’unica cosa che valga la pena di conoscere) deve guardare direttamente i miei quadri. Solo così potrà capire che sono e cosa voglio». (Gustav Klimt)

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ANNO: 1902
TECNICA e MATERIALI: caseina, smalti e intonaco su pannelli lignei incannucciati. Frammenti di specchio, bottoni , chiodi di tappezzeria, pezzi di vetro colorato e dorature.
DIMENSIONI: 2,20 x 24 m.
LUOGO DI UBICAZIONE: Vienna – Wiener Secessionsgebäude (Palazzo della Secessione).
ESPOSIZIONE: XIVa mostra della “Secessione viennese” – dal 15 aprile al 17 giugno 1902.

Intitolata sinteticamente “Beethoven”, la XIVa mostra secessionista viennese fu allestita dall’aprile al giugno 1902 nei locali del celebre Palazzo della Secessione (in tedesco “Wiener Secessionsgebäude”, di cui vi abbiamo aprlato QUI), progettato da Joseph Maria Olbrich (Troppau, 22 dicembre 1867 – Düsseldorf, 8 agosto 1908) – allievo di Otto Wagner – tra il 1897 e il 1898 come spazio espositivo «templare» a tre navate per gli artisti legati all’ideale della Gesamtkunstwerk di wagneriana memoria, letteralmente “Opera d’arte totale”.
L’esposizione ideata dall’architetto, nonché direttore artistico generale, Josef Franz Maria Hoffmann (Brtnice, 15 dicembre 1870 – Vienna, 7 maggio 1956), con la partecipazione di 21 artisti della Secessione viennese (Wiener Secession), ebbe come leitmotiv la celebrazione di Ludwig van Beethoven (Bonn, 16 dicembre 1770 – Vienna, 26 marzo 1827): genio titanico del classicismo viennese e antesignano del romanticismo musicale che più di chiunque altro rappresentò agli occhi dei giovani artisti la personificazione della speranza in nuovo futuro e la lotta contro le forze avverse della società, nemiche dello spirito creativo.

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Il giorno dell’inaugurazione fu eseguito il quarto movimento della Nona Sinfonia in Re minore con voci e coro finale (Op. 125, nota anche come Sinfonia corale: ultima sinfonia composta dal compositore nel 1824, ormai affetto da sordità, e la cui prima assoluta avvenne venerdì 7 maggio dello stesso anno al Theater am Kärntnertor di Vienna, con la contralto Caroline Unger ed il tenore Anton Haizinger), orchestrato ex novo per legni e ottoni dall’allora direttore dell’Opera viennese Gustav Mahler (Kalischt, 7 luglio 1860 – Vienna, 18 maggio 1911), le cui note risuonarono lungo le parete della sala centrale del padiglione, ove campeggiava la scultura policroma di Beethoven realizzata da Max Klinger e a cui facevano da corona i lavori degli altri espositori.

