Archivi categoria: Pittura

IMPRESSIONISMO. LETTURA OPERA: BAL AU MOULIN DE LA GALETTE DI RENOIR

Renoir-Ballo-al-moulin-de-la-Galette-1876-1024x761

Autore: August Renoir (1841-1919)

Data di produzione: 1876

Dimensioni: 131 x 175 cm

Dove si trova: Musée d’Orsay, Parigi

Prima di concentrarci sul dipinto, vorrei approfondire in linea generale il significato di Impressionismo, il movimento pittorico che ha dato vita a queste opere ricche di colori e movimento.

L’impressionismo nasce intorno al 1860 a Parigi; deriva direttamente dal realismo, in quanto si interessa soprattutto alla rappresentazione della realtà quotidiana, ma nei suoi aspetti più dolci e sereni.

La tecnica impressionista nasce dalla scelta di rappresentare solo e soltanto la realtà sensibile, occupandosi dei fenomeni ottici della visione.

Si può dire che, pur durando solo una ventina d’anni, questo movimento pittorico lascerà grandi eredità all’arte contemporanea.

I protagonisti dell’impressionismo furono soprattutto pittori francesi: Claude Monet, per eccellenza, Auguste Renoir, Camille Pissarro e, con qualche originalità, Edgar Degas. Per ultimi ma non per importanza Edouard Manet, precursore del movimento, e Paul Cézanne, la cui opera è quella che per prima supera l’impressionismo degli inizi. Monet fa vaporizzare le forme, dissolvendole nella luce; Cezanne ricostruisce le forme, ma utilizzando solo la luce e il colore.

Le date fondamentali dell’impressionismo sono tre:

1863:Edouard Manet espone «La colazione sull’erba»;

1874: anno della prima mostra dei pittori impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar;

1886: anno dell’ottava e ultima mostra impressionista.

Il rinnovamento della tecnica pittorica, iniziata da Manet, parte proprio dalla scelta di rappresentare solo la realtà sensibile.

L’occhio umano ha recettori sensibili soprattutto a tre colori: il rosso, il verde e il blu. La diversa stimolazione di questi tre recettori producono nell’occhio la visione dei diversi colori. Una stimolazione simultanea di tutti e tre i recettori, mediante tre luci pure (rossa, verde e blu), dà la luce bianca. Questo meccanismo è quello che viene definito sintesi additiva.

I colori sono dei filtri che non consentono la riflessione degli altri colori. Sovrapponendo più colori, si ottiene la progressiva filtratura, e quindi soppressione, di varie colorazioni, fino a giungere al nero. In questo caso si ottiene quella che viene definita sintesi sottrattiva.

I colori posti su una tela agiscono sempre operando una sintesi sottrattiva: più i colori si mischiano e si sovrappongono, meno luce riflette il quadro.

Gli impressionisti cercano di evitare la perdita di luce riflessa, così da dare la stessa intensità visiva che si ottiene da una percezione diretta della realtà.

Per far ciò adottano le seguenti tecniche:

  1. utilizzano colori puri;
  2. non diluiscono i colori per realizzare il chiaro-scuro;
  3. accostano colori complementari;
  4. non usano mai il nero;
  5. anche le ombre sono colorate.

La pittura degli impressionisti era basata solo sul colore, eliminando la pratica del disegno. La realizzazioni dei quadri non avveniva negli atelier ma direttamente sul posto. È ciò che, con termine usuale, viene definito en plein air, questo perchè secondo i pittori impressionisti la realtà muta continuamente di aspetto. Per questo gli artisti “fotografano l’attimo” catturando le luci, i colori e i movimenti continuamente mutevoli.

Subito dopo la Rivoluzione industriale le città cambiarono radicalmente aspetto, trasformandosi così in accampamenti inquinati e non igienici per immigrati arrivati dalle campagne in cerca di fortuna. Nessuno quindi avrebbe mai avuto l’intenzione di rappresentare questa malsana realtà urbana. Gli impressionisti, invece, cercarono di esaltare la bellezza delle città, anche se nascosta.

Presero come riferimento Parigi. Come sappiamo la capitale francese è per eccellenza la patria del benessere e del divertimento fatti abitudine dai francesi e trasformati in un vero biglietto da visita. Questa vita così colorata ed armoniosa viene rappresentata dai maggiori esponenti impressionisti, regalando piacevoli emozioni agli spettatori.

Il Mulin de la Galette era un locale molto ampio situato nel quartiere di Montmatre, vicino ad un mulino. Era frequentato da molti, rappresentava un luogo di ritrovo dove divertirsi, ballare o semplicemente chiacchierare i compagnia.

Analisi del dipinto

Il dipinto raffigura un ballo domenicale a Montmartre, fu realizzato in gran parte en plein air e dimostra la piena maturità pittorica di Renoir nell’uso complesso della luce, risolto con un gioco di macchie chiare e scure.

Il pensiero di Renoir si può capire leggendo le sue parole:

“Se immersi nel sienzio, si sente squillare il campanello, si ha l’impressione che il rumore sia più stridente di quanto lo sia in realtà. Io cerco di far vibrare il colore in modo intenso come se il rumore del campanello risuonasse in mezzo al silenzio”

La formazione artistica dell’autore è di carattere autodidatta, egli studiò Rubens e il Settecento francese, i capisaldi su cui si basò il suo pensiero. Agli inizi della sua carriera ebbe l’opportunità di conoscere Monet, Bazille e Sisley alla scuola di belle arti. Si lega a questi ultimi e quando Bazille presenta agli altri Cezanne e Pissarro si forma così il gruppo impressionista. Renoir con forma e colore riesce a suggerirci l’idea di movimento e lo stato d’animo collettivo.