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Tale scultura, dal carattere eroico e sacro – il cui il soggetto, simile a una divinità olimpica, appare in trono senza veli, coperto da un solo lungo drappeggio, con il pugno serrato sulle gambe accavallate e lo sguardo frontale – incarna il martire e salvatore moderno dell’umanità. Gli aderenti alla Secessione viennese, in tal modo, vogliono trasfigurare l’esposizione in un evento di suggestiva eco dal valore salvifico: celebrare Beethoven, quale incarnazione del libero genio – intorno al quale, negli stessi anni, si venne a creare un vero culto alimentato da musicisti come Franz Liszt, Richard Wagner e lo stesso Mahler (mentre in Francia Èmile-Antoine Bourdelle creava la “grande maschera tragica di Beethoven” e Romain Rolland scriveva La vita di Beethoven) – significava esaltare l’amore e l’abnegazione attraverso le quali si compiva la redenzione etica e spirituale dell’uomo.
E coerentemente al tema promosso nella mostra, nella sala sinistra del Palazzo espositivo, Gustav Klimt, fedele all’evoluzione stilistica del suo linguaggio espressivo, immaginò il celebre fregio beethoviano come un’allegoria figurativa della Nona Sinfonia, filtrandola attraverso la poetica elaborata da Nietzsche sulla possi¬bile redenzione del genere umano per mezzo delle arti.
È probabile che il pittore abbia trovato ispirazione nel saggio su Beethoven steso nel 1846 da Richard Wagner, nume tutelare dei secessionisti per la capacità di contrastare la natura corrosiva della società con la funzione liberatoria della musica. Non è casuale che per l’ultimo pannello del Fregio Klimt abbia scelto come “motto” una frase tratta dallo scritto wagneriano («II mio regno non è di questo mondo») allo scopo di sottolineare le distanze dell’artista dalla realtà delle apparenze fenomeniche.
Josef Hoffmann progettò l’allestimento degli spazi espositivi destinati ad accogliere le sperimentazioni estetiche strettamente connesse alla musica impiegando cemento grezzo al fine di rendere l’intero ambiente pienamente neutrale, conscio del disarmo dei lavori a fine mostra. Dunque, l’opera klimtiana non fu concepita per esistere oltre l’arco temporale di quel bimestre del 1902 e ciò spiega chiaramente la scelta della tecnica esecutiva alla caseina (una proteina contenuta nel latte che si ottiene mediante un complesso procedimento chimico e impiegata sia nella tempera su tavola che su parete. In pittura è impiegato come fissativo e adesivo del colore a base di calce, presentandosi come sostanza durissima, resistente, opaca e vellutata o satinata se strofinata con un panno di lana), e smalti su doppio strato d’intonaco steso su un graticcio ligneo inchiodato a canne applicate su fili di ferro. Inoltre, per ottenere effetti di sottili vibrazioni cromatiche, Klimt vi inserì frammenti di specchio, bottoni , chiodi di tappezzeria, pezzi di vetro colorato e dorature. Tutti materiali, questi, facilmente asportabili.
Tuttavia, al di là delle feroci critiche lanciate al suo autore, il Fregio di Beethoven fu salvato dall’oblio e alcune parti decorative sono custodite in musei statali e collezioni private.
Il collezionista Carl Reininghaus acquistò il Fregio e dispose che l’opera fosse tagliate in otto segmenti al fine di staccare la decorazione parietale al termine della retrospettiva dedicata a Klimt nel 1903 (XVIIIa esposizione).
Nel 1915 fu ceduto all’industriale August Lederer, che espropriato dei propri beni nel 1938 si vide confiscare l’opera rimasta, così, in territorio austriaco, fino all’acquisizione della Repubblica d’Austria nel 1973. Infine, nel 1986, dopo uno scrupoloso restauro decennale, venne concesso in prestito permanente dalla Österreichische Galerie Belvedere (Galleria austriaca del Belvedere Superiore), attuale proprietaria del ciclo pittorico, e ospitato nel Palazzo della Secessione in un locale appositamente realizzato.
Oggi il Fregio si presenta costituito da sette composizione su altrettanti pannelli applicati nella zona superio¬re delle pareti, integrandosi perfettamente con la linearità ed essenzialità degli ambienti predisposti da Josef Hoffmann. Classificato come bene inamovibile dallo Stato austriaco, dell’opera è stata eseguita una copia a grandezza naturale da esporre nelle mostre estemporanee estere.
In questa composizione corale, Klimt supera la fase dell’’illusionismo d’atmosfera tipico della sua pittura precedente, per approdare a una rappresentazione stilizzata e bidimensionale, ove la linea di contorno di impone come primario elemento espressivo.
Nel catalogo della mostra lo stesso artista descriveva con queste parole la sua messinscena:
«Prima parete lunga di fronte all’ingresso: “il desiderio della felicità”.
Le sofferenze del debole genere umano: le suppliche costituiscono la forza esterna, la compassione e l’ambizione la forza interna, che muovono l’uomo forte e ben armato alla lotta per la felicità.
Parete più corta: “le forze ostili”. Il gigante Tifeo, contro il quale perfino gli dei combatterono inutilmente; le sue figlie, le tre Gòrgoni: la malattia, la follia, la morte. La volontà e la lussoria, l’eccesso. L’angoscia che rode. In alto le affezioni e i desideri degli uomini che volano via.
Seconda parete lunga: “il desiderio di felicità si placa nella poesia”. Le arti ci conducono nel regno ideale dove possiamo trovare la pace assoluta, la felicità assoluta, l’amore assoluto. Coro degli angeli del Paradiso. Gioia, meravigliosa scintilla divina».

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Klimt si servì dello spazio chiuso della navata per svolgere un rapporto simbolico unitario, secondo una stilizzazione concisa e pregnante, articolato in una ritmica sequenza di episodi, vertenti sulla narrazione del lungo viaggio dell’individuo alla ricerca della felicità, tra forze del bene e del male, come evidenziato dalla filosofia di Schopenhauer.
In seguito alla definitiva collocazione entro il nuovo spazio espositivo, la sequenza allegorica del ciclo è in parte mutata:
Sulla parete sinistra è rappresentato “L’Anelito alla felicità” (non più posto frontale secondo la presentazione originale). Secondo un’ornamentazione continua, la catena di figure flessuose e fluttuanti (allegoria dell’anelito alla felicità che muove il Cavaliere eroe) che si librano nello spazio con andamento ritmico, ispirate ai dipinti di Jan Toorop, ritmicamente reiterate e protese verso l’infinito, è interrotta dalla solenne figura del Cavaliere vestito dell’armatura dorata – secondo gli studi sarebbe un ritratto di Gustav Mahler – che ascolta, appoggiato alla sua spada, le invocazioni e preghiere di un’umanità flebile e sofferenze rivolte ai forti ben armati affinché intraprendano per pietà e orgoglio, quali forze trainanti, la lotta per la felicità assoluta. Alle sue spalle sono raffigurate le due allegorie della compassione (con il capo chino inclinato e le mani giunte) e dell’ambizione (con volto frontale e corona di alloro in mano), quest’ultima ispirato all’Igea dell’allegoria della Medicina (1900-07)
Nella parete centrale viene rappresentata l’ “Ostilità delle forze avverse”, impersonata dal gigante Tifeo (o Tifone, etimologicamente “Fumo stupefacente”) – ibrida bestia scimmiesca dal manto arruffato, ali blu e corpo serpentino che osserva i visitatori con occhi madreperlacei (simbolo dell’ottusità materialista), attorniato sulla destra dalle figure della lussuria, dell’impudicizia e dell’incontinenza (quest’ultima riconoscibile dal grosso ventre sporgente e il cui pingue corpo e un chiaro omaggio a Aubrey Beardsley) e, distaccata dal gruppo, la rannicchiata e smilza figura dell’angoscia che rode (dolore struggente o il tormento) – e dalle sue tre figlie, le Gòrgoni (etimologicamente “le terribili”), ornate di gioielli e serpenti. Esse appaiono come esseri vampireschi, simboli della malattia, della pazzia e della morte. I desideri e gli aneliti dell’uomo, in fuga da queste forze devastanti che li condurrebbero a morte, sono simboleggiati nella parete destra della composizione. In realtà, Nelle Metamorfosi di Ovidio e nel Promèteo di Eschilo, Tifeo è una creatura metà uomo – metà bestia: testa di asino, ali di pipistrello e più alto della montagna più alta del mondo. Figlio di Gea (la Terra) e Tartaro (dio della realtà sotterranea e tenebrosa), fu confinato nell’Etna e fu motivo di violente eruzioni laviche. Si unì con Echìdna da cui ebbe tre figli: Ortro (o Otro. Cane bicefalo), Cèrbero (Cane tricefalo), Chimèra (creatura femminile mostruosa con corpo di Leone, coda di serpente e testa di capra sul dorso), Idra di Lerna (creatura femminile mostruosa dalle forme di Serpente marino). Ortro (o Orto) si unì, poi, con la madre Echìdna concependo la Sfinge e il Leone di Nemèa (o Nemèo).