L’artista unifica l’insieme con toni di blu scuri, blu purpurei e violetti mescolati a colori più luminosi; le pose dei singoli personaggi sono costruite attraverso angoli arrotondati e curve, mentre i gruppi sono disposti in ampi cerchi che articolano lo spazio. I margini sono morbidi, colpi di pennello creano superfici vellutate, una luce solare macchiata di più colori dissolve e unifica il tutto. La sua pennellata è sinuosa e filamentosa e mantiene un’alta vibrazione. Con tale metodo inizia a rappresentare gli effetti della luce del sole, che, penetrando attraverso il fogliame, creano macchie dorate sui volti e sugli abiti dei modelli. Ai lati, le figure in primo piano sono tagliate di netto e suggeriscono il prolungarsi di quanto rappresentato.
Il punto di vista del pittore è focalizzato sulle due donne al centro, man mano che si guarda in lontananza le persone diventano sempre più sfocate secondo le leggi dell’ottica e dell’ “impressione” ritmica. Nel gruppo seduto attorno al tavolo, sono ritratti la modella Jeanne e sua sorella Estelle, lo scrittore Rivière, Franc Lamy e Goenuette (a destra); fra i ballerini sono riconoscibili, Lhote, Lestringuez, Gervex, Cordey ed altri. Al centro della sala con l’abito rosa, danza Marguerite Legrand, soprannominata Margot, una delle sue modelle preferite. Il cavaliere è Don Pedro Vedel de Solares y Cardenes.

Renoir in quest’opera non solo riesce a rappresentare benissimo la scena in movimeto, egli riesce perfettamente nel suo intento: colore e luce sono i veri protagonisti dell’opera e magicamente tutto si muove: ci si può perdere immaginando la musica che abbracciava questi corpi, si possono sentire le risate e addirittura i passi di danza.

“Ogni colore che noi vediamo nasce dall’influenza del suo vicino” (Monet)

 

“La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura cieca” (L.Da Vinci)

 

(Noemi Bolognesi)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO” (parte quinta) Kizette, “The Artist’s daughter” (La figlia dell’artista)

TAMARA DE LEMPICKA. “LA REGINA DELL’ART DÉCO”
(parte quinta)
Kizette, “The Artist’s daughter” (La figlia dell’artista)

di Filippo Musumeci

26

Come già affrontato nella parte prima di questo nostro viaggio nel mondo della “Regina dell’Art Déco”, Tamara ebbe dal primo matrimonio con l’avvocato polacco Tadeusz Lempicki Junozsa una figlia, Marie Christine, meglio conosciuta come Kizette, nata il 16 settembre 1916.
Il rapporto madre-figlia fu alquanto tormentato: Kizette rimase per l’artista una “figlia scomoda”, mentre questa rimproverò alla madre il suo “killer instinct” per mezzo del quale antepose il suo genio creativo agli affetti. E Ciò traspare con chiarezza nella biografia dell’artista stesa dalla stessa Kizette con la collaborazione di Charles Phillips dal titolo “Passion by Design: The Art and Times of Tamara de Lempicka”, e pubblicata nel 1987.
La figlia ricorda: «Quando rientrava da una festa, a notte inoltrata, ancora eccitata e piena d’energia, a volta mi svegliava per raccontarmi degli artisti e degli scrittori famosi che aveva incontrato, dei conti e dei duchi con cui aveva danzato, delle contesse e delle duchesse che l’avevano invitata a pranzo, a cena, all’Opéra, a ancora a un’altra festa».
Inarrestabile e impetuosa, Tamara non esitava a stare sotto i riflettori da diva qual era, schivando il “dolce far niente” senza dar tregua all’inesorabile divenire, poiché per lei, racconta ancora Kizette, «Le giornate erano sempre troppo corte».
“L’istinto assassino” della “polacca” si evince con estrema lucidità in altri avvincenti passaggi della sua biografia, nei quali la figlia tradisce una certa amarezza e risentimento per quell’affetto negatole dalla madre: «Aveva le sue leggi, ed erano quelle degli anni Venti. Le interessavano soltanto quelle persone che lei chiamava ‘le migliori’: gli aristocratici, i ricchi e l’élite intellettuale. Come qualunque persona di talento, anche mia madre era convinta di meritarsi tutto ciò che il mondo poteva offrire e questo le dava la libertà di frequentare solo chi poteva aiutarla o contribuire a sviluppare il suo ego. Viveva sulla Rive Gauche, dove dovevano vivere gli artisti e detestava tutto ciò che era borghese, mediocre e ‘carino’. Indossava solo abiti di lusso per accecare il suo pubblico e creare un’aura di mistero attorno al suo passato, alla sua età, alla sua vita in Polonia e in Russia, e perfino sulla sua stessa famiglia. La ragazza polacca di buona famiglia, la sposa bambina, l’emigrante, la madre giovanissima furono inghiottite dai suoi dipinti come paraventi del camerino di una diva. Al loro posto comparve la bellezza moderna, affasciante, raffinata e persino decadente del celebre autoritratto che pochi anni dopo avrebbe dipinto per la copertina della rivista di moda Die Dame. ‘Io vivo ai margini della società’, diceva Tamara. ‘Per quelli come me le regole comuni non valgono’. Fin dal principio, mia madre aveva puntato sullo stile».
Non era invidia quella di Kizette; e neanche gelosia nei confronti di una madre talmente titanica. Era, piuttosto, un sentimento nostalgico intriso di rabbia e di profondo disincanto per quanto negatole, per quanto dovuto e non dato. Era solitudine!
La psicoanalista Melanie Klein nel suo ultimo lavoro “Sul senso di solitudine” (1960) sostenne come questa nasca da una fusione tra «la nostalgia per una comprensione che avviene senza l’uso di parole – in ultima analisi il primissimo rapporto con la madre» e l’impossibilità di accettare in modo completo il proprio bagaglio emotivo di fantasie e angosce. «Sebbene il senso di solitudine possa essere diminuito o accresciuto per influenza di fattori esterni, esso non può venir mai completamente eliminato, perché lo stimolo ad effettuare l’integrazione, con la sua intrinseca sofferenza, ha la sua origine in conflitti interni che conservano inalterata la loro forza per tutta la vita».
Le cronache riportano come Tamara, non appena giunta a New York nel maggio del 1939, arriverò persino a dichiarare alla stampa statunitense di non aver figli e di non esser madre se non delle proprie creazioni figurative. E come la prese Kizette? Non certo bene! Sapeva di essere una presenza ingombrante per una madre così coinvolta nella definizione del proprio profilo iconico, il quale necessitava di un’assoluta indipendenza sociale quanto mentale. E Tamara quest’indipendenza tanto agognata, per una serie di vicissitudini, non le fu negata! Già nel 1929, a seguito del divorzio dei genitori nell’anno precedente, la giovane Kizette, appena tredicenne, si vide costretta a vivere in collegio: il padre si era ricostruito una vita con la nuova compagna Irene Spiess, che sposerà nel 1932; Tamara, per le cause succitati, non avrebbe potuto adempiere ai suoi oneri e doveri materni.