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Le tre Gòrgoni, dunque, erano figlie del dio Forco (Forci o Fòrcide: simbolo dei pericoli nascosti negli abissi) e Ceto (creatura femminile mostruosa marina). Presentano un corpo alato con ali d’oro, mani e artigli bronzei, zanne di cinghiale e testa avviluppata di serpenti sibilanti.Conosciute con i nomi di Steno (la perversione sessuale), Eurìale (la perversione morale) e Medusa (la perversione intellettuale. Quest’ultima è, delle tre, l’unica mortale, inoltre è la regina delle Gòrgoni e madre di Pègaso, il cavallo alato, e Crisàore). Solo Virgilio le designa tutte e tre come esseri mortali.

Poiché “non c’è felicità senza arte” e solo «le Arti ci conducono in un mondo ideale, l’unico dove possiamo trovare la pace assoluta, la felicità assoluta e l’amore assoluto», nell’ultima sezione del Fregio è rappresentato “L’anelito alla felicità che si placa nella poesia”, delineato dalle Arti che conducono in un mondo ideale dove finalmente si palesano la gioia, la felicità e l’amore allo stato puro, cantati dal Coro degli angeli del Paradiso (simbolo dell’Empireo della poesia e della bellezza ideale), come una parafrasi pittorica dell’ “Inno alla gioia” di Schiller.

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Solo per questa via il volo delle Silfidi (simbolo dei desideri dell’uomo) può penetrare nell’Empireo ove le Muse ondeggiano mollemente nella luce dorata, modulato sul dolce suono della lira splendente della Poesia (ispirata alla Musica I e II) che stempera ogni ansia.
Tutto si conclude – e non poteva essere altrimenti, dato che in un passaggio del coro finale della Nona Sinfonia si recita: «Questo bacio al mondo intero» – con l’abbraccio del cavaliere disarmato e della donna, personificazione della poesia, vegliati dalle fronde dell’albero della vita e dai medaglioni cosmici del Sole e della Luna (personificazioni del giorno e della notte: le due fasi del giorno intese come inizio e fine), sotto la protezione di una campana decorativa immateriale simile a uno scrigno d’oro, motivo, questo, ripreso in seguito nel Fregio di Palazzo Stoclet di Bruxelles (1905-09) e nel celeberrimo II bacio (1907-08).

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Dunque il significato profondo dell’opera risiede proprio in quest’ultimo abbraccio: esso sigla “la salvezza dei pochi eletti che si lasciano trasportare nel mondo ideale dell’arte”, vale a dire “un regno che non è di questo mondo”.
«Come le Vergini in processione nei mosaici di Sant’Apollinare in Classe, i Cori angelici posano su un prato di smalti; come nelle cupole dei Battisteri degli Ortodossi e degli Ariani, molli garze filamentose velano il piede dell’uomo e della donna; come nell’ultima arte bizantina il corpo si scinde in foglie d’oro puro, in un ricamo di linee luminose, in superfici abbaglianti. La volumetria è il luogo del male, esprime il peso della colpa, mentre nell’Empireo tutto è levità, soffio sacro, volo e velo di luce» (Elena Pontiggia).