5
I rapporti, già seriamente compromessi dagli eventi, s’incrinarono inesorabilmente quando, una volta approdata negli State il 3 luglio 1940 a bordo della nave Nea Hellas, salpata da Lisbona, la figlia fu presentata al pubblico dalla pittrice in persona come la, di lei, sorella minore. La ragazza, allora ventitreenne, fece la traversata oceanica in compagnia di Louisianne Kuffner de Dioszegh, nata nel 1925, figlia del barone Raoul, ed entrambe dirette a Villa Vidor di Beverly Hills, sita al 1141 di Tower Road, presa in affitto dai baroni Kuffner fino al 1942. Ma la convivenza tra le due sorellastre durò ben poco: se Louisianne fu iscritta alla Douglas School a Pebble Beach, Kizette, con alle spalle una laurea conseguita a Oxford, si iscrisse, invece, alla Facoltà di Scienze Politiche di Stanford, gettando le basi per un’intensa vita mondana.
Di Louisianne resta oggi un ritratto di piccolo formato del 1940, ritagliato da Tamara alla morte del barone Raoul nel 1961 da una tela il cui disegno preparatorio ne prevedeva la figura intera, in realtà mai completata, e poi spedito alla ragazza come ricordo del breve periodo trascorso insieme. Dallo sfondo monocromo dai toni grigiastri si staglia l’ingenua immagine della quindicenne, impreziosita dall’elegante acconciatura con cerchietto dal fiocco bianco e retina di memoria rinascimentale che, come ricorda Gioia Mori, divenne di moda grazie alla Katie Scarlett O’Hara (in Italia il nome della protagonista fu mutato in Rossella O’Hara) di Via col vento, quando la protagonista del Kolossal, ormai caduta in disgrazia, indossava l’accessorio durante la fatica degli umili lavori.

7

Louisianne, deceduta il 12 novembre 2009, dopo la morte del padre non mantenne seri rapporti con Tamara e la figlia Kizette, già piuttosto fragili per via del patrimonio del barone lapidato in breve dalla pittrice e per il titolo nobiliare di cui si fregiò la stessa, tra l’altro, come se non bastasse, usato anche in seguito da Kizette pur non essendo figlia diretta del barone Kuffner.
In poche parole, ognuno si portava dietro il proprio fardello di lacrime e rancore e Kizette non fu la sola a subire sulla propria pelle lo spirito autoritario della “polacca”.
Eppure, per ironia della sorte, la grazia fisionomica di Kizette, unita alla sua incantevole eleganza, tornarono strategicamente utili alla madre per tutto il corso degli anni Venti, divenendone ben presto modella prediletta di opere celeberrime e pluristellate dalla critica.
Tra i lavori per cui la figlia posò per la madre vi è “Portrait d’une fillette avec son ourson” (Ritratto di bambina con il suo orsacchiotto) realizzato nel 1922, vale a dire ai tempi del domicilio presso Place Wagram 1 a Parigi. Kizette, all’età di appena sei anni e in compagnia del suo orsacchiotto di peluche, presenta una posa dal taglio fotografico resa attraverso una tavolozza ridotta a poche tinte: ocra, giallo, blu, verde e avorio restituite con rapide pennellate incrociate a definire i volumi dell’infante e memori del “furor” dei fauves.