Complessivamente si avverte una dominante tendenza all’astrazione attraverso la semplificazione formale, plasmando l’intero ciclo di un effetto evanescente estremamente raffinato, cui contribuisce il particolare uso dell’intonaco volto a isolare gli elementi in modo paratattico (giustapposizione, cioè successione di elementi isolati, contraria a “sintattica”) e scandire con ampi spazi vuoti gli spazi pieni occupati dalle figure.
Per la generazione di Klimt, che amava l’ambizione, la libertà creativa e l’utopia, l’Arte ha un potere salvifico e da questa convinzione si sviluppa l’interesse, particolarmente approfondito dai secessionisti, per l’opera d’arte globale.
Tra fine Ottocento e primo decennio del Novecento, Klimt indaga attraverso la sua pittura sul senso della vita, trovando una prima formulazione nelle tre composizioni allegoriche della Filosofia (1899-1907), Medicina (1900-1907) e Giurisprudenza (1903-07), realizzate per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università viennese, ma andate distrutte durante l’incendio del Castello di Immendorf nel 1945: la sua risposta appare in netto contrasto con il positivismo del tempo, provocando durissime accuse e un vespaio di polemiche a causa del processo di mistificazione e disincanto eloquentemente espressi nei pannelli.
Oggi, a testimonianza di queste tre composizioni allegoriche, restano soltanto fotografie in bianco e nero, poiché sciaguramente distrutte dall’incendio doloso del Castello di Immendorf (Austria settentrionale) appiccato dalle SS naziste la notte tra il 7 e l’8 maggio 1945, all’indomani della dichiarazione di resa delle truppe naziste in territorio austriaco: temendo che le truppe sovietiche entrassero in possesso delle opere ivi depositate negli anni dal regime perché ritenute eccessivamente sensuali, gli ufficiali ordinarono di piazzare l’esplosivo nelle quattro torri del sito, distruggendolo interamente.
Tornando al Fregio, la XIVa esposizione secessionista, tuttavia, si presentava come la possibilità utopica di redimere l’uomo attraverso le straordinarie forze purificatrici dell’arte e dell’amore. Ciononostante, l’iniziativa si presentò come una momentanea e repentina sconfitta anche sul fronte finanziario oltre che artistico, poiché il ciclo klimtiano ricevette un’accoglienza marcatamente gelida e una profonda indignazione per via delle tre Gorgoni e allegorie (Lussuria, Impudicizia, Incontinenza e Angoscia), ritenute ripugnanti, nelle quali Klimt inserì espliciti particolari degli organi sessuali maschili e femminili, a sperma e ovuli.
Una plausibile spiegazione alla reazione del pubblico, in linea, del resto, con il gusto accademico di inizio secolo, potrebbe trovare risposta analizzando il progresso stilistico compiuto da Klimt nel tempo, votato a una completa autonomia delle forme e linee nonché a un approccio ornamentale di maggior respiro e inequivocabilmente moderno. Al ché, il valore intrinseco della rappresentazione, insito nell’opera di redenzione dell’uomo compiuto per mezzo della donna nell’abbraccio finale, raggiunge lo spettatore con forzata difficoltà, poiché questi si attiene convenzionalmente a canoni estetici per i quali il “bello” è sinonimo d’idealizzazione formale, lungi da una rappresentazione palesemente brutale della realtà (Gilles Néret).
Jean-Paul Bouillon afferma nel suo saggio sul Fregio di Beethoven che il disvelamento della sessualità operato da Klimt non rappresenta una vera liberazione: «Egli cade al contrario in un duplice incubo: quello della donna castratrice – e questa volta attraverso il proprio stesso sesso senza la mediazione della rappresentazione simbolica di Giuditta I del 1901 – e quello della donna lasciva che vuole ottenere il piacere soprattutto solo per sé (Lussuria e molti disegni “erotici” di Klimt), costituendo un pericolo per l’uomo. La prima di queste immagini femminili appare nella striscia centrale sotto forma delle tre Gorgoni.
Le stesse tre figure ricorrono nella Giurisprudenza, qui insieme con la loro vittima, alla quale mostrano senza mezzi termini ciò che l’osservatore, smascherato come voyeur, debba aspettarsi da loro. La seconda immagine riguarda il gruppo simmetrico accanto a Tifeo, integrato un poco oltre dal tormento, un’allusione alla silfide che Klimt… temeva particolarmente… L’istitutrice dalla perversa, polimorfa sessualità, descritta da Freud nei “Tre saggi sulla sessualità” del 1905, si mostra in quest’opera ancora più temibile proprio perché è sufficiente a se stessa: nella striscia centrale l’uomo non trova posto».

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È singolare come l’uomo venga rappresentato da Klimt di rado e solo allo scopo di risaltare la figura femminile: nella Vienna di fine secolo l’uomo si sente evidentemente minacciato ed escluso dall’universo femminile dominato dalla donna fatale. Il narcisistico mondo delle lesbiche che si amano nella corrente di Bisce d’acqua I e Bisce d’acqua II è emblematico dell’angoscia suscitata dalla femminilità dominante. Anche l’eroe bee¬thoveniano, dunque, si trova, senza abiti e senza armatura, in una condizione di assoluta subordinazione, nonostante la forza espressa dal suo corpo – come ribadisce ancora Jean-Paul Bouillon – sono le braccia della donna che lo rendono prigioniero e gli tengono il capo chino. Non vi è più nulla in lui del trionfante Teseo sul Manifesto della Secessione, egli, al contrario, volge le spalle alle Furie castatrici nella posizione di un debole vecchio, come quello ritratto nella Giurisprudenza … In lui è percepibile l’ambiguità della sessualità tanto come punizione quanto come piacere (C. E. Schorske).
È il ritorno dell’eroe al grembo materno, la fine del viaggio verso un corpo che egli non avrebbe mai dovuto lasciare, l’ultimo abbraccio che equivale anche a un ritorno alle origini, a quel cosmo in cui la donna è la vera vincitrice.
Secondo Eva Di Stefano, l’opera contiene un ulteriore livello simbolico, poiché Klimt vi interpreta la contrapposizione atemporale tra bene e male, oltre all’aspirazione al riscatto ideale attraverso l’arte, dal punto di vista del rapporto uomo-donna: nell’opera, infatti, il momento della liberazione è identificato con il raggiungimento dell’estasi amorosa, e il regno ideale con l’abbraccio della donna. All’elemento maschile, il Cavaliere, corrisponde nella parete destra (dello spettatore) di fronte una figura femminile, la Poesia: ripiegata su se stessa nell’attesa passiva, ella suona la lira, riprendendo lo schema iconografico della Musica I (1895, Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammulungen) e Musica II (1898, distrutto nell’incendio dolodo del Castello di Immendorf nel 1945); e alla “femminile” curvilinearità del suo strumento corrisponde la spigolosità “maschile” della corazza di cui l’uomo è armato. Per raggiungere la donna e congiungersi a lei il Cavaliere dovrà compiere un viaggio agli Inferi, attraversare, sconfiggendole, le forze del male e resistere alla seduzione delle sirene malvage e lascive.