4

Un’opera decisamente lontana dalle ricerche formali di lì a poco intraprese dalla Lempicka, ma senza, tuttavia, rinunciare alla carica psicologica del soggetto, che per impianto compositivo e scelta cromatica è equiparabile al dipinto del 1920 “Bambina con giocattoli” di Boris Dimitrievič Grigoriev.

18

Lo stesso tema infantile del Ritratto di bambina con il suo orsacchiotto” sarà riproposto dalla Lempicka nel 1933 in “Portrait de Mademoiselle Poum Rachou” (Ritratto di Mademoiselle Poum Rachou), ove, al di là delle sorprendenti somiglianze tra la giovane modella e Kizette (ai tempi del dipinto già diciasettenne), è ripreso il particolare dell’orsacchiotto tenuto stretto al petto da Poum, ma in una veste figurativa tutta nuova tra innocenza e malizia, già largamente sperimentata dalla pittrice a inizi anni Venti nelle opere aventi per modella la figlia.

2

Ne è un valido esempio “Potrait de Kizette” (Ritratto di Kizette), del 1923-24, ove la stessa appare all’interno del nuovo atelier parigino di rue Guy de Maupassant, 5: su uno sfondo mosso dalle pieghe di un tendaggio dalle spiccate tonalità di grigio posa l’innocente figura di Kizette in abitino rosa fucsia, tenuto fermo da una cintura della medesima tinta, e scarpette di vernice nera; gli occhi cerulei e i capelli biondi con taglio “à la garçonne”.

6

È un ritratto alla moda, poiché la figlia di Tamara indossa un capo di abbigliamento della Maison Mignapouf, specializzata in parures per bambini, e documentato da una serie di scatti pubblicati su “L’Officiel de la Couture et de la Mode” nel marzo del 1923, dunque, contemporaneo al dipinto. La fortuna di questo modello è comprovato pure da un servizio di “Les Modes” pubblicato nel settembre dello stesso per il quale posò una piccola star del cinema anni Venti, Régine Dumien, la cui posa, acconciatura, nonché disinvolta sicurezza, sono, anche in questo caso, facilmente sovrapponibili a quelle di Kizette.

19

In occasione dell’antologica “Tamara de Lempicka. La regina del moderno” al Complesso del Vittoriano di Roma (11 marzo – 10 luglio 2011), Gioia Mori, curatrice della mostra, ha condotto nuovi studi finalizzati a chiarire l’esatta cronologica esecutiva ed espositiva di un incantevole dipinto che la storiografia passata datava al 1928, anziché, com’è stato dimostrato dalla celebre studiosa, eseguito entro il 1926 ed esposto per la prima volta al Salon des Indépendants di Parigi, inaugurato il 21 gennaio 1927. Si tratta di “Kizette en rose” (Kizette in rosa): il primo di una serie di ritratti della figlia di Tamara nel quale appare il binomio “innocenza-malizia” per cui alle forme innocenti del soggetto si contrappongono gli atteggiamenti maliziosi e perversi dello stesso.

3

Dagli interni di un locale – forse a Cannes, in Costa Azzurra, ove la famiglia di Tamara trascorreva le vacanze estive; oppure lo stesso atelier parigino di 5, rue Guy de Maupassant –, che si apre sul porto parigino limitrofo per mezzo della finestra sul fondale, si staglia la figura scorciata di Kizette dai tratti somatici acerbi dallo sguardo ammiccante e dalla posa già seducente. La quinta scenografica con i profili dei transatlantici trova una fonte nel dipinto “Un porto sotto la luna”, realizzato dalla pittrice nel 1924, in cui le ricerche cubiste sui volumi spaziali urbani approderanno all’equilibrio compositivo della fase matura, superbamente rappresentata dalla stagione dei nudi femminili inseriti su di uno scenario prospettico contemporaneo enfatizzato dallo sviluppo verticalistico dei grattacieli di matrice statunitense.

21

Gli occhi color pervinca di Kizette hanno lasciato al momento la lettura del romanzo dalle pagine prospetticamente restituite alla visione e tenuto fermo dal braccio destro cui contribuisce il sostegno della gamba sinistra sollevata; il piede sinistro scalzo, privato della scarpetta bianca abbandonata al suolo, è tenuto fermo alla panca dalla pressione della caviglia destra. Il tutto addolcito dal colorito abbronzato della pelle delicatamente chiaroscurata su cui spicca il leggero tocco di rossetto sulle labbra e la gamma cromatica minimale dei grigi e rosa dell’abitino. Se il fine della Lempicka si era rivelato come rilettura della ritrattistica contemporanea, non poteva sfuggirle di certo l’omaggio alla moda del tempo di cui era ambasciatrice emerita. Non a caso, Kizette assume anche le vesti di indossatrice con il carrè “à la garçonne” e quell’abitino che tutto è fuorché un indumento infantile. Tutt’altro!! Si tratta di un completino femminile da tennis allora in voga, la cui gonna plissettata era già in uso da alcuni anni come capo sportivo, ma venne resa succinta nel 1926 (stesso anno del dipinto) e accompagnata da maglia lunga fermata ai fianchi da una sottile cintura, come dimostra un servizio pubblicato sulla rivista “Femina” nel maggio dello stesso anno.

23

L’immagine così innovativa del soggetto indussero la critica già nel 1928 a risalire alle fonti, avanzando alcune ipotesi: un scatto fotografico o una diretta ispirazione all’opera di Marie Laurencin, “Femme au chien” del 1924-25 e custodito all’Orangerie di Parigi.

24
Al di là delle possibili fonti, il successo di critica e pubblica di cui godette il dipinto fin dal suo esordio al Salon des Indépendants del 1927 è da attribuire al dinamicità e alla naturalezza della posa di Kizette che «sovvertiva infatti il tradizionale ritratto infantile, in cui i bambini appaiono bloccati in pose da adulti, rivelandosi improbabili modelli pazienti e ubbidienti» (Gioia Mori).
Ciò determina, per via diretta, una posa dal taglio fotografico maliziosamente seducente e dal carattere sottilmente erotico, quale antesignano di quel “lolitismo” letterario cantato nel 1955 dal russo Vladimir Vladimirovič Nabokov nel bestseller Lolita.
Dopo il Salon des Indèpendants del 1927, l’opera fu pubblicata dalla stampa internazionale belga, polacca e tedesca, vedendo presentata, poi, alla Galerie d’Art Moderne di Ostenda, Belgio, nell’agosto dello stesso anno e, infine, alla Galerie d’Art Decré Frères dal 17 gennaio al 17 febbraio 1928 per l’esposizione curata da Thomas Maisonneuve e a seguito della quale fu acquistata dal Musée des Beaux-Arts di Nantes per la significativa cifra di 15.000 franchi.
Fu in occasione d quest’ultima esposizione che il critico Teallendeau pubblicò un articolo il 18 gennaio, all’indomani dell’inaugurazione, sulle pagine di “Le Populaire” e nel cui finale dichiarava che se la Lempicka avesse fatto anche solo questo dipinto, meriterebbe di essere considerata una grande artista.
Un altro celeberrimo ritratto della figlia di Tamara, allora undicenne, e oggi custodito al Centre Pompidou di Parigi, è “Kizette al balcone” del 1927, esposto a giugno all’Exposition Internationale des Beaux-Arts di Bordeaux, ove fu premiato, e a novembre al Salon d’Automne assieme a un’altra meravigliosa opera, “La Bella Rafaëla” (di cui si dirà ampiamente nell’ottava parte di questo progetto). Il dipinto rappresenterà, inoltre, anche la Polonia alla ventottesima edizione della International Exhibition of Paintings di Pittsburg, Pennsylvania, del 1929.

13
L’impianto compositivo è debitore di “Kizette in rosa”, la cui posa di scorcio seduta di una panca è inquadrata in un balcone della casa-atelier parigino di 5, rue Guy de Maupassant affacciato sulle antiche ferronneries da cui si scorge l’abitato nel silenzio di una scena notturna nella quale gli edifici dai tetti a spioventi sono resi, anche in questo caso, attraverso una scomposizione sapiente dei volumi architettonici di matrice cubista. Il buio della notte è appena rischiarato dalla calda illuminazione artificiale dei lampioni stradali, nonché dalle finestre illuminate dall’interno delle abitazioni e per mezzo delle quali è possibile cogliere la sommessa intimità domestica degli anonimi risiedenti. L’occhio analitico della Lempicka si spinge oltre, toccando note di assoluta poesia nel particolare della finestra aperta sul cui davanzale è stata adagiato un vasetto in terracotta con una pianta di fiorellini rossi. Altre finestre, invece, sono spente come a voler sottolineare l’attività onirica in atto entro le mura degli abitati.
Se in “Kizette in rosa” erano le tonalità dei bianchi rosa e grigi a determinare il valore tonale della tavolozza, adesso quest’ultima è affidata primariamente a quelle grigie a cui si oppongono i terrigni bruno e giallo-ocra. Nonostante la posa possa apparire a primo acchito ingessata e formalmente più composta del dipinto precedente, in realtà la mano sinistra di Kizette stretta alla ringhiera in ferro battuto e l’inclinazione del busto verso la sinistra di chi guarda, cui si contrappongono quelle inverse del capo e del piede destro, suscitano nell’osservatore una sensazione di lenta instabilità del corpo, cui fanno eco le diagonali del panneggio dell’abito grigio, anch’esse orientate verso sinistra, seguendo, in tal modo, lo sviluppo a “S” delle membra. Questo moto fisico esercita una spinta sul tessuto tale da mostrare l’incarnato levigato delle gambe oltre il ginocchio. Le labbra della modella presentano lo stesso colorito roseo di “Kizette in rosa” e persino il taglio dei biondi capelli, successivamente sostituito dalla Lempicka da un taglio più mosso, un tempo era “à la garçonne”.