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Prosegue Di Stefano: «Se femminili sono le due figure propiziatrici (Compassione e Ambizione) e femminile è la corrente fluttuante di corpi che lo guida per la via pericolosa che egli dovrà superare, femminile è anche l’universo malefico abitato dalle Gòrgoni, parodia del tema delle Tre Grazie e dalle loro compagne impudiche o terrificanti. Nella mitologia greca Tifeo è rivale di Atena, nume tutelare della “nuova arte”, e l’impresa del Cavaliere appare analoga a alla lotta col drago, ricorrrente nei miti e nelle leggende: le imprese di Giasone, Eracle, San Michele, San Giorgio sono state interpretate dalla psicologia del profondo come vicende simboliche d’iniziazione alla virilità attraverso la sconfitta delle forze telluriche e aggressive della femminilità.
Spogliato della sua corazza, il protagonista, visto di spalle, è immerso nell’abbraccio, ma, più che un eroe vittorioso, appare come un amante soggiogato: così l’immagine, che apparentemente celebra la liberazione e il trionfo dell’eroe sulle forze ostili, è in realtà anche l’immagine della sua resa al potere femminile che è identico all’eros, è la vittoria dell’universo dei sensi sulla paura e sui diurni e razionali strumenti di difesa. Coerentemente con la poetica, l’apoteosi dell’aria arabescata da Klimt sulle pareti del tempio secessionista non poteva che affermare ancora la coincidenza tra erotica ed estetica».

L’analisi stilistica del ciclo pittorico suggerisce le molteplici fonti a cui attinse il suo autore: dalla pittura egizia ricava la concezione della parete come fascia ove si allineano in sequenza narrativa i soggetti figurativi; dalle stampe di Hokusai e Utamaro deriva il segno incisivo; la scultura africana (che a quel tempo Klimt cominciato a collezionare) gli suggerisce le orride maschere che abitano il regno del male; minoico-micenee sono, invece, le spirali, come coup de fouet (colpo di frusta) che si ripetono attorno alla figura della Poesia; mentre dal bizantinismo musivo ravennate recupera la matrice astratta e luministica dell’oro, largamente impiegato. Nelle figure si mescolano, ancora, echi di Minne, Aubrey Beardsley (Copertina per “Ali baba e i quaranta ladroni”, Londra, 1897), Mackintosh, Jan Toorop – artista ospite della Secessione nel 1900 – (illustrazione tratta da W.G. Nouthuys, “Egidius en de wreemdeling”, Haarlam, 1899), Hodler (“L’eletto”, 1893-94, Karl Ernst Oathaus Museum) e tutta la cultura Jugendstil della linea viene nel Fregio liricamente condensata (Eva Di Stefano).

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A differenza di altri colleghi secessionisti, Klimt non rinnegò la plasticità classica ma superò la tradizione collocando i corpi entro composizioni ingegnose e assolutamente originali. Come afferma Giuseppe Nifosì: «le figure si articolano tra loro, si annodano in catene complesse, franano verso lo spettatore come cascate spettacolari. Allo stesso tempo, le contorte fisionomie si muovono entro un fondo astratto caratterizzato da un travolgente ritmo vibratorio. Queste intense decorazioni corpuscolari, questi fastosi mosaici composti da rombi, occhi di pavone, curve spiraliformi, tessere brillanti non sono mai abbandonati alla pura casualità e all’arbitrio; al contrario sono governati da un controllo attento e serratissimo».

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INTERVISTA DI FRANCESCA BIANCHI ALLA PITTRICE VENEZIANA FERNANDA FACCIOLLI.

Viaggio alla scoperta dei culti ancestrali greci con Fernanda Facciolli

di Francesca Bianchi
La scorsa settimana ho avuto l’immenso piacere di incontrare la pittrice e professoressa veneziana Fernanda Facciolli. Con la cortesia e l’ospitalità che la contraddistinguono, l’artista e suo marito Emmet ci hanno aperto le porte del Dictynneion, il loro spazio espositivo, sito in Campiello del Sole, a Rialto, permeato dalla presenza di antiche spiritualità femminili. Varcando la soglia, sembra di essere immersi in uno spazio sacro, in cui prendono corpo le forze primordiali della natura, venerate nel mondo preclassico del Mediterraneo.
Donna di straordinaria cultura ed eleganza, nel corso della nostra entusiasmante chiacchierata la pittrice ha ripercorso le tappe più importanti della sua vita e della sua carriera, soffermandosi con estrema minuzia sui temi cardine della sua arte: l’amore, i miti greci e il culto preistorico della Grande Madre mediterranea. Con orgoglio ci ha anche raccontato la genesi del suo libro “Con Pausania sulle tracce di Esiodo”, frutto delle scoperte fatte nei suoi numerosi viaggi in Grecia in compagnia del marito, sotto la guida fedele del geografo greco Pausania (II sec. d.C.).
Mossa da una grande desiderio di conoscenza e da un’inesauribile energia, la pittrice è fortemente persuasa che con l’eterno e universale linguaggio dell’arte possa rendere partecipi delle sue scoperte gli ammiratori dei suoi dipinti, trasmettendo loro la stessa gioia di vivere che da sempre anima la sua creatività.