10

Il tendaggio alle spalle della bambina è uno schermo di sporgenze e rientranze su cui viene proiettata l’ombra del profilo, generata da una fonte luministica artificiale esterna al quadro e proveniente dall’interno dell’atelier di rue Guy de Maupassant. Ciò è lucidamente chiarito dalle ombre della panca, il cui sostegno anteriore sinistro proietta una fascia ombreggiata diagonale indicante l’esatta angolazione del punto di vista della pittrice, dunque, dell’osservatore stesso. L’armonia di grigi pervade l’intera scena ed efficacemente restituisce la sensazione di silente quiete notturna che emana la composizione, tuttavia, animata dalla scompostezza, a tratti sbarazzina e seducente, di Kizette, escludendo ogni enfasi sentimentale a favore di una freschezza dal taglio fotografico. Elogiato al Salon d’Automne del 1927 dai critici Thiébault-Sisson, Woroniecki e Lahalle e pubblicato sul numero del 7 gennaio 1928 della rivista polacca “Swiat”, l’opera rappresentò soprattutto per la giovane Kizette un’apparente ed effimera conquista.
Infatti in occasione dell’International Exhibition of Paintings di Pittsburg del 1929, Tamara non nascose l’identità della modella e la maternità fino ad allora negata alla stampa. La fonte è documentata da un articolo del “Pittsburgh Sun-Telegraph” del 13 novembre 1929 dal titolo “The Artist’s Daughter” (lo stesso utilizzato per presentarvi questa quinta parte del nostro viaggio nell’arte della Lempicka), in cui si legge: «“Kizette in balcone” ha detto di essere un ritratto di sua figlia».
La carica seduttiva di sapore “lolitiano” palesemente manifesta negli ultimi due lavori della pittrice appare solo in parte mitigata ne “La Comunanda” del 1928, ove la figlia assume una posa convenzionale e attinente al tema trattato.

12
Anch’esso, come “Kizette al balcone”, il dipinto fu presentato nello stesso anno al Salon d’Automne e nel 1929 al Salon des Indèpendants e alla mostra di Poznan, in Polonia, ove venne premiato con una medaglia di bronzo in occasione delle celebrazioni per il primo decennale della nazione.
La figura scorciata di Kizette, adesso dodicenne, occupa il primo piano della scena mediante un punto di vista particolarmente ravvicinato e, per conseguenza, ristretto. La cubatura spaziale è resa per mezzo del piano dell’inginocchiatoio in velluto rosso sul quale è adagiato un libro liturgico, presumibilmente, dato il carattere sacrale del soggetto, quello delle “ore” da recitare durante la consacrazione dei sacramenti. L’armonia dei bianchi e grigi è enfatizzata dai caldi bruni dell’abbronzatura magistralmente ricreata sul morbido e levigato incarnato della comunanda Kizette, le cui labbra carnose sono rese dalla tinta squillante del rosso, capace, già da solo, di accenderne l’angelico viso inscritto nell’ovale segnato dalla cuffietta con nastrino legato sotto il mento. I volumi plastici sono restituiti dalle linee taglienti e nette del disegno privo di sfumature, in un saggio di eccellente perizia tecnica nella resa delle trasparenze del velo deliziosamente chiaroscurato. Su questi agisce la colomba bianca sospesa in volo nell’atto di sollevarne un lembo con il becco; mentre le mani giunte e gli occhi assorti nella preghiera determinano l’atteggiamento orante della fanciulla, in un’atmosfera tesa tra mistico e assenza di sentimentalismi gratuiti. Anche in questo caso, è stato proposto il binomio innocenza-malizia, esplicitato proprio dalla presenza simbolica del volatile, poiché la colomba bianca è per tradizione attributo pagano e cristiano, rispettivamente di Venere e dello Spirito Santo. François Vallon, medico, collezionista della Lempicka e critico d’arte per “La Revue due Médecin”, in un articolo del 1930 scrisse a proposito di questa presenza: «…una colomba, insidiosa messaggera di Venere, raffinata e diabolica contraffazione dello Spirito Santo, […] preannuncia, dopo il fuggitivo passaggio di Dio nel suo piccolo cuore pronto a straripare, le belle labbra amorose della donna-bambina».
Dell’opera esiste anche uno studio preparatorio in cui non compare ancora la presenza simbolica della colomba bianca e nel quale la pittrice dà prova delle proprie abilità nella tecnica del pastello nelle lumeggiature di bianco su un disegno sicuro e incisivo.

22
Un’infanzia priva di candore, dunque, per cui il critico Arsène Alexandre nella recensione del Salon d’Automne del 1928, pubblicata su “Le Figaro” del 3 novembre, coniò il concetto di “ingrisme pervers” (ingrismo perverso).
Gioia Mori ha evidenziato che nelle opere della Lempicka: «Il suo universo femminile, infatti, manifesta spesso poli opposti della devozione e della perversione, e anche i volti angelici che rivolgono gli occhi imploranti al cielo sembrano in realtà rapiti in un’estasi ambigua di ascendenza barocca, o hanno atteggiamenti cosi ammiccanti da far evaporare ogni alone d’innocenza. Ma oltre agli atteggiamenti delle sue bambine, a far pensare a un’infanzia priva di candore perché “sapiente”, tenutaria forse di una conoscenza primigenia o già appesantita da dubbi cosmici, è quell’attributo che spesso compare nelle sue opere dedicate ai bambini».
L’ultimo ritratto di Tamara alla figlia, ormai quasi quarantenne, risale al 1955 nel quale l’artista polacca ne restituisce l’indiscusso fascino e l’espressione spavalda racchiusa negli occhi profondi pervinca nel rosso squillante delle labbra ancora carnose come un tempo.

8

La fonte di questo piccolo formato potrebbe essere una foto scattata in occasione delle festività natalizie del 1955 trascorse con Kizette a Houston, città nella quale questa risiedeva dal 1952, al 3235 di Reba Drive. Kizette sposò nel 1942 a Las Vegas il geologo Harold Foxhall e ne diede annuncio a Tamara solo per telefono. Quest’ultima, a sua volta, impegnata nell’allestimento di un’antologica a Milwaukee, si limitò in un invito alla coppia nella villa di King Vidor a Beverly Hills.

17
Tuttavia, la polacca si credeva vittima di Kizette, del marito e delle due figli, Christie e Victoria, a cui rimproverava una spiccata venalità e la continua richiesta di denaro. Risale agli anni Sessanta una caricatura eseguita da Tamara in cui confessava il suo ruolo svolto nei rapporti familiari: sdraiata sul pavimento e circondata da Kizette, dal marito e dalle due nipoti con la scritta “Money” e punti esclamativi.

25
Quando Kizette morì il 16 aprile 2001 all’età di ottantacinque anni sullo “Houston Chronicle” comparve un breve articolo in cui la si ricordava come protagonista del jet set internazionale e per essere stata «The daughter of famed art deco painter Tamara del Lempicka».

P.S. Vi diamo appuntamento alla parte sesta del nostro viaggio nell’arte della “Regina dell’Art Déco”.
BIBLIOGRAFIA

-Gioia Mori, Tamara de Lempicka. La Regina del Moderno, catalogo della mostra (Roma, Complesso del Vittoriano, 11 marzo – 10 luglio 2011), Milano, Skira, 2011.

-Gioia Mori, Tamara de Lempicka, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chiablese, 19 marzo – 06 settembre 2015), Milano, 24 Ore Cultura, 2015.

-Gilles Néret, Tamara de Lempicka (1898-1980). La dea dell’epoca dell’automobile, Taschen, 1999.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

GIOVANNI IUDICE. IL LIRICO RESPIRO DELL’INTIMITÁ

GIOVANNI IUDICE. IL LIRICO RESPIRO DELL’INTIMITÁ

 di Filippo Musumeci

-Autore: Giovanni Iudice

-Opera: Seduta di fronte 

-Anno: 2004

-Tecnica: olio su tela

-Dimensioni: 60 x 30 cm.

-Ubicazione: Liguria, collezione privata

CARLA 2

«Dipingo per il pubblico, non per assecondarne i gusti. Che una mia opera piaccia o meno, importa poco. Ho però, in quanto artista, la responsabilità di mostrare a chi frequenta il mio lavoro il mondo per come lo vedo io». (Giovanni Iudice)

E io quel mondo l’ho visto, indagato, compreso. Ne ho assaporato ogni salmastra sfumatura, la ciclica matrice della sua natura; dei soggetti la forza evocativa, dei contenuti l’etica partitura. Dai disegni agli oli su tela, passando dalle dimesse scene di interni agli scorci dei paesaggi urbani, dalle intime sensualità dei nudi alle suggestive marine mediterranee, dai bagnanti del litorale gelese agli immigrati clandestini approdati sull’isola con tutto il carico del loro triste dramma. Eleggerne una piuttosto che un’altra, in un ventennio e oltre di attività figurativa, è una facoltà di cui non intendo avvalermi pur di non arrecar torto a nessuna delle opere partorite dal pennello del pittore siciliano.

Tuttavia, Iudice è inconsapevolmente artefice di un tormento che non mi dà pace.

Egli afferma che: «le opere sono come finestre, squarci aperti sul reale. Sono anzi delle realtà nuove, delle creature autonome paragonabili alle nostre fantasie».

5  4

2  3

E dalla sua fantasia nacque un’incantevole creatura che divorò da principio il mio sguardo e su di sé riversò devote attenzioni. Musa e modella di altri squisiti lavori, la figura è trasfigurata dallo stesso autore in una forma chiusa di struttura plastica, abilmente levigata e resa angelica da macchie di luce ambrate entro una cubatura spaziale maiolicata di cui avverto al tatto la sua lucida freddezza.
Il suo ripiegamento intimistico mi riporta ai nudi mitologici di Hippolyte Flandrin, allo spirito romantico in cui l’io si estrinseca e rivela senza indugi la propria identità.

6 7
Ma il languore melanconico di metà Ottocento è riletto da Iudice con nuova linfa mediante la frontalità proposta del soggetto, il quale si mostra agli sguardi altrui per fuggire l’oblio, componendo ciò che si attende: il lirico respiro dell’intimità.
A ciascuno la sua “Monnalisa!” Poiché di vivida ossessione si tratta e d’ignota vocazione si narra.

1

Per ignote vie un’opera, a dispetto d’una sua simile, s’impone e si annida nell’umano ventre; lo colonizza e certa ne traccia l’umore come in un campo il suo fertile seme.

E del suo soggetto s’ignara la scintilla primordiale che ne diede forma; l’idea ancestrale che ne segnò l’ora.

Nulla so di Lei: il nome, la mente, il cuore; la voce, l’epidermide, l’odore.

Eppur di Lei ne percepisco ogni leggiadro sibilo, ogni sospiro effimero.

Lei non sa d’esser spiata furtiva e che al dì memore resto ancora della sua lunga scia.

Lei non sa della brama ardente che commossa si muove in petto; dell’ermetico sigillo che serafico non confesso.

Lei non sa d’essere amata per quel roseo viso, che è il mio diletto, e per il quale silente compongo ogni lirico pensiero.

Iudice ebbe il dono della grafia; forgiò le tue membra dando loro vita.