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Signora Facciolli, quando è entrata l’arte nella sua vita?
Essendo figlia d’arte, ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente in cui si coltivava grande passione per l’espressione artistica. Mio padre era un famoso ritrattista paesaggista e ogni domenica mi portava a visitare gallerie d’arte. All’età di due anni realizzai la mia prima figura umana, gelosamente conservata da mia madre. Da allora ho fatto del disegno quasi l’unico mio gioco di bambina.
Terminati gli studi artistici, sono approdata al mondo della grafica, per poi gettarmi definitivamente nella pittura, fino a sviluppare in questi ultimi anni idee e contenuti legati alla dimensione preistorica della dea Madre. All’età di 25 anni ho vinto un concorso per una cattedra di pittura, affiancando così all’avventura artistica, fatta di mostre collettive e personali, quella della didattica, che mi ha consentito di trasmettere ai miei allievi il bello e il buono, arricchiti con l’esperienza della professione artistica.
Il Suo sogno di bambina era quello di fare la pittrice?
No, da bambina sognavo di fare la maestra, perché per me la maestra era la più grande figura di potere. A 14 anni, invece, avrei voluto fare la pittrice, con la speranza di realizzare così un sogno di mio padre. Il destino ha voluto che nella mia vita sia riuscita a fare sia la pittrice che l’insegnante.
Cosa significa per una pittrice insegnare l’arte?
Per me insegnare significa passare a qualcuno che ne farà buon uso il meglio che ho raccolto dalle mie esperienze. Devo dire che più faccio esperienze, più nasce in me un immenso desiderio di raccontarle. Credo che compito primario di ogni artista sia quello di scorgere il bello e, una volta trovato, farlo vedere agli altri. Chi ha avuto modo di vedere i miei lavori, ne ha ricevuto, credo, un’intensa elevazione spirituale: per me questa è la gratificazione più importante.
Quanto incide l’aspetto spirituale e trascendentale nella Sua ricerca pittorica?
Avendo cantato in gioventù come soprano nel Coro Polifonico Veneziano, ho cercato di trasporre la polifonia dei canti nella mia pittura, maturando fin dall’inizio un linguaggio segnico e compositivo, in cui le vibrazioni sensoriali ed emotive si scompongono e si ricompongono, armonizzandosi in un movimento fluido e polifonico. Poi, constatato che nell’arte vengono rappresentate o scene di sesso o di violenza, ho deciso di rappresentare il bello, l’amore, la serenità. Per me non c’è niente di più bello dell’amore, motore immobile e sostegno dell’umanità. Nei miei quadri spesso racconto l’amore attraverso il simbolismo di un bacio o di un abbraccio.
I sentimenti che scaturiscono dai Suoi quadri sono stati una costante della Sua vita…
Sì, soprattutto l’immenso amore tra me e mia figlia Galadriel, venuta a mancare all’età di 10 anni. Quando è nata, ho provato la gioia più grande della mia vita. I dieci anni vissuti con lei, seppur brevi, sono stati gli anni più intensi e più belli. Il destino mi ha messo a dura prova, ma sono stata tanto amata. L’amore, mia figlia e l’arte sono stati i regali più preziosi che la vita potesse farmi.
Quali sono stati i Suoi maestri?
I miei primi maestri sono stati mio padre e mia madre. Poi Michelangelo, di cui fin da giovane ho apprezzato il modo in cui riusciva ad avvitare su se stesse figure. Ho sempre cercato di mettere nei miei disegni la torsione dei corpi e il dinamismo michelangiolesco. Del resto l’amore, tema costante della mia pittura, è una cosa dinamica.
Come è nata l’idea di trasporre il mito greco nei Suoi dipinti?
Ho iniziato facendo principalmente ritratti e rappresentazioni simboliche del sentimento dell’amore. E’ stato mio marito ad esortarmi a mettere sulla tela i miti greci, mia grande passione. Il mito racconta degli inizi dell’avventura umana; per comprenderlo interamente occorre risalire i tempi della storia fin oltre la storia, ben prima dei testi scritti, e imparare nuovamente a leggere ed ascoltare la Natura, novello Oracolo assolutamente attendibile. Percorrendo la Grecia, le primigenie voci della Natura sono ovunque, sottolineate da una religiosità millenaria che ha conservato, con i segni della fede, i luoghi degli antichi santuari delle Dee Madri.
Come è nata l’idea di dare alle stampe il libro “Con Pausania sulle tracce di Esiodo”?
Con mio marito Emmet abbiamo trascorso tre mesi e mezzo a Tebe, guidati come sempre da Pausania, alla ricerca di testimonianze archeologiche e naturalistiche. Abbiamo realizzato dei quadri, ispirati alle nostre scoperte, facendo così rivivere i miti della città di Tebe. Ci siamo resi conto che una mostra normale non era sufficiente per contenere almeno una parte dei miti più importanti. Così abbiamo allestito una mostra a Venezia in quattro sedi diverse. A causa della mole delle storie citate, nessuno si sentiva in grado di scrivere il testo per un catalogo della mostra. Allora, terminata la realizzazione dei quadri, ho deciso di scrivere personalmente un libro corredato di trentasei opere pittoriche, con annesse fotografie dei siti archeologici, un saggio a metà strada tra il catalogo d’arte e la trattazione scientifica e filologica. In esso svelo l’originaria essenza dei miti e delle religioni dell’età del Bronzo in Beozia, ripercorrendo i luoghi degli antichi santuari.
Studiando l’etimologia dei nomi e associandola ad osservazioni in loco, dimostro che re, principesse ed eroi mitologici erano in realtà elementi della natura: fiumi, fonti, montagne ed alberi pluricentenari. Dopo il Medioevo Ellenico non capivano più che si trattava di elementi naturali, ma li interpretavano come esseri umani.
Nel catalogo c’è un dipinto a cui è particolarmente legata?
Sì, il quadro a cui tengo di più è quello intitolato “La Sfinge di Tebe”. Ai tempi di Pausania era sopravvissuto il ricordo di una dea dal corpo mostruoso, la Sfinge appunto, nemica degli stranieri, che difendeva i confini di Tebe. In realtà, però, la Sfinge era una montagna a forma di leonessa alata in procinto di spiccare il volo. Esiodo, che scriveva in dialetto beotico, nella sua Teogonia chiama la Sfinge Φίξ, genitivo Fikòs. Figòs significa “quercia”, figoon “querceto”. Ne ho dedotto che il monte della Sfinge, lo Sfinghion, il monte beota di Tebe, era il monte del querceto, ricoperto di splendide querce, alberi simbolo della forza che viene donata dal cielo attraverso le acque. Probabilmente, in epoca preistorica, lì sorgeva un santuario dedicato alla Signora del Querceto o della Montagna, una dea del cielo e della fertilità che veniva rappresentata come un animale ibrido con testa umana, corpo di leonessa e ali d’aquila. Visitando gli scavi archeologici del Santuario dei Cabiri, di cui parla Pausania, abbiamo potuto ammirare una montagna enorme, modellata dalla natura in forma di leonessa alata che sta per emergere dalla pianura, allargando le possenti ali. Nel mio dipinto ho umanizzato la montagna, che ho voluto effigiare come la dea egizia Sekmet, con corpo di donna e testa di leonessa, a cui ho aggiunto ali d’uccello. Così la Sfinge per me era la montagna che dall’alto guardava la città di Tebe e la proteggeva con il suo corpo imponente. Nel dipinto, in basso a destra, ho inserito anche il geroglifico egizio che simboleggia la città: un cerchio tagliato in due da una croce centrale.