Iudice definì il tuo corpo senza inganno; lo modellò con tocco velato fissando ogni più fedele dettaglio.

Entro un virginale ventre la tua posa, che di gaudiosa essenza n’è l’eterna dimora; entro geometrica ellisse sei sospesa, pura e nobile come una perla.

Non ti neghi, non ti nascondi, invero ti offri e t’imponi.

E l’umido ambiente ove sei ospitata nell’intimo maniero in mia visione si plasma, e ivi regni qual amata sovrana.

Iudice ponderò tinte cangianti per rilevarti in volume; ti accarezzò col tepore del suo particolare lume.

Iudice fissò l’estro del suo genio nei tuoi occhi; ne accese le oscure iridi come abissi profondi.

Prigioniero di cotanta alchimia, dunque, sono affetto e vergogna alcuna non desto al decantato tuo cospetto.

Fosti mia per labili attimi, fui tuo per cadenzati palpiti.

Mi lasciasti nudo d’ogni speme, ti lasciai contrito come atto di fede.

Non fui vittima di sterile ira, non fosti rea d’innocente pena.

Iudice già previde della sua arte l’effetto; la sostanza manifesta d’ogni vibrante zelo.

L’intimità che si apre al suo lirico respiro è, in cuor mio, “Seduta di fronte”: ne avverto come in quell’acerbo tempo il carezzevole battito sotto l’incarnata cromia e per una volta soltanto ancora desisto e torna ad esser mia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Scorcio su San Giorgio – Ragusa Ibla

Le matite colorate sono uno strumento di grande duttilità, permettono di graduare effetti diversi e offrono la possibilità di lavorare in modo estemporaneo o procedere con più livelli di ponderazione.
Il disegno di Maria Stella Tubère ci presenta la cupola del duomo di San Giorgio a Ragusa Ibla,

Dimensioni foglio: 24x33 cm Materiali: foglio liscio, matite colorate
Dimensioni foglio: 24×33 cm
Materiali: foglio liscio, matite colorate

visto da una prospettiva inusuale, dall’alto di una scalinata che scende a precipizio, ritmata dalla verticalità della ringhiera di ferro verso le luminose case ragusane. Intanto la chiesa, come una corona, si posa sui tetti irregolari creando un contrasto con i suoi elementi regolari e raffinati, tipicamente barocchi. Maria Stella è riuscita a creare un’immagine dinamica, dai colori nitidi e con campi contrastanti, stesure di colore sfumate o in alcuni casi nette.

La sua ricerca di dinamismo è ben presente anche in un altro disegno di Maria Stella, il Treno.

Dimensioni foglio: 24x33 cm Materiali: foglio liscio, matite colorate
Dimensioni foglio: 24×33 cm
Materiali: foglio liscio, matite colorate

chiaramente ispirato al Futurismo ed in particolare a Roberto Marcello Baldessari, autore di visioni futuriste con treni protagonisti come in quella qui riportata.

The train arriving at the station of Lugo, 1916 Roberto Marcello Iras Baldessari

Maria Stella ci ha lasciato anche uno splendido collegamento musicale e poetico

alla canzone “La locomotiva” di Francesco Guccini:

“E sul binario stava la locomotiva,
la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva,
sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno
mordesse la rotaia con muscoli d’ acciaio,
con forza cieca di baleno,
con forza cieca di baleno,
con forza cieca di baleno…”

Grazie Maria Stella

© RIPRODUZIONE RISERVATA

DE SENECTUTE

8-002
Generazioni, Valentina Falvo, Matita su carta

Ai vecchi
tutto è troppo.
[…]
Fine
e vigilia della fine chiedono
poco, parlano basso.

Mario Luzi (1914-2005)
Nell’opera del mondo: Quarta vita, Senior, vv. 1-2 e 5-7

Il nostro blog compie un anno, quale miglior modo di ricordare e segnare questo evento della presentazione di opere, forse meno note, ma capaci di dimostrare quanto sia vivo il fuoco dell’Arte in molti giovani artisti che ci hanno voluto rendere partecipi delle loro notevoli creazioni.

Partiamo con alcuni disegni di Valentina Falvo che si caratterizzano per  cura e  raffinatezza della tecnica ma ancora di più per la forte interiorizzazione dei soggetti.

I volti scolpiti dal tempo hanno insieme forza e fragilità, gli occhi rapiscono per la capacità di far vibrare un’intensa malinconia. Il tratto si adegua ad ogni piega con grande naturalezza.

Generazioni
Generazioni

Gli sguardi femminili a confronto mi fanno pensare alle opere di un grande maestro veneto: Giorgione.

Giorgione, Le tre età dell’uomo (1500-1501 ca.)

In particolare alle Tre età dell’uomo, tavola ad olio che rappresenta con potente naturalezza il mistero del tempo, allegoria presente anche in un altro famoso quadro del geniale maestro, quella Vecchia

Giorgione, Ritratto di vecchia (1506)

che con maggiore crudezza ricorda come il tempo sia impietoso con tutti.

Cercheremo di conoscere meglio Valentina Falvo ma intanto completiamo il percorso narrativo di Generazioni con il prossimo disegno.

Grazie ai nostri lettori e grazie a Valentina per aver condiviso con noi le sue opere.

Generazioni
Generazioni

© RIPRODUZIONE RISERVATA