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Come mai nei Suoi quadri spesso compaiono animali, quali l’oca, l’asina, la scrofa, associati a divinità?
Perché penso fermamente che bisogni restituire la dovuta dignità ad alcuni animali che oggi sono profondamente disprezzati, ma che nell’antichità erano considerati sacri. L’oca degli allevamenti intensivi, finché vive, patisce sofferenze atroci. Allora, memore di Pausania che ci parla di una bimba, Ercina, con l’oca in braccio, ho creato il quadro “Ercina e l’oca”. Ercina in greco si scrive Erkyna, nome composto da er- che significa “su”, “che sta su”, e -kyna, che significa “oca”. Ercina probabilmente designava l’ “Oca delle altezze” o “Oca Celeste”, considerando questi uccelli che volano altissimo e popolano le acque dei fiumi, come le creature inviate dalla dea del Cielo per mostrare agli uomini dove si nascondano le acque della salvezza. Io ho voluto rappresentare il fiume Ercina nella sua doppia veste: umanizzata, come nello stile classico, tramandatoci da Pausania, e “animalizzata”, come nel codice simbolico preistorico. Ho usato anche i colori in modo simbolico: il blu per l’oca, che rappresenta il fiume, e il rosso per la bambina, che rappresenta la terra dell’alveo.

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Anche la scrofa e l’asina sono animali da riabilitare. Spesso Atena veniva associata all’asina e gli antichi adoratori in questa associazione vedevano la tenerezza materna.
La scrofa, invece, con le sue 14-18 mammelle era considerata la madre delle madri, simbolo per eccellenza di ricchezza ed abbondanza della Madre Terra che nutre i suoi figli.
La presenza di divinità femminili e una profonda e sincera venerazione per l’antica Dea Madre mediterranea dei tempi preistorici sono temi costanti della Sua arte. Quando e come ha deciso di fare propri questi temi?
Ho trovato grande ispirazione nei testi di Robert Graves e di Marija Gimbutas, dove si dice chiaramente che le varie divinità femminili facevano capo o alla Dea Luna, creatrice e dominatrice delle acque, o alla Madre Terra, dispensatrice di vita per tutti gli esseri viventi. A Volos, in Tessaglia, ho avuto modo di ammirare le statuine votive della Dea Madre, risalenti al 6000 a.C.
Nei tempi più antichi della colonizzazione umana del territorio greco, i primi abitanti cercavano l’acqua dolce, prima di stanziarsi in un determinato luogo. Quando la trovavano, erano profondamente grati verso la roccia che donava la fonte o alla Madre Terra che faceva scaturire l’acqua dal suolo. In cambio di questo prezioso dono, gli antichi Greci onoravano la fonte, il fiume o la montagna con offerte di primizie o fiori. La montagna era considerata il seno della Dea Madre Terra e il fiume o la fonte era la Dea Figlia. Pure gli alberi selvatici o coltivati erano Figlie della Montagna, che a loro volta divenivano le madri dei frutti che nutrivano i nostri antenati. Anche il Cielo veniva riconosciuto come donatore dell’acqua, poiché la terra e la montagna, per donarla agli uomini, dovevano prima raccogliere la pioggia dal cielo. Per questo motivo la volta celeste era per i Greci l’Alta Signora Madre delle acque e la Luna era la sua testa e il suo volto.
E’ sorprendente notare la continuità tra i culti preistorici e quelli cristiani: girando per i paesini della Beozia, nella ricerca dell’ubicazione esatta degli antichi santuari, siamo stati aiutati molto dalla presenza di chiesette ed edicole votive cristiane, che ci segnalavano la presenza dei luoghi sacri antichi e moderni. La sacralità di un luogo derivava dalla presenza di una fonte o di un torrente antichi: allora si ringraziava la Ninfa della fonte o qualche divinità delle acque, oggi si ringrazia la Madonna o qualche santo cristiano, specialmente di sesso femminile, come Santa Paraskevì, ossia Santa Venerdì che, come la dea Venere, favorisce i concepimenti.
Ha qualche sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe che la mia città desse più importanza ai pittori veneziani. Inoltre vorrei che la città di Padova mi permettesse di allestire una mostra dedicata a Reitia, dea degli antichi Veneti. Credo che ogni città debba cercare un’arte contemporanea che faccia uso prezioso dell’antichità e della storia locale: con un’espressività moderna è possibile rappresentare e tramandare la grandiosità dei nostri antenati. Sono sicura che se recuperassimo l’orgoglio locale, le persone sarebbero più serene e consapevoli. Infine mi auguro di riuscire a vivere almeno fino a 80 anni per diffondere nuove ed interessanti storie e tradizioni che sono certa di scoprire nei miei prossimi viaggi in Grecia.

QUEL “VIOLACEO BLU” DI SARA BIANCOLIN

COMMENTO AL DISEGNO
– Tempo di realizzazione: circa 4 giorni (aprile 2015)
– Dimensioni del foglio: 24 x 33 cm.
– Materiali utilizzati: foglio di carta da disegno A4 liscio grammatura 220, matita HB mista a 3B, matite colorate acquerellabili Caran d’Ache Prismalo, gomma pane, fissativo, bianchetto applicato con la punta di uno spillo per evidenziare alcuni punti luce.

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Era un piovoso pomeriggio primaverile quando, compiendo annoiata una veloce ricerca via web in cerca di ispirazione artistica, mi sono imbattuta in alcune curiose fotografie di eleganti pesci tropicali che mi hanno subito entusiasmata e dato lo spunto per una personale composizione. Il mio intento iniziale era quello di riprodurre la trasparenza delle loro pinne e del movimento aggraziato della coda, richiamando le forme e i colori che si possono accostare, in maniera seppur fantasiosa, a delicati petali di fiori. Spero di essere riuscita, almeno in parte, a rispettare l’obiettivo di partenza e a conferire un leggero contrasto tonale tra le tenui sfumature della creatura acquatica sovrastante e quelle più vivaci e vibranti della inferiore.

Sara Biancolin

Del talento di Sara Biancolin ho avuto già modo di parlarvi QUI.

Quello che segue vuol essere, piuttosto, il mio omaggio all’artista e amica per il “dono” indegnamente ricevuto.

Una danza dei veli scuote gli abissi della notte assopita e, virtuosa, si plasma impalpabile come leggera fibra: evanescente vibra, spedita scompare e sinuosa rivive la scia bluastra del suo moto e luminiscenti sfumature del manto ondoso.
Si dispiega la ravvivata sinfonia in cromatici accordi ove tutto, nota per nota, delinea profili, volumi, suoni. È qui, a me dirimpetto, immobile e ingannevole divide il lembo di parete con una stampa di Antonello; quella “Pietà” del Prado che non mi dà pace e logora, e svuota, e ossessiona la mia labile vista, eppur non prova “pietà” alcuna e lacerante il bieco lavorio all’anima continua.

È qui, prende fiato, dà slancio al suo scatto e abbandona la morsa dello spazio. Non è più nel quadro, non è più “quadro”, seppur non lo sia mai stato! È qui, tra me e nel vuoto, come d’incanto: son desto e non m’inganno! Sfiora le membra, ne muta il colore, ne rimodella l’umore.
Salina era e salina resta la sua essenza, difetto non possiede in egual specie, il mio trepidare seduce e schiva, al che, il mio sguardo guida.

Ne è mio il possesso, eppur non lo possiedo: dimora nei miei giorni e ne origlia già segreti e dintorni; i mattini oscurati da pensieri reconditi, i lumi spenti di celati patimenti.

Sara ti diede vita e la tua vita riflette ora la mia. Sara volle che fossi un dono senza tempo per il maturo congedo, per quel passo risoluto e svelto che ne decreterà il dovuto rispetto.

Dal canto mio, non trattengo meriti di natura alcuna, fosse solo, al più, per la febbrile “arte” che la fece figlia sua degna di talento, per comuni prospettive, per conclusioni condivise.
È qui! E qui resterà ancora! Farà un tuffo, tuttavia, nel suo salmastro passato e mi persuaderà di crederlo un falso. Ne avvertirò le pulsioni, ne sentirò le palpitazioni e da quell’onda mi lascerò trascinare; e poi giù, fin dentro quel “violaceo blu” da cui io nacqui, a cui ritorno perché sublime, perché il mio cosmo.

Filippo Musumeci

